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Conclusione del procedimento di pubblicazione degli strumenti urbanistici ed effetti sulla durata delle misure di salvaguardia
di Michele Deodati – Responsabile SUAP Unione Appennino bolognese e Vicesegretario comunale
 
Un’Amministrazione comunale ha disposto la sospensione dell’esame della richiesta di permesso di costruire presentata da una società, applicando le misure di salvaguardia. L’iniziativa comunale ha trovato giustificazione in quanto il Consiglio comunale ha adottato in passato una variante al locale Piano regolatore generale (PRG), in base alla quale l’area cui si riferiva la richiesta di permesso di costruzione veniva classificata come zona edificata satura.
Il giudizio di primo grado: interpretazione della conclusione della fase di pubblicazione
In primo grado, la società ha impugnato la decisione a sé sfavorevole, censurandola per difetto della motivazione, non essendo indicate le ragioni del contrasto della richiesta di permesso di costruire con il nuovo strumento urbanistico. Inoltre, si deduceva che l’applicazione delle misure di salvaguardia sarebbe stata disposta oltre il triennio consentito dall’art. 12, comma 3, del D.P.R. n. 380/2001. All’esito del giudizio di primo grado, il T.A.R. ha dato prevalenza alle disposizioni dell’art. 12 del D.P.R. n. 380/2001, secondo le quali, in caso di contrasto dell’intervento oggetto della domanda di permesso di costruire con le previsioni di strumenti urbanistici adottati, è sospesa ogni determinazione in ordine alla domanda. La misura di salvaguardia non ha efficacia decorsi tre anni dalla data di adozione dello strumento urbanistico, ovvero cinque anni nell’ipotesi in cui lo strumento urbanistico sia stato sottoposto all’amministrazione competente all’approvazione entro un anno dalla conclusione della fase di pubblicazione. Tale disposizione è stata ritenuta prevalente rispetto alla normativa regionale in materia, in forza di quanto ricavabile dall’Adunanza Plenaria n. 2/2008, per cui il termine quinquennale stabilito dal citato art. 12, comma 3, del D.P.R. n. 380/2001 va computato con riguardo alla conclusione dell’intera fase di pubblicità di tutti gli atti relativi alla delibera comunale, compresa la pubblicazione dell’avviso di deposito della pertinente documentazione presso gli uffici comunali, cosicché “il termine per impugnare la previsione della strumentazione generale decorre dal momento conclusivo dell’ultima misura conoscitiva messa in atto”. Sempre secondo la ricostruzione del giudice di primo grado, l’atto impugnato non era poi carente di motivazione, in quanto essa era implicita nella classificazione come “edificata satura” della zona in cui era collocato l’immobile.
L’appello al Consiglio di Stato: l’importanza di definire il momento della conclusione della fase di pubblicazione
La società ricorrente, rimasta soccombente in primo grado, ha proposto appello al Consiglio di Stato, che con la sentenza n. 5316 del 31 agosto 2020 lo ha accolto.
Il Collegio d’appello ha subito affrontato la questione del rapporto tra la normativa nazionale contenuta nell’art. 12 del Testo unico edilizia, sopra richiamata, e la normativa regionale in materia, ritenendo che il giudice di primo grado abbia correttamente ricostruito tale rapporto alla luce dei principi ricavabili dall’Adunanza Plenaria n. 2/2008. Malgrado ciò, il Consiglio di Stato non ha condiviso le conclusioni a cui è giunto il T.A.R. rispetto al computo della data di “conclusione della fase di pubblicazione”, ai fini della valutazione della tempestività della trasmissione dello strumento urbanistico “all’amministrazione competente all’approvazione”.
Per quanto attiene al regime di pubblicità della delibera consiliare di adozione dello strumento urbanistico, trova applicazione l’art. 9, comma 1, della L. n. 1150/1942, secondo cui “il progetto di piano regolatore generale del comune deve essere depositato nella segreteria comunale per la durata di 30 giorni consecutivi, durante i quali chiunque ha facoltà di prenderne visione”. Ne deduce la sentenza n. 5316/2020, che da tale disposizione non risulta alcun ulteriore obbligo di pubblicità a carico dell’Ente, in quanto il comma 2 si limita a prevedere che “fino a 30 giorni dopo la scadenza del periodo di deposito possono presentare osservazioni le associazioni sindacali e gli altri enti pubblici ed istituzioni interessate”. In definitiva – continua il Giudice d’appello – l’individuazione della data di conclusione della fase di pubblicazione cui si riferisce l’art. 12, comma 3, secondo periodo, del D.P.R. n. 380/2001 è espressa in modo inequivocabile dalle disposizioni del citato art. 9 della L. n. 1150/1942, con cui il legislatore non ha inteso disciplinare fasi di pubblicità ulteriori rispetto a quelle espressamente previste. Infatti, come ha chiarito in altro precedente il Consiglio di Stato, la pubblicità prevista da tale articolo “è finalizzata alla presentazione delle osservazioni da parte dei soggetti interessati al progetto di piano adottato dal Comune, ma non è richiesta, di regola, per le successive fasi del procedimento, anche se il piano originario risulti modificato a seguito dell’accoglimento di alcune osservazioni o di modifiche introdotte in sede di approvazione regionale” (Cons. Stato, sez. IV, 13 marzo 2014, n. 1241). A questo principio fa eccezione il caso dell’accoglimento delle osservazioni formulate dai soggetti privati interessati che comportino una profonda deviazione dai criteri posti a base del piano adottato: in tal caso, da detto accoglimento discende una modifica immediata dello strumento urbanistico, di cui occorre effettuare una nuova pubblicazione e la conseguente raccolta delle ulteriori osservazioni (cfr. Cons. Stato, sez. IV n. 1241/2014).
Una diversa lettura si porrebbe in contrasto con gli stessi indirizzi formulati da Adunanza Plenaria n. 2/2008, per la quale le amministrazioni locali devono definire tempestivamente l’iter procedimentale conseguente all’adozione degli strumenti urbanistici generali con il loro tempestivo invio agli organi deputati alla loro approvazione, in armonia con i criteri della trasparenza, efficacia, celerità ed economicità dell’azione amministrativa e, in generale, con gli ordinari canoni di buona amministrazione e nell’ottica dei principi di semplificazione e di non aggravamento del procedimento. In questo senso, l’art. 12 del D.P.R. n. 380/2001, “correlando agli eventuali ritardi burocratici un regime di minor favore” è “volto, essenzialmente, ad evitare le strumentalizzazioni che un non sollecito esercizio dell’azione amministrativa renderebbe possibile e (con contenuti in certo modo sanzionatori delle spesso defatiganti lungaggini amministrative) a favorire una maggiore responsabilizzazione degli amministratori locali”, anche al fine “di tutelare il valore costituzionale della proprietà e delle connesse facoltà edificatorie”.
Il Collegio, nella sentenza n. 5316/2020, ha perciò ritenuto che la decorrenza del termine che consente l’allungamento della vigenza delle misure di salvaguardia non possa essere condizionata da una mobilità suscettibile di compromettere il principio della ragionevole temporaneità delle misure di salvaguardia (v. anche Corte costituzionale 29 maggio 2013, n. 102). Questo perché “non sono ipotizzabili misure di salvaguardia prive di un limite temporale definito: qualunque sia l’interesse perseguito e tutelato con il piano oggetto dell’approvazione da parte dell’Amministrazione competente, non si può impedire al privato proprietario di godere e disporre dei propri immobili, in conformità alle previsioni urbanistiche, per un periodo di tempo indefinito, giungendosi, in caso contrario, ad una vera e propria cristallizzazione della situazione di fatto”.

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