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La richiesta di riammissione in servizio non è un diritto soggettivo del dipendente pubblico, ma una facoltà discrezionale dell’Amministrazione

di Vincenzo Giannotti – Dirigente Settore Gestione Risorse (umane e finanziarie) Comune di Frosinone

 

Il fatto

Un dipendente di ente locale a seguito di un lungo periodo di aspettativa aveva rassegnato le proprie dimissioni per gravi ragioni personali. Successivamente, entro due anni dalle dimissioni rassegnate, aveva chiesto, ai sensi dell’art. 26 CCNL del 14/09/2000 delle autonomie locali rubricato “ricostituzione del rapporto di lavoro”, la riammissione in servizio. L’amministrazione denegava la domanda ricevuta per motivi economico-finanziari. A seguito di successiva istanza del dipendente dopo altri due anni, anche a fronte delle assunzioni effettuate medio tempore dalla PA, l’Amministrazione rispondeva negativamente a fronte del blocco delle assunzioni disposto dalla normativa sopravvenuta. Avverso il citato rifiuto ricorreva, allora, il dipendente al giudice ordinario. Avverso il citato ricorso, sia il Tribunale di prime cure che la Corte di Appello riconoscevano come infondati i motivi addotti dal ricorrente, in considerazione del fatto che la citata riammissione non rappresentava per lui un diritto soggettivo, ma la sola tutela accordata dall’ordinamento poteva riguardare il solo ristoro dei danni cagionati da una eventuale violazione degli “obblighi strumentali” consistenti in un cattivo uso del potere discrezionale della PA. Tuttavia, nel caso specifico i provvedimenti di diniego erano stati congruamente motivati, sia avuto riguardo alla non disponibilità del posto, sia a fronte dei vincoli economico-finanziari, sia a seguito del sopravvenuto blocco delle assunzioni. In altri termini, per i giudici di appello, nel caso di specie non era configurabile alcun diritto soggettivo alla riammissione, ma la questione devoluta al giudice era soltanto quella di scrutinare la correttezza dell’esercizio da parte della PA, a fronte dell’esito negativo, della discrezionalità al fine di valutare la residua domanda risarcitoria del dipendente, domanda indennitaria non azionabile in considerazione delle corrette motivazioni addotte dalla PA. Avverso la citata sentenza ricorre il dipendente in Cassazione evidenziando gli errori in cui era incorsa la Corte territoriale, il primo desumibile dal diniego della forma reintegratoria in quanto, pur spettante il risarcimento del danno, in caso di cattiva gestione del potere di riammissione, lo stesso fosse traducibile nella forma della esecuzione specifica ex art. 2058 c.c..; il secondo avuto riguardo all’assenza di una congrua motivazione nel provvedimento di diniego, motivazione al contrario imposta dall’art. 3L. n. 241 del 1990.

Le motivazioni della Suprema Corte

Per la Suprema Corte le motivazioni del ricorso non appaiono meritevoli di attenzione in quanto infondate per le seguenti rilevanti ragioni:

In merito alla riammissione in servizio, quale obbligazione discendente dall’esecuzione specifica disposta dall’art. 2058 c.c., non può non evidenziarsi come la stessa ragione per escludere la sussistenza di un obbligo di riammissione (la ineludibile potestà di valutazione della Amministrazione Pubblica della opportunità-convenienza di ripristinare ex nunc un cessato rapporto di impiego) è alla base della radicale non configurabilità dell’esecuzione specifica dell’obbligo risarcitorio per mala gestio del potere valutativo, obbligo che garantisce la soddisfazione riparatoria indiretta delle attese del richiedente ad una corretta, completa, congrua valutazione della sua istanza;

Non appare pertinente, inoltre, il richiamo fatto dal ricorrente alla congrua motivazione prevista dalla L. n. 241 del 1990, in quanto l’atto di riammissione in servizio non rientra tra i provvedimenti amministrativi ma è qualificato come atto gestionale adottato con la capacità ed i poteri del privato datore di lavoro.

In altri termini, la possibile riammissione del dipendente dipenderà esclusivamente dalle autonome valutazioni discrezionali del datore di lavoro pubblico, sempre che vi sia l’effettiva disponibilità di un corrispondente posto vacante in organico. Nel caso di specie, precisano gli Ermellini, i giudici di appello hanno avuto cura di esporre, sinteticamente ma chiaramente, la sussistenza di ragioni chiare, esplicitate e veridiche delle ragioni dei dinieghi frapposti alla istanza di riammissione, non avendo violato la PA i criteri di buona fede e correttezza.

La Suprema Corte per le sopra esposte motivazioni rigetta il ricorso del convenuto ma, nonostante la soccombenza, dispone la compensazione delle spese di giudizio.

Annotazioni conclusive

Va precisato come la stessa ARAN aveva modo di precisare che, prima del contratto collettivo del 14/09/2000, la riassunzione in servizio del dipendente era disciplinata dall’art. 132D.P.R. n. 3 del 1957, per effetto dell’art. 3, comma 12, L. n. 537 del 1993, che espressamente ha esteso tale regolamentazione anche al personale dipendente dagli enti locali. L’art. 26 del CCNL citato si è limitato, pertanto, a riscrivere la disciplina dell’istituto della riammissione in servizio già previsto e regolamentato nel sopra citato art. 132 del Testo Unico degli impiegati civili dello Stato di cui al D.P.R. n. 3 del 1957. La disciplina dell’art. 26 del CCNL del 14.9.2000 ha una portata più limitata rispetto alle previsioni dell’art. 132 del T.U. n. 3 del 1957, in quanto la riammissione è prevista per il solo caso di cessazione del precedente rapporto di lavoro per effetto di dimissioni, e non anche per gli altri casi pure previsti nel citato art. 132 del T.U. n. 3 del 1957. Inoltre, in caso di riammissione, la quale rappresenta a tutti gli effetti nuova assunzione soggetta ai limiti del turn-over degli enti locali, viene esclusa la possibilità di riconoscere al dipendente riammesso in servizio sia la retribuzione individuale di anzianità sia gli altri eventuali assegni personali, anche di carattere continuativo e non riassorbibile, in godimento del dipendente all’atto della cessazione del precedente rapporto di lavoro.

 

 
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