29/10/2020 – Gli ambiti dell’intervento pubblico nell’organizzazione e nella gestione dei servizi alla collettività: il conflitto irrisolto tra mercato e tutela sociale dei bisogni della collettività

Gli ambiti dell’intervento pubblico nell’organizzazione e nella gestione dei servizi alla collettività: il conflitto irrisolto tra mercato e tutela sociale dei bisogni della collettività[1]
 
Carlo Deodato – Presidente di Sezione del Consiglio di Stato
Pubblicato il 28 ottobre 2020
 
1. – Premessa metodologica; 2. – L’equilibrato regime dei servizi pubblici di interesse generale nel diritto europeo; 3. – La configurazione “mercatista” dell’ordinamento nazionale; 4. – Considerazioni conclusive: la necessità che la libertà di amministrazione resti il principio cardine.
 
1. Premessa metodologica
Lo studio della classificazione, dei contenuti, delle finalità, dell’organizzazione e della gestione dei servizi pubblici ha affaticato gli studiosi del diritto pubblico fin dall’avvento del Welfare State, che ha aggiunto ai compiti tradizionali dello Stato liberale anche le prestazioni finalizzate a soddisfare i bisogni della collettività dei cittadini.
Il tema intercetta, nelle sue grandi linee di pensiero, la complessa disamina del diritto pubblico dell’economia e, segnatamente, l’analisi delle dinamiche della relazione dialettica tra Stato e mercato.
Non solo, ma si estende fino a incrociare profili dell’ordinamento degli enti locali, del diritto della concorrenza, del regime giuridico delle società a partecipazione pubblica e della normativa dei contratti pubblici.
Lungi dall’esaminare funditus le questioni implicate dall’argomento, l’intervento resta circoscritto all’analisi del tema della disciplina dei servizi pubblici con la lente del diritto europeo.
In particolare, il presente contributo sarà concentrato sulla identificazione del perimetro dell’intervento pubblico nell’organizzazione e nell’amministrazione dei servizi alla collettività, per come tracciato dal diritto dell’Unione (senza trascurare, tuttavia, quello nazionale).
Le riflessioni che seguono non trascureranno, peraltro, la peculiare questione delle relazioni (sovente confliggenti) tra le esigenze “sociali” connesse alla gestione dei servizi pubblici e le istanze di tutela del mercato, per come regolate dal diritto positivo (europeo e domestico).
La configurazione di un assetto regolativo equilibrato risulta, infatti, minata dalla costante (e, per certi versi, non risolvibile) tensione tra la necessità di assicurare i caratteri della universalità, della parità di accesso, della qualità delle prestazioni e della continuità nella loro erogazione e l’esigenza di proteggere, allo stesso tempo, un accesso libero e competitivo degli operatori al mercato della gestione dei servizi di rilevanza economica. 
Non sfuggiranno, peraltro, la rilevanza e l’attualità della questione trattata, che merita, perciò (anche per le sue implicazioni “politiche”), un’analisi laica e scevra da pregiudizi.
Quest’ultimo riferimento è indirizzato a una certa corrente di pensiero che legge il diritto europeo con una chiave di preferenza (assoluta) per il mercato e per la concorrenza e che riduce, di conseguenza, l’opzione dell’intervento pubblico a una modalità secondaria, subordinata o, comunque, eccezionale.
Si tratta di una esegesi per molti versi ideologica e dogmatica, ma che, in ogni caso, non trova riscontro nel diritto positivo dell’Unione.
Una disamina oggettiva di quest’ultimo conduce, infatti, alla diversa conclusione che non esiste una preferenza assoluta per il mercato e per la concorrenza nella gestione dei servizi pubblici e che, anzi, l’intervento delle autorità pubbliche nell’amministrazione dei servizi alla collettività è ammesso entro ambiti rilevanti e significativi, sicuramente più larghi da quelli che si è indotti a ritenere in esito a un esame superficiale o viziato da un preconcetto favore per il mercato.
Occorre, tuttavia, anche riconoscere, per altro verso, che sia le interpretazioni della Commissione Europea e, talvolta, della Corte di Giustizia, sia (soprattutto) il recepimento del diritto europeo nell’ordinamento nazionale (così come alcuni pronunciamenti della Corte Costituzionale) scontano una visione mercatista e proconcorrenziale, contribuendo, così, a restringere il perimetro dell’intervento pubblico, per come invece ammesso dal diritto positivo dell’Unione.
Rimane, invece, estranea ai confini della presente analisi, una disamina compiuta della (controversa e ancora incerta) nozione di servizio pubblico (che patisce l’assenza di una definizione legislativa), così come uno studio dettagliato ed esauriente della sua disciplina normativa e delle sue implicazioni problematiche[2]
 
2. L’equilibrato regime dei servizi pubblici di interesse generale nel diritto europeo  
L’analisi del Trattato sul funzionamento dell’UE ci consegna un quadro regolatorio composito, ma chiaro[3].
Per un verso, infatti, l’art.119 enuncia, quale principio generale di politica economica al quale deve conformarsi l’azione degli Stati membri e dell’Unione, quello di “un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza”; per un altro, tuttavia, gli artt.14 e 106 ammettono un sistema speciale, più che derogatorio ed eccezionale, di sottrazione al mercato dei servizi economici di interesse generale[4].
Corollari, o, meglio, declinazioni, del primo principio sono le regole antitrust (art. 101 e 102 TFUE), la disciplina sugli aiuti di stato distorsivi della concorrenza (art. 107) e le libertà stabilite a presidio del corretto funzionamento del mercato interno: libertà di stabilimento (art.49) e libera prestazione dei servizi (art.56).
Si tratta di un sistema di regole e principi finalizzati a garantire un pieno, libero e paritario accesso al mercato.
D’altra parte, tuttavia, per lo stesso Trattato, il mercato non è un dogma indiscutibile e un paradigma indefettibile.
Il combinato disposto degli artt.14 e 106, paragrafo 2, in particolare, riconosce che la gestione dei servizi di interesse economico generale (d’ora innanzi SIEG), per l’importanza che rivestono per i valori comuni dell’Unione e in quanto finalizzati alla promozione della coesione sociale e territoriale (come precisato, peraltro, anche dall’art.36 della Carta di Nizza), può derogare alle regole della concorrenza.
Seppur costruita e formulata in modo contorto, la previsione del secondo paragrafo dell’art.106 autorizza l’affidamento a un’impresa, senza il rispetto delle regole sulla concorrenza, della gestione di un SIEG, purché l’incarico sia giustificato dalla necessità di adempiere la relativa missione; o, più esattamente, nelle ipotesi in cui il rispetto delle regole del mercato impedirebbe di soddisfare i bisogni collettivi (di universalità e accessibilità al servizio) sottesi alla istituzione di un SIEG.
Il protocollo n.26 ha, peraltro, ulteriormente precisato gli spazi di operatività dell’istituto, riconoscendo espressamente “il ruolo essenziale e l’ampio potere discrezionale delle autorità nazionali, regionali e locali di fornire, commissionare e organizzare SIEG il più vicini possibile alle esigenze degli utenti.”
Tale previsione conferma la rilevanza che l’ordinamento dell’Unione riconosce ai SIEG, in relazione alla loro funzione di coesione, e la conseguente cedevolezza, rispetto alle istanze di una loro efficiente gestione, delle regole del mercato.
In difetto di una regolazione attuativa dell’art.14, la disciplina del SIEG si ricava, in via indiretta, dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia sulla stessa rilevanza economica del servizio[5] nonché sulla compatibilità con il regime degli aiuti di Stato della compensazione degli obblighi di servizio pubblico (OSP).
In particolare, con la sentenza Altmark (24 luglio 2003, causa C-280/2000) la Corte di Giustizia ha identificato quattro criteri cumulativi ai fini del riconoscimento della coerenza degli oneri di compensazione con la disciplina degli aiuti di Stato (tutti preordinati ad assicurare che le compensazioni degli OSP non alterino la fisiologia del mercato).
In esito a quella decisione, la Commissione ha approvato decisioni e comunicazioni finalizzate a chiarire le regole della compliance con il regime degli aiuti di Stato, stabilendo, in particolare, un regime di trasparenza delle relazioni finanziarie tra l’autorità pubblica che assegna l’incarico e l’impresa affidataria e, soprattutto, parametri preordinati a evitare sovracompensazioni, distorsive, come tali, della concorrenza.
Ora, è vero che tutta la disciplina del SIEG si fonda sull’esigenza di evitare che l’impresa incaricata della gestione di un servizio, e la cui natura pubblica o privata resta indifferente (art. 345 TFUE), ottenga un indebito vantaggio dall’affidamento e che, quindi, andrebbe applicata in senso restrittivo; ma è anche vero che la scelta relativa all’istituzione di un SIEG viene espressamente rimessa alla scelta sovrana dello Stato membro, che tale decisione è sindacabile solo per “errore manifesto”, che la identificazione degli interessi generali viene rimessa a una decisione discrezionale dello Stato, che viene ammesso, comunque, un margine di utile ragionevole e non sproporzionato e che gli interessi dell’Unione vengono configurati come limiti (solo) esterni al potere degli Stati membri di istituire un SIEG (si veda, ex multis, Corte di Giustizia UE, sez. I, 8 marzo 2017, n.660).
Rimane, tuttavia, nella giurisprudenza della Corte di Giustizia la regola dell’imposizione allo Stato membro dell’onere della prova in ordine alla compatibilità dell’istituzione di un SIEG, e, in particolare, del finanziamento pubblico dell’impresa titolare dell’affidamento, con le regole del mercato e della concorrenza (si veda, ex multis, Corte di Giustizia UE, sez. I, 3 aprile 2014, n.559).
Va, nondimeno, segnalato che, ancorchè l’istituzione di un SIEG resti condizionata dall’inidoneità del mercato a soddisfare in maniera efficace ed efficiente i bisogni sottesi a quel servizio, l’art.4 della direttiva 23/2014 sulle concessioni riserva esplicitamente agli Stati membri la “libertà” di individuare i SIEG.
L’istituzione di un SIEG rimane, in definitiva, rimessa alla scelta ampiamente discrezionale degli Stati membri, ancorchè necessiti della sua coerenza con il regime degli aiuti di Stato (secondo i parametri precisati dalla Corte di Giustizia), con la conseguenza che la relativa decisione dovrebbe restare limitatamente sindacabile dalla Commissione.
Solo per completezza espositiva, merita di essere ricordato che, al contrario dei SIEG, i servizi di interesse generale (SIG) sfuggono al perimetro della regolazione del mercato interno e della concorrenza, in quanto afferenti a prestazioni – tipicamente statuali – prive di rilevanza economica, quali le funzioni di polizia, di istruzione o di giustizia.
Ancora più significativa, sotto il profilo esaminato, si rivela la disciplina europea dei contratti di appalto e delle concessioni, che pure, in una certa misura, concerne i servizi pubblici.
Le direttive del 2014, infatti, hanno cristallizzato la disciplina dell’in house providing[6], codificando gli esiti di una lunga elaborazione giurisprudenziale della Corte di Giustizia e offrendo un quadro normativo di certezza a un modello di gestione che fino a quel momento era stato affidato proprio alle elaborazioni dei giudici di Lussemburgo[7].
Senza entrare nel dettaglio della disciplina, ciò che più rileva segnalare è che, oltre ad aver precisato i due noti requisiti della sentenza Teckal (il controllo analogo e l’attività prevalente), la disciplina del 2014 ha chiaramente equiparato il modello del ricorso al mercato a quello della autoproduzione del servizio.
Lo si ricava, in particolare, dall’enunciazione del principio di libera amministrazione, all’art.2 della direttiva 2014/23, che espressamente sancisce la libertà delle amministrazioni di scegliere tra i modelli, equiordinati, della esternalizzazione, della autoproduzione (in house) o della cooperazione tra amministrazioni.
Il principio di libera amministrazione implica (rectius: dovrebbe implicare) alcuni corollari: a) non sussiste alcun obbligo per le amministrazioni di affidare a operatori economici terzi i servizi che esse intendono prestare in via diretta, purché, ovviamente, ricorrano i presupposti per quest’ultimo modulo di gestione (considerando 5 della direttiva 2014/24 e Corte di Giustizia, sentenza in C-480/06); b) la scelta tra le diverse opzioni è rimessa a una decisione libera delle amministrazioni e non è sindacabile; c) sotto un profilo strettamente logico, la scelta del mercato è sussidiaria o, addirittura, come ritiene qualcuno, cedevole, rispetto a quella dell’autoproduzione, nel senso che l’indizione della gara è subordinata all’opzione negativa della gestione del servizio in house; d) le regole della concorrenza operano solo se l’amministrazione ha scelto di esternalizzare il servizio; e) non esiste alcuna preferenza per la concorrenza e, quindi, l’opzione dell’autoproduzione del servizio non può essere considerata una eccezione alla regola del mercato, obbedendo, invece, alla diversa e concorrente regola dell’autoorganizzazione delle pubbliche amministrazioni.
Merita, ancora, di essere segnalato che, rispetto alla proposta della Commissione, il testo finale delle direttive del 2014, dopo l’esame da parte del Parlamento europeo e del Consiglio, ha ampliato le condizioni che legittimano il ricorso all’autoproduzione, con una chiara manifestazione politica di favore per la gestione diretta dei servizi da parte delle amministrazioni pubbliche.
Per completare il quadro del diritto europeo in ordine all’intervento pubblico nella gestione dei servizi alla collettività, resta da ricordare che le medesime direttive hanno ammesso, come modello organizzativo, quello della cooperazione orizzontale tra amministrazioni, previsto dall’art.12, par.4, 2014/24.
Si tratta di una ulteriore opzione di gestione dei servizi, alternativa ed equivalente rispetto al ricorso al mercato e all’affidamento ad operatori economici privati.
Anche in questo caso, alle condizioni precisate nella direttiva, la scelta resta libera, con la conseguenza che, se viene scelto tale modulo cooperativo in ambito pubblico, la gestione del servizio resta estranea al perimetro dell’ambito applicativo della direttiva sugli appalti.
Come si vede, quindi, il diritto europeo riserva un rilevante ambito all’intervento pubblico nell’organizzazione e nella gestione dei servizi pubblici di interesse generale che, alle condizioni prescritte, prescinde dall’osservanza assoluta dei precetti del mercato interno e della concorrenza.
Sia con riferimento ai SIEG, sia con riguardo all’in house providing, infatti, il diritto dell’Unione disegna un sistema di regole alternativo, equiordinato, o, comunque, non subordinato, a quello del mercato interno e della libera circolazione, la cui attivazione viene rimessa, in buona misura, alla libera e sovrana decisione degli Stati membri.
Peraltro, anche nei settori liberalizzati e regolamentati, come quello postale, la rilevanza dell’esigenza dell’indefettibile erogazione del servizio a tutti gli utenti ha indotto a prevedere, nelle ipotesi di “fallimento del mercato”, ambiti di servizio universale, nei quali la compensazione degli oneri del servizio pubblico resta a carico dello Stato.
Si tratta di situazioni in cui, per la loro peculiarità, il mercato non risulta capace di assicurare standard minimi di servizio agli utenti, sicchè, anche nei settori aperti alla concorrenza, si prevede un intervento dello Stato per garantire prestazioni adeguate alla collettività.
Come si vede, il diritto europeo è stato costruito su un assetto equilibrato, capace di coniugare le istanze di tutela del mercato interno e della concorrenza con quelle di protezione degli indefettibili principi di universalità e accessibilità che devono governare l’erogazione alla collettività dei servizi essenziali. 
 
3. La configurazione “mercatista” dell’ordinamento nazionale
Quanto al diritto nazionale, occorre distinguere il diritto della Costituzione dalla legislazione ordinaria[8].
Mentre, infatti, la Costituzione[9], all’art. 43, contempla espressamente l’intervento pubblico con riferimento a servizi pubblici essenziali, ammettendo anche la creazione di monopoli quando servano a realizzare un preminente interesse generale, con un lessico che richiama (meglio: anticipa) le previsioni europee sui SIEG, la legislazione ordinaria è concepita e strutturata sulla base di un paradigma di favore per il mercato e per la concorrenza, e con la corrispondente riduzione dell’intervento pubblico nella gestione dei servizi pubblici a un ruolo secondario ed eccezionale[10].
Merita evidenziare, fin da ora, che la legislazione nazionale ha introdotto una serie di limitazioni, oneri, adempimenti, non prescritti dal diritto europeo, preordinati a circoscrivere a ipotesi residuali, o, comunque, eccezionali e derogatorie, le opzioni di gestione diretta dei servizi alla collettività da parte delle amministrazioni.
La disciplina delle società pubbliche (d.lgs. n. 175 del 2016) ha introdotto uno specifico regime normativo per le società in house, prevedendo, in particolare agli artt.4 e 5, le finalità per cui possono essere costituite società pubbliche e imponendo un onere motivazionale stringente, da assolversi nell’atto deliberativo, in ordine alla necessità della costituzione della società per il perseguimento delle finalità istituzionali dell’ente nonché in merito alla convenienza economica, all’efficienza e all’efficacia della scelta.
L’art.16 del testo unico detta, poi, alcune precise regole sull’assetto organizzativo delle società in house e introduce limiti alle attività ulteriori rispetto a quelle svolte, in misura superiore all’80%, in favore dell’ente pubblico o degli enti pubblici che la controllano.
Nel codice dei contratti pubblici, inoltre, sono stati previsti, all’art. 5, i presupposti che autorizzano l’autoproduzione del servizio, in coerenza con le direttive, e, all’art.192, un registro, tenuto dall’ANAC, destinato a raccogliere l’iscrizione delle amministrazioni che decidono di gestire i servizi in house e, soprattutto, al comma due, l’onere di esplicitare le ragioni del mancato ricorso al mercato e dei benefici derivanti alla collettività dalla gestione diretta, e, quindi, una motivazione relativa a requisiti non previsti dalle direttive.
La disciplina dei servizi pubblici locali (art.34, commi 20 e ss., d.l. n.179 del 2012), infine, per come cristallizzata dopo un tormentatissimo percorso di stratificazione normativa[11], che ha pure conosciuto un referendum abrogativo e diverse dichiarazioni di incostituzionalità[12], pur ammettendo la selezione libera tra le diverse opzioni gestorie, purché rispettosa del diritto europeo, contempla anche una previsione di favore per l’affidamento del servizio in regime di concorrenza.
L’art.3 bis, comma 3, d.l. n. 138 del 2011 prevede, infatti, una regola di favore finanziaria e contabile per gli enti locali che decidono di esternalizzare i servizi, sulla base del presupposto (chiaro, ancorchè implicito) che sia più economico, con ciò inducendo, seppur indirettamente, un regime di favore per l’affidamento a terzi; così come il comma 4 della medesima disposizione riconosce carattere prioritario alla erogazione di finanziamenti statali in favore di gestori di servizi pubblici locali selezionati in esito a procedure di evidenza pubblica.
Entrambe tali disposizioni sottendono un chiaro disfavore per le gestioni in house, nella misura in cui producono effetti giuridici e finanziari di vantaggio per gli enti locali che hanno deciso di affidare, tramite gara, i servizi pubblici a operatori economici terzi, nonché in favore di questi ultimi.  
Sono tutti casi di goldplating, giustificati con l’esigenza (ancorchè non imposta dal diritto europeo) di garantire con strumenti più efficaci il mercato e la concorrenza.
Si tratta, come si vede, di un ribaltamento del principio di libertà di amministrazione enunciato dalle direttive e riconosciuto come principio generale dalla stessa giurisprudenza della Corte di Giustizia, con una alterazione del canone della equiordinazione delle regole della concorrenza e della autoproduzione, mediante l’introduzione di un diverso schema che assegna al mercato valenza primaria e alla autorganizzazione dei servizi valore secondario o, comunque, eccezionale.
Se ne è avveduto il Consiglio di Stato, che ha rimesso alla Corte di Giustizia la questione pregiudiziale della compatibilità con il principio europeo della libera amministrazione e della equivalenza delle modalità di gestione dei servizi pubblici dell’art.192, comma 2, del codice dei contratti pubblici nella misura in cui condiziona gli affidamenti in house alla dimostrazione del fallimento del mercato e alla esplicitazione delle ragioni di convenienza per la collettività di tale forma di affidamento[13].  
Ora, se è vero che la stessa Corte Costituzionale ha riconosciuto la compatibilità costituzionale di un regime normativo che garantisce standard più elevati di tutela del mercato, posto che il diritto europeo prescrive livelli minimi di garanzia della concorrenza, ma non vieta l’introduzione di norme più avanzate di tutela di quel valore, è anche vero che il diritto europeo protegge anche, insieme alla concorrenza, il principio di libertà di amministrazione, che, con la regolazione nazionale descritta, pare inficiato e violato.
Nella misura in cui si onera l’amministrazione di una prova diabolica circa l’inidoneità del mercato a garantire un determinato servizio, prima di procedere alla sua autoproduzione, si finisce, a ben vedere, per sminuire, se non per annullare, la libertà che il diritto europeo ha affidato all’amministrazione circa la scelta di organizzazione dei servizi che ad essa compete garantire alla collettività.
La valutazione dei giudici di Lussemburgo, che si risolveva, a ben vedere, nel giudicare se il principio europeo di equivalenza delle forme di affidamento dei servizi pubblici resti o meno rispettato da una legislazione nazionale che stabilisce una gerarchia, non prevista dal diritto europeo, tra la esternalizzazione e l’autoproduzione del servizio, è stata cristallizzata nell’ordinanza 6 febbraio 2020 (nelle cause C-89/19, C-90/19, C-91/19 – Rieco S.p.A.).
La Corte europea ha, per quanto qui interessa, ritenuto (richiamando i principi già enunciati nella sentenza Irgita) che la regola della libertà di scelta delle modalità di prestazione dei servizi sancita dal considerando n.5 della direttiva n.2014/24/UE e dall’art.2, par. 1, della direttiva n.2014/23/UE dev’essere intesa (anche) come libertà degli Stati membri di disciplinare discrezionalmente le modalità di organizzazione e di gestione dei servizi ed applicata in ossequio alle regole fondamentali del Trattato UE, oltre chè in coerenza con la disciplina dell’in house providing cristallizzata all’art.12, par. 1, della direttiva n.2014/24/UE, e, quindi, non osta a una disciplina nazionale, quale quella contenuta negli artt.192, comma 2, d.lgs. n.50 del 2016 e 4, comma 1, d.lgs. n.175 del 2016 (che restano, quindi, immuni da vizi di contrasto con il diritto dell’Unione).
Tali disposizioni, infatti, secondo i giudici di Lussemburgo, introducendo un regime “aggravato” per il ricorso all’opzione di un’operazione interna (in house), non possono intendersi confliggenti con il regime positivo delle direttive di riferimento che, ancorchè non prescrittive degli oneri ulteriori stabiliti dal legislatore nazionale italiano per l’anzidetta modalità di gestione, ammettono una loro trasposizione che, entro gli ampi spazi di libertà riconosciuti agli Stati membri, risulti rispettosa dei principi generali di tutela del mercato interno (e, in particolare, della libertà di stabilimento e della libera prestazione dei servizi) e della concorrenza.
Si deve, ancora una volta, registrare un approccio ermeneutico che predilige un’esegesi restrittiva del diritto positivo, in favore di un’applicazione estensiva e generalizzata dei principi generali relativi a uno sviluppo concorrenziale del mercato interno[14].  
Pur in difetto di una previsione europea che limiti il ricorso alla gestione diretta con condizioni ulteriori rispetto a quelle stabilite dalla giurisprudenza poi legificata nella direttiva sulle concessioni, la Corte di Lussemburgo ha, nondimeno, giudicato compatibile con il diritto dell’Unione una disciplina nazionale che introduca requisiti e adempimenti non previsti dal diritto europeo per la gestione diretta (in house).
E lo fa attingendo a principi fondamentali del Trattato (e, segnatamente, alle libertà afferenti al funzionamento del mercato interno), che dovrebbero essere già assorbiti dalla disciplina positiva consacrata nelle direttive di riferimento.
Resta, così, confermata l’impressione che le interpretazioni delle alte Corti scontano (e obbediscono a) un paradigma proconcorrenziale, anche quando estraneo alla disciplina positiva di riferimento o, comunque, già in essa considerato e compreso.
Al pronunciamento della Corte di Giustizia sopravvive, in ogni caso, integro il principio di libertà di amministrazione (e non avrebbe potuto essere altrimenti), sicchè, non solo il regime aggravato dell’in house introdotto dal Legislatore italiano non può intendersi imposto dal diritto europeo, ma quest’ultimo continua a fondarsi sulla libertà di scelta tra i diversi moduli di gestione offerti dalla direttiva all’opzione discrezionale delle autorità nazionali.
Tale principio dovrà, pertanto, continuare a presidiare la regolazione futura di gestione dei servizi pubblici, che potrà, sì, contemplare regimi più avanzati di tutela del mercato, ma con la consapevolezza che le relative scelte politiche non sono imposte dal diritto positivo dell’Unione (e rischiano di entrare in frizione con esso).  
 
4. Considerazioni conclusive: la necessità che la libertà di amministrazione resti il principio cardine
Si ricava, in conclusione, l’impressione di un regime schizofrenico, o, comunque, instabile e incerto, che sconta, oltre a divergenti approcci “politici”, le difficoltà implicate da una materia che incrocia il regime dei contratti pubblici, la tutela dei bisogni fondamentali della collettività e delle persone che la compongono, l’organizzazione amministrativa dei servizi alla comunità e la protezione del mercato.
Per un verso, infatti, il diritto positivo europeo, così come la Costituzione italiana, ammettono spazi rilevanti di intervento pubblico nella organizzazione e nella gestione dei servizi pubblici (a tutela della coesione sociale e dei diritti fondamentali dei cittadini utenti); per un altro verso, invece, la legislazione ordinaria nazionale riduce di molto quegli ambiti e, soprattutto, configura la gestione pubblica dei servizi alla collettività come un’opzione eccezionale e subordinata, rispetto alla selezione concorrenziale e di mercato degli operatori incaricati dell’erogazione delle prestazioni.
Quest’ultimo approccio pare, inoltre, seguito anche dalle istituzioni nazionali ed europee chiamate a giudicare la compatibilità con il diritto europeo degli interventi pubblici nella gestione dei servizi essenziali.
Ci asteniamo dal giudicare, su un piano di politica industriale, se sia più o meno conveniente, per gli interessi generali, il ricorso al mercato o la gestione in house dei servizi pubblici, ma non possiamo non registrare la discrasia tra l’ordinamento normativo europeo e la sua declinazione nazionale.
La sintetica ricognizione che precede vale, inoltre, a ridimensionare il dogma, di presunta matrice europea, del mercato e della concorrenza, quale paradigma assoluto del diritto dei servizi pubblici, e a restituire alla questione del perimetro dell’intervento pubblico nella gestione dei servizi alla collettività i criteri di esame più appropriati (e veritieri).
La crisi economica indotta dalla pandemia in atto consiglia, peraltro, di rimeditare l’approccio di favore per il mercato e di considerare l’intervento pubblico come un’opzione più coerente con la garanzia dell’erogazione universale e necessitata di prestazioni connotate da standard minimi di qualità.
Resta, da ultimo, da osservare che non sempre il ricorso al mercato risulta più conveniente ed economico, rispetto alla gestione pubblica dei servizi alla collettività, purché, ovviamente, quest’ultima obbedisca a criteri di buona amministrazione, di trasparenza finanziaria, di efficienza e di contenimento dei costi di funzionamento delle società pubbliche[15], ciò che spesso, occorre ammetterlo, non è avvenuto (soprattutto in Italia).
In ogni caso, e per concludere, appare più coerente con i principi generali rimettere all’autonomia organizzativa delle pubbliche amministrazioni la scelta (che resta discrezionale, ma che non può, in ogni caso, ignorare, tra gli altri, il principio costituzionale della sussidiarietà orizzontale[16]) delle modalità e degli strumenti di realizzazione dei suoi fini istituzionali, tra i quali dev’essere senz’altro annoverata anche la soddisfazione dei bisogni essenziali della collettività degli amministrati.
La libertà sancita dal diritto europeo nella scelta del modello di gestione più appropriato obbedisce proprio all’esigenza di affidare all’autorità titolare della funzione la responsabilità (anche politica) di identificare, nella situazione concreta, la forma più utile di erogazione del servizio.
Un’amministrazione avveduta dovrà valutare se gli interessi generali (tutti) implicati dall’erogazione del servizio vengano soddisfatti meglio dalla esternalizzazione, dalla gestione diretta, da forme di partenariato con il privato o dalla cooperazione con altre amministrazioni, ma, all’interno di questo perimetro, deve restare libera. 
Carlo Deodato
Presidente di Sezione del Consiglio di Stato
Pubblicato il 28 ottobre 2020
 

[1] Il presente studio è tratto dalla relazione tenuta al Convegno su “Diritti sociali e servizi pubblici nel Mediterraneo”, Palazzo Spada, 2 aprile 2019.
[2] Per una compiuta disamina del diritto dei servizi pubblici si veda S. Cattaneo, Servizi pubblici, in Enc. Dir., Milano, 1990; G. Napolitano, Servizi pubblici e rapporti di utenza, Padova, 2001; E. Scotti, Servizi pubblici locali, voce in Digesto delle discipline pubblicistiche, 2011.
[3] F. Trimarchi Banfi, Lezioni di diritto pubblico dell’economia, 2019.
[4] M. Clarich, I servizi pubblici e diritto europeo della concorrenza: l’esperienza italiana e tedesca a confronto, in Riv. trim. dir. pubb., 2003; G. Caia, Servizi pubblici locali, In Libro dell’anno del diritto, Treccani, 2017.
[5] Corte di Giustizia UE, cause riunite C-180/98 e C-184/98 – Pavel e altri, in data 12 settembre 2000).
[6] Per una compita ricostruzione dell’istituto dell’in house providing, si vedano R. De Nictolis, Appalti pubblici e concessioni, Bologna 2020, 229 ss.; M. Pizzi, in Trattato sui contratti pubblici, diretto da Sandulli_-De Nictolis, I, Fonti e principi, ambito, programmazione e progettazione, Milano, 2019, 855 ss.
 
[7] Si vedano, in particolare, la sentenza Teckal (18 novembre 1999, in causa C- 107/98) e, da ultimo, la sentenza Irgita (3 ottobre 2019, in causa C- 285/18).
[8] Per una disamina generale delle relazioni tra mercato e gestione dei servizi pubblici, si veda F. Cintioli, Concorrenza, istituzioni e servizio pubblico, Milano 2010.
[9] S. Cassese, La nuova Costituzione economica, Bari, 2011.
[10] F. Trimarchi Banfi, Procedure concorrenziali e regole di concorrenza nel diritto dell’Unione e nella Costituzione (all’indomani della dichiarazione di illegittimità delle norme sulla gestione dei servizi pubblici economici), in Riv. trim. dir. pubbl. comunit., 2012.
[11] M. Dugato, L’imperturbabile stabilità dei servizi pubblici e l’irresistibile forza dell’ente pubblico, Munus, 2012.
[12] Si veda, in particolare, Corte Cost., sentenza n.199 del 2012, con cui è stato dichiarato incostituzionale l’art.4 del d.l. n.138/2011, in quanto sostanzialmente riproduttivo dell’art.23-bisd.l. n.112/2008, abrogato in esito al referendum del 2011.
[13] Cons. St., sez. V, ordinanza 14 gennaio 2019, n.293.
[14] La necessità di un’esegesi e di un’applicazione restrittive della normativa relativa all’in house providing è avvertita e suggerita dal Consiglio di Stato nel parere n.1389 del 7 maggio 2019. 
[15] M. Midiri, Servizi pubblici locali e sviluppo economico: la cornice istituzionale, in Servizi pubblici locali e regolazione, a cura di M. Midiri e S. Antoniazzi, Napoli, 2015.
[16] A. D’Atena, Sussidiarietà orizzontale e affidamento in house, nota a Corte Costituzionale n.438/2008, in Giur. Cost., 2008, fascicolo 6.
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