29/10/2020 – Cassa integrazione nella PA: una necessità sempre più evidente

Cassa integrazione nella PA: una necessità sempre più evidente
La nuova fase di smart working della PA deve prevedere situazioni in cui applicare forme di cassa integrazione, peraltro già attivabili in base a norme esistenti. E magari creare fondi di cig ordinaria, come nel privato
  • 28 OTTOBRE 2020
di Luigi Oliveri
 
Egregio Titolare,
questi pixel non vogliono addentrarsi nell’esame della questione relativa all’opportunità di introdurre addizionali o forme di solidarietà a carico del lavoro pubblico, per non scatenare poco utili tifoserie. Il problema che si pone è recuperare risorse, riducendo ove possibile anche spese, allo scopo di non continuare a far salire sempre il debito.
Siccome la spesa per retribuzioni si aggira intorno al 20% del totale della spesa pubblica, agire su questo versante è una questione da analizzare, perché quando si regola il rapporto di lavoro pubblico contestualmente si compiono anche decisioni di politica economica.
Ora, una cosa nei mesi scorsi di lock down vero non ha funzionato in maniera plausibile: lo smart working d’emergenza. Lo ricordiamo: tanto di emergenza che di fatto si dispose a tutti i dipendenti pubblici di stare a casa, senza valutazione preventiva alcuna della compatibilità tra funzioni svolte e lavoro agile, senza curarsi della disponibilità di connessioni internet veloci, senza valutare la sussistenza di piattaforme ed applicativi idonei, senza disporre di progetti lavorativi capaci di indicare task valutabili. Persino, senza curarsi dei strumenti hardware, tanto che il d.l. 18/2020 di fatto chiese ai dipendenti di mettere a disposizione i propri.
È evidente che in queste condizioni da qualche parte il lavoro agile emergenziale ha prodotto falle, rallentamenti, blocchi.
Accanto a queste disfunzioni (che la normativa contenuta nel decreto “rilancio” vuole evitare, limitando lo smart working alle sole attività censite come effettivamente compatibili con questo modo di lavorare), si introdusse una disposizione particolarmente eccentrica, contenuta nell’articolo 87, comma 3, del d.l. 18/2020: si stabilì che esauriti i permessi e le ferie (con lo scatenamento del putiferio sulle ferie fruibili pro quota…) “le amministrazioni possono motivatamente esentare il personale dipendente dal servizio”. Non “sospendere” il rapporto di lavoro, ma “esentare” il dipendente, con conservazione del diritto alla piena retribuzione.
Non risultano esistere dati che informino del numero dei dipendenti pubblici a suo tempo esentati: il che è male, perché si tratterebbe di un’informazione estremamente preziosa. Non si ha ragione di ritenere si sia trattato di grandi quantità, ma comunque sarebbe corretto disporre di un censimento, per capire l’ammontare della spesa connessa.
Anche se, come rilevato sopra, la normativa di fine estate e inizio autunno punta ad uno smart working non più emergenziale e mirato, resta comunque il problema della piena compatibilità con le mansioni svolte. Non è un caso che il Decreto Ministeriale del 19 ottobre 2020, a firma del Ministro Fabiana Dadone, esorta i dirigenti delle amministrazioni ad adottare
[…] nei confronti dei dipendenti di cui all’articolo 21-bis, del decreto-legge 14 agosto 2020, n. 104, convertito, con modificazioni, dalla legge 13 ottobre 2020, n. 126, nonché, di norma, nei confronti dei lavoratori fragili ogni soluzione utile ad assicurare lo svolgimento di attività in modalità agile anche attraverso l’adibizione a diversa mansione ricompresa nella medesima categoria o area di inquadramento come definite dai contratti collettivi vigenti e lo svolgimento di specifiche attività di formazione professionale.
Cioè, occorre provare ad adibire il personale fragile, preposto ad attività non compatibili col lavoro agile, a mansioni differenti (se la contrattazione lo ammetta), invece idonee allo smart working.
Quindi, si conferma che esistono vaste sacche di attività non compatibili col lavoro agile (in questo post abbiamo rilevato come alla fine dei conti, se va bene, poco più del 10% dei dipendenti pubblici potrebbe davvero svolgere attività compatibili col lavoro agile; anche avendo sbagliato per difetto, difficilmente si potrebbe andare oltre il doppio di questa stima).
L’esenzione dal lavoro, disposta in primavera, fu certamente una forzatura non particolarmente felice. Meno forzato, ma pur sempre forzato, è l’invito a modificare le mansioni: non è così semplice da un giorno all’altro riconvertire bidelli, uscieri, operai, custodi ed altre figure tecniche verso attività maggiormente idonee allo smart working.
Moltissime delle attività svolte da queste categorie di lavoratori pubblici (si pensi agli operai e ai tecnici) sono attualmente fondamentali ed indispensabili per la continuità dei servizi pubblici.
Altre, come ad esempio la custodia ed altre funzioni di contatto col pubblico in attività di fatto chiuse (biblioteche, musei, teatri), a meno di riconversioni al volo in attività idonee al lavoro agile, si prestano al rischio di un lavoro agile solo mascherato.
Se nella PA esistesse la cassa integrazione, problemi del genere sarebbero risolti in maniera meno forzata e farraginosa.
A ben vedere, anche se l’istituto non c’è, basterebbe poco a regolamentarlo, a partire da una disposizione normativa già esistente, l’articolo 33 del d.lgs 165/2001, testo unico del pubblico impiego.
Questa disposizione regola un istituto che è un ibrido di quel che nel lavoro privato sono la (ormai ex) mobilità e appunto la cassa integrazione. Infatti, il citato articolo 33 prevede che nei casi nei quali, per ragioni da motivare, parte del personale pubblico di un ente risulti in esubero, esso a seguito di una specifica procedura, viene inserito nelle liste dei lavoratori in disponibilità, qualcosa di estremamente simile alle vecchie liste di mobilità del privato: infatti, questo personale è, nei fatti, licenziato, a meno che nei successivi 24 mesi qualche amministrazione non evidenzi di dover effettuare assunzioni per profili e mansioni identiche a quelle del personale in disponibilità. In questo caso, detto personale viene avviato d’ufficio a detti enti e ripristina il rapporto di lavoro.
Nel corso di questi 24 mesi, il personale in disponibilità riceve un trattamento economico, a carico dell’ente che lo ha posto in esubero, simile a quello della Cig. Dispone il comma 8 dell’articolo 33 del d.lgs 165/2001:
Dalla data di collocamento in disponibilità restano sospese tutte le obbligazioni inerenti al rapporto di lavoro e il lavoratore ha diritto ad un’indennità pari all’80 per cento dello stipendio e dell’indennità integrativa speciale, con esclusione di qualsiasi altro emolumento retributivo comunque denominato, per la durata massima di ventiquattro mesi. I periodi di godimento dell’indennità sono riconosciuti ai fini della determinazione dei requisiti di accesso alla pensione e della misura della stessa. E’ riconosciuto altresì il diritto all’assegno per il nucleo familiare di cui all’articolo 2 del decreto-legge 13 marzo 1988, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla legge 13 maggio 1988, n. 153.
Il presupposto per collocare in disponibilità i dipendenti pubblici è descritto dal comma 1 di detto articolo 33:
[…] situazioni di soprannumero o […] comunque eccedenze di personale, in relazione alle esigenze funzionali o alla situazione finanziaria.
Basterebbe: o una disposizione normativa da inserire nei vari decreti che vengono adottati ai ritmi continui imposti dall’emergenza (e quindi in tempi brevi), che specificasse espressamente che la situazione di soprannumero o eccedenza può essere anche solo temporanea e, quindi, non connessa ad un’espulsione definitiva del dipendente dai ruoli; oppure, un’interpretazione, oggettivamente compatibile coi testi normativi, che consideri che l’esubero per “esigenze funzionali” sia attivabile appunto non per esigenze espulsive, bensì anche conservative del posto di lavoro, ma con trattamento stipendiale ridotto, conseguente alla temporanea sospensione delle obbligazioni lavorative.
Meglio, ovviamente, la prima opzione, cioè un intervento normativo, anche per definire meglio la durata dell’esubero “temporaneo” e, correlativamente, dell’onere connesso.
Come dice, Titolare? E se si creasse un fondo apposito, alimentato da contributi e versamenti, non solo datoriali, ma anche dei lavoratori?
Il senso di questo post di Luigi mi pare chiarissimo. Ora saremo pure nella seconda ondata della pandemia, ma il tempo delle decisioni emergenziali deve lasciare il post alla programmazione e alla (ri)organizzazione. Per questo serve ridisegnare alcuni aspetti del rapporto di lavoro pubblico, avvicinandolo a quello privato. Lo chiede la “dittatura delle risorse scarse”, che poi è l’altro nome della realtà, oltre a elementari esigenze di equità. (MS)

Print Friendly, PDF & Email
Torna in alto