28/10/2020 – All’Adunanza plenaria questioni connesse al giudicato civile di rigetto della domanda di risarcimento del danno per l’equivalente del valore di mercato del bene illegittimamente occupato

All’Adunanza plenaria questioni connesse al giudicato civile di rigetto della domanda di risarcimento del danno per l’equivalente del valore di mercato del bene illegittimamente occupato
 
 
Espropriazione per pubblica utilità – Occupazione acquisitiva – Risarcimento del danno – Equivalente del valore di mercato del bene illegittimamente occupato – Giudicato civile di rigetto della domanda di risarcimento del danno – Rimessione alla Adunanza plenaria di questioni connesse. 
 
         Sono rimesse all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato le questioni: a) se – in caso di occupazione illegittima, a fronte di un giudicato civile di rigetto della domanda di risarcimento del danno per l’equivalente del valore di mercato del bene illegittimamente occupato, formatosi con una sentenza emessa quando vi era la prassi nazionale che dava rilievo alla ‘occupazione appropriativa’ o ‘accessione invertita’ – sia precluso l’esercizio attuale dell’azione di risarcimento del danno in forma specifica attraverso il rilascio dei terreni, previa rimessione in pristino;

b) in caso positivo, se l’effetto preclusivo derivante dal giudicato civile di rigetto della domanda di risarcimento del danno, per l’equivalente del valore di mercato del bene illegittimamente occupato, sia subordinato alla sussistenza in tale pronuncia (e nel dispositivo) della formale, chiara e univoca statuizione costitutiva sul trasferimento del bene in favore dell’Amministrazione in base alla ‘occupazione appropriativa’ ovvero se a tali fini sia sufficiente che – in motivazione – la pronuncia abbia unicamente (eventualmente anche per implicito) fatto riferimento a tale istituto per giungere al rigetto della domanda risarcitoria; c) come possa influire sull’esito del giudizio il principio per il quale – nel caso di occupazione senza titolo del terreno occupato dall’Amministrazione – si applica sul piano sostanziale l’art. 42 bis del testo unico sugli espropri, con la conseguente possibilità ormai riconosciuta dalla giurisprudenza di disporre la conversione della domanda nel corso del giudizio, e dunque di ritenere ammissibile il rimedio di tutela da esso previsto, basato sulla diversità della causa petendi e del petitum (riferibili a posizioni di interesse legittimo correlativo al potere di acquisizione) rispetto alle domande di risarcimento o di restituzione (riferibili alla tutela del diritto di proprietà in quanto tale); d) per il caso in cui ritenga che gli appellanti sono ancora proprietari del bene (aventi pertanto titolo a chiedere l’emanazione del provvedimento discrezionale previsto dall’art. 42 bis del testo unico sugli espropri), se – nel caso di emanazione dell’atto di acquisizione – l’Autorità debba disporre unicamente il pagamento del controvalore del terreno e non anche ulteriori importi a titolo di risarcimento del danno, in considerazione del giudicato civile, che a suo tempo ha respinto la domanda risarcitoria (sia pure per equivalente) (1). 

 
(1) Ha chiarito la Sezione che ai fini dell’inquadramento della questione ed in particolare con l’obiettivo di valutare se nel caso di specie la proposizione della domanda restitutoria successivamente alla formazione del giudicato sulla domanda di risarcimento per equivalente integri o meno una violazione dell’art. 2909 c.c., va ricostruito il rapporto tra gli istituti del risarcimento in forma specifica e del risarcimento per equivalente. 
Al riguardo, la giurisprudenza suole costantemente riconoscere l’esistenza di una relazione di continenza del secondo nel primo, ritenendo che la seconda domanda costituisca un minus rispetto alla prima, al punto che: a) mentre costituisce certamente domanda nuova quella volta ad ottenere il risarcimento in forma specifica rispetto alla domanda proposta di risarcimento per equivalente, viceversa la richiesta di risarcimento del danno per equivalente costituisce mera modificazione (“emendatio”), e non mutamento (“mutatio”), della domanda di reintegrazione in forma specifica, dovendosi la prima ritenere già compresa nella seconda (cfr. da ultimo Cass. civ., sez. VI, 16 maggio 2017, n. 12168). Ne consegue che la domanda risarcitoria per equivalente, proposta in via alternativa a quella risarcitoria in forma specifica, non è incompatibile con quest’ultima, proprio perché è già contenuta in essa; b) in tema di danni, rientra nei poteri discrezionali del giudice del merito attribuire al danneggiato il risarcimento per equivalente anziché quello in forma specifica come domandato dall’attore in forza di quanto previsto dall’art. 2058, comma secondo, c.c. e ciò proprio perché il risarcimento per equivalente costituisce un minus rispetto al risarcimento in forma specifica e, quindi, la relativa richiesta è implicita nella richiesta di risarcimento in quest’ultima forma, per cui il giudice può condannare d’ufficio al risarcimento per equivalente senza violare l’art. 112 c.p.c.; per contro non è consentito al giudice, senza violare l’art. 112 c.p.c., ove sia stato richiesto il risarcimento per equivalente, disporre la reintegrazione in forma specifica, non compresa, neppure per implicito, in quella domanda così proposta (cfr., ex plurimis, Cass. civ. n. 259 del 2013; id., sez. III, 21 maggio 2004, n. 9709; id., sez. II, 18 gennaio 2002, n. 552; id., sez. I, 12 gennaio 2010, n. 254, sulla possibilità di ricondurre la domanda di restituzione del fondo allo schema dell’art. 2058 c.c., in tema appunto di reintegrazione in forma specifica); c) “per come ricavabile dal dato testuale dell’art. 2058 c.c. (là dove precisa che “il danneggiato può chiedere…”), mentre la richiesta del risarcimento per equivalente contiene la domanda di risarcimento in forma specifica, sicché domandata la prima si può sempre (validamente) invocare la seconda in corso di causa (che può anche essere concessa d’ufficio dal giudice, senza violare il principio della domanda), la richiesta della prima (esclusivamente riservata ad una libera opzione processuale del soggetto danneggiato) non autorizza la scelta della seconda ad opera del giudice e non postula, per la sua concessione, l’impraticabilità della riparazione in forma specifica” (Cons. St., sez. IV, 10 agosto 2004, n. 5500), ponendosi altrimenti in violazione dell’art. 112 c.p.c. (C.g.a. 3 novembre 2017, n. 465); d) la restituzione del bene, previa eventuale riduzione in pristino, costituisce modalità di risarcimento in forma specifica, ai sensi dell’art. 2058 cod. civ., alternativa al risarcimento per equivalente e, quindi, mezzo concorrente per conseguire la riparazione del pregiudizio subito; di conseguenza è da escludere che la scelta, in corso di giudizio, per una delle due modalità costituisca una mutatio libelli, risolvendosi solo in una emendatio libelli (cfr. Cons. St., sez. IV, 22 gennaio 2014, n. 306;  id. 1° giugno 2011, n. 3331), essendo evidente, per un verso, che la tutela in forma specifica e quella per equivalente appaiono come mezzi concorrenti per conseguire la riparazione del pregiudizio subito, per altro verso, che tra esse vi è identità delle posizioni giuridiche soggettive (proprietari di suoli oggetto di illegittima occupazione e trasformazione), del petitum (la restituzione del suolo, salvo esercizio del potere discrezionale di acquisizione ex art. 42 bis) e della causa petendi (l’illecita perdurante occupazione e utilizzazione del suolo) (Cons. St., sez. IV, 22 gennaio 2014, n. 306).
Conclusivamente sul punto e con specifico riferimento al caso in esame, si dovrebbe quindi valutare se può essere riconosciuta la ‘piena coincidenza’ dell’azione originariamente intentata dinanzi al giudice civile con l’azione restitutoria di cui al presente giudizio, con la conseguenza che, qualora si ritenesse sussistente l’unicità dell’obbligazione risarcitoria, la pronuncia passata in giudicato relativa alla domanda di risarcimento per equivalente dovrebbe coprire – a rigore – anche le pretese oggetto di questo giudizio. 
A tale ultimo riguardo ed in particolare con riferimento all’efficacia del giudicato, rileva anche la giurisprudenza europea e nazionale per la quale il diritto europeo non impone al giudice nazionale di disapplicare le norme processuali interne da cui deriva l’autorità di cosa giudicata, nemmeno quando ciò permetterebbe di porre rimedio ad una violazione del diritto comunitario. 
Pur se di per sé la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea non ha preso in considerazione le fattispecie di occupazione senza titolo che si sono avute nella prassi nazionale (in quanto la relativa materia non è disciplinata di per sé dai Trattati istitutivi), è opportuno sottolineare come – in termini generali – la stessa Corte di giustizia (sentenza 3 settembre 2009, in causa C-2/8 Olimpiclub, e sentenza 16 marzo 2006, in causa C-234/4, Kapferer) ha sottolineato l’importanza che il principio dell’autorità di cosa giudicata riveste sia nell’ordinamento giuridico comunitario sia negli ordinamenti giuridici nazionali, in quanto, al fine di garantire sia la stabilità del diritto e dei rapporti giuridici, sia una buona amministrazione della giustizia, è importante che le decisioni giurisdizionali divenute definitive dopo l’esaurimento delle vie di ricorso disponibili o dopo la scadenza dei termini previsti per questi ricorsi non possano più essere rimesse in discussione (Corte di giustizia UE, sentenza 30 settembre 2003, causa C‑224/01, Köbler, Racc. pag. I‑10239, punto 38, e 16 marzo 2006, causa C‑234/04, Kapferer, Racc. pag. I‑2585, punto 20).  
Ciò premesso, la Corte ha comunque ricordato che, in assenza di una normativa comunitaria in materia, le modalità di attuazione del principio dell’autorità di cosa giudicata rientrano nell’ordinamento giuridico interno degli Stati membri in virtù del principio dell’autonomia procedurale di questi ultimi, sebbene esse non debbano essere meno favorevoli di quelle che riguardano situazioni analoghe di natura interna (principio di equivalenza) né essere strutturate in modo da rendere in pratica impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico comunitario (principio di effettività) (v., in tal senso, sentenza 16 maggio 2000, causa C 78/98, Preston e a., Racc. pag. I 3201, punto 31 e giurisprudenza ivi citata). 
In conclusione, ad avviso della Corte di giustizia UE, il diritto comunitario non impone ad un giudice nazionale di disapplicare le norme processuali interne che attribuiscono autorità di cosa giudicata ad una decisione, anche quando ciò permetterebbe di porre rimedio ad una violazione del diritto comunitario da parte di tale decisione (v. Corte di giustizia UE, 16 marzo 2006, causa C‑234/04, Kapferer, cit., punto 21; 1° giugno 1999, causa C 126/97, Eco Swiss, Racc. pag. I 3055, punti 46 e 47).  
Peraltro, di recente, la Corte di giustizia, ritornando sulla questione (Corte giustizia, grande sezione, 6 ottobre 2015, causa C-69/14, T. c. Gov. Romania), con riguardo al diritto di ottenere il rimborso di tributi riscossi in uno Stato membro in violazione del diritto unionale, ha stabilito che il diritto dell’Unione, in base ai principi di equivalenza e di effettività, dev’essere interpretato nel senso che non osta al fatto che a un giudice nazionale non spetti la possibilità di revocare una decisione giurisdizionale definitiva pronunciata nel contesto di un ricorso di natura civile. E ciò anche quando tale decisione risulti incompatibile con un’interpretazione del diritto dell’Unione accolta dalla Corte di giustizia successivamente alla data in cui la decisione è divenuta definitiva, finanche qualora, di contro, una tale possibilità sussista per le decisioni giurisdizionali definitive incompatibili con il diritto dell’Unione pronunciate nel contesto dei ricorsi di natura amministrativa. 
È stata, quindi, ribadita l’importanza che riveste anche nell’ordinamento giuridico dell’Unione il principio dell’intangibilità del giudicato, al fine di garantire sia la stabilità del diritto e dei rapporti giuridici, sia una buona amministrazione della giustizia, di modo che il giudice nazionale non è vincolato dal diritto dell’Unione a disapplicare le norme processuali interne che conferiscono forza di giudicato ad una pronuncia giurisdizionale, neanche quando ciò consentirebbe di rimediare ad una situazione nazionale contrastante col diritto unionale. 
Conforme risulta la giurisprudenza nazionale, la quale ha precisato come il diritto dell’Unione europea non impone al giudice nazionale di disapplicare le norme processuali interne da cui deriva l’autorità di cosa giudicata di una decisione, nemmeno quando ciò permetterebbe di porre rimedio ad una violazione del diritto comunitario da parte di tale decisione, salve le ipotesi, assolutamente eccezionali, di discriminazione tra situazioni di diritto comunitario e situazioni di diritto interno, ovvero di pratica impossibilità o eccessiva difficoltà di esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento comunitario ovvero di contrasto con una decisione definitiva della Commissione europea emessa prima della formazione del giudicato (cfr. Cass., sez. trib., 28 novembre 2019, n. 31084; sez. V, 13 luglio 2018, n. 18642; Sez. trib., 27 gennaio 2017, n. 2046; Sez. trib., 29 luglio 2015, n. 16032; sez. I, 6 maggio 2015, n. 9127; sez. V, 29 luglio 2015, n. 16032; Sez. trib., 15 dicembre 2010, n. 25320). 
Inoltre, la Corte Costituzionale, nella sentenza n. 71/2015, al punto n. 5.3, ha ammesso, implicitamente, che l’avvenuto giudicato formatosi precluda la rivisitazione della tematica (“Come evidenziato nell’ordinanza di rimessione, ne risulta che se la norma censurata fosse dichiarata incostituzionale, il ristoro economico sarebbe assoggettato al regime del risarcimento ex art. 2043 cod. civ., a prescindere dal riconoscimento del diritto alla restituzione del bene. In altri termini, la rilevanza della questione emerge dal fatto che se la questione di legittimità costituzionale fosse accolta, il giudizio rimarrebbe incardinato innanzi al giudice amministrativo, investito della domanda di rideterminazione del ristoro economico, che acquisterebbe natura risarcitoria; se essa fosse rigettata, ne deriverebbe invece la traslatio iudicii innanzi al giudice ordinario, per i profili di quantificazione dell’indennizzo previsto dall’art. 42-bis del T.U. sulle espropriazioni”). 
Le conclusioni a cui conducono le sopra esposte considerazioni devono, d’altro canto, essere ponderate alla luce del peculiare rapporto intercorrente tra il diritto nazionale e le disposizioni della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. 
Infatti, le sentenze della Corte di Strasburgo, anche quelle che hanno più volte condannato la Repubblica Italiana per le prassi nazionali sulla ‘occupazione appropriativa’, sono state pronunciate in casi in cui per definizione si erano formati giudicati sfavorevoli per i proprietari, all’esito dei relativi giudizi civili. 
Dunque, mentre le sopra citate sentenze della Corte di Giustizia hanno espresso il principio per cui il diritto unionale non impone all’ordinamento e al giudice nazionale di superare il giudicato che con esso si sia posto in contrasto, quando si tratta invece della Convenzione europea dei diritti dell’uomo la Corte di Strasburgo è competente a valutare proprio se il giudicato nazionale si sia posto in contrasto con la Convenzione, una volta esauriti i rimedi interni. 
La Sezione ha altresì ricordato che la stessa Corte EDU, pur ritenendo la restituzione del bene quale forma privilegiata di riparazione, ammetteva, “quando la restituzione di un terreno risulta impossibile per motivi plausibili in concreto”, il risarcimento per equivalente in una misura pari al valore integrale del bene alla data della pronuncia (v. Corte EDU, 30 maggio 2000, Belvedere Alberghiera s.r.l. c. Italia, § 69; 6 marzo 2007, Scordino c. Italia, § 16): la Corte ha ammesso sì in sostanza la sanatoria della situazione venutasi a verificare, ma purché vi sia il ristoro dei proprietari. 
D’altra parte, per la soluzione della questione in esame, rilevano anche i principi enunciati dalle sentenze nn. 23 e 4 del 2020 dell’Adunanza Plenaria, la quale: 
a) ha ribadito la contrarietà alla Convezione europea dei diritti dell’uomo di qualunque forma di trasferimento della proprietà in favore dell’Amministrazione che sia priva di una base legale, in tal modo negando l’ammissibilità nel nostro ordinamento anche della c.d. rinuncia abdicativa, quale atto implicito nella proposizione, da parte di un privato illegittimamente espropriato, della domanda di risarcimento del danno per equivalente monetario derivante dall’illecito permanente costituito dall’occupazione di un suolo da parte della P.A., a fronte della irreversibile trasformazione del fondo; b) ha affermato che “l’ordinamento processuale amministrativo offre un adeguato strumentario per evitare, nel corso del giudizio, che le domande proposte in primo grado, congruenti con quello che allora appariva il vigente quadro normativo e l’orientamento giurisprudenziale di riferimento assurto a diritto vivente, siano di ostacolo alla formulazione di istanze di tutela adeguate al diverso contesto normativo e giurisprudenziale vigente al momento della decisione della causa in appello, quali la conversione della domanda ove ne ricorrano le condizioni, la rimessione in termini per errore scusabile ai sensi dell’art. 37 Cod. proc. amm. o l’invito alla precisazione della domanda in relazione al definito quadro giurisprudenziale, in tutti i casi previa sottoposizione della relativa questione processuale, in ipotesi rilevata d’ufficio, al contraddittorio delle parti ex art. 73, comma 3, Cod. proc., a garanzia del diritto di difesa di tutte le parti processuali”; c) ha ritenuto che l’art. 42-bis d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, sia applicabile a tutte le ipotesi in cui un bene immobile altrui sia utilizzato e modificato dall’amministrazione per scopi di interesse pubblico, in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, e dunque quale che sia la ragione che abbia determinato l’assenza di titolo che legittima alla disponibilità del bene). 
Va dunque rimarcato come anche in sede d’appello si possa riconvertire la domanda di restituzione del bene in domanda di applicazione dell’art. 42 bis del testo unico sugli espropri (Cons. St., sez. IV, 21 settembre 2020, nn. 5527 e 5522), sicché anche per questa ragione si potrebbe sostenere che il giudicato civile di rigetto, a suo tempo formatosi sulla domanda risarcitoria per l’accoglimento della eccezione di prescrizione, non precluda l’esame della domanda di tutela basata sul citato art. 42 bis (anche a seguito della conversione della domanda in sede d’appello), nettamente diversa da quella decisa dal giudice civile quanto alla causa petendi (basata sull’interesse legittimo pretensivo) ed al petitum (volto ad ottenere un provvedimento ai sensi dell’art. 42 bis). 
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