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Interdittive antimafia tra vecchi confini e nuovi scenari
 
Dott.ssa Anna Maria Speciale
 
“È la prudenza che aiuta a evitare di confondere l’essenziale e il rinunciabile, il desiderabile e il possibile, che aiuta a valutare i dati di fatto in cui l’azione deve svolgersi, e consente il realismo più efficace nella coerenza dei valori ideali. La fortezza, contro le tentazioni tipiche della vita e della comunità politica e in connessione con la responsabilità delle scelte, della costanza e della pazienza che sono richieste a chi in tale comunità voglia vivere non da turista ma da costruttore” (Vittorio BACHELET)
 
1. Premessa. 2. Le misure di prevenzione antimafia: tra comunicazione e informazione interdittiva antimafia. 3. L’introduzione dell’art. 89-bis D.lgs. n. 159/2011: verso un’”omologazione” delle misure antimafia? 4. L’ordinanza di rimessione del Tribunale di Palermo. 5. La sentenza della Corte Costituzionale, n. 57 del 26 marzo 2020. 6. Il sindacato del giudice amministrativo sull’informazione antimafia. 7. La validità temporale delle informazioni antimafia interdittive: verso il superamento della tendenziale ultrattività. 8. L’aggiornamento ex officio delle informazioni antimafia interdittive. 9. Questioni aperte: verso il recupero del principio del contraddittorio procedimentale?
 
Con la sentenza n. 57 del 26 marzo 2020 la Corte Costituzionale ha ritenuto infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 89-bis e 92, commi 3 e 4, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia), in riferimento agli artt. 3 e 41 della Costituzione, nella parte in cui non escludono dai divieti e dalle decadenze conseguenti all’informazione interdittiva antimafia i provvedimenti previsti dall’art. 67 del medesimo decreto legislativo che siano mero presupposto dell’esercizio del diritto di iniziativa economica privata.
 
L’esigenza di contrastare le organizzazioni criminali di stampo mafioso, anche nelle loro attività economiche, è stata avvertita fin dalla metà degli anni ’60 del secolo scorso.
Già con la L. 31 maggio 1965, n. 575, la c.d. Legge antimafia, recante “Disposizioni contro la mafia” è stata estesa, infatti, l’applicabilità delle misure preventive personali della sorveglianza speciale o del divieto od obbligo di soggiorno, previste dalla L. 27 dicembre 1956, n. 1423, alle “persone indiziate di appartenere ad associazioni mafiose”. In particolare la norma, al fine di reprimere e prevenire l’aggressione mafiosa all’economia legale, ha introdotto, per i destinatari di una misura di prevenzione definitiva, la sanzione della decadenza di diritto dalle licenze di polizia, di commercio, di commissionario astatore presso i mercati annonari all’ingrosso, da concessioni di acque pubbliche o di diritti ad esse inerenti, nonché dalle iscrizioni agli albi di appaltatori di opere o di forniture pubbliche di cui fossero titolari le persone soggette ai detti provvedimenti.
Solo alcuni anni più tardi, nel 1982, venne varata la legge Rognoni – La Torre (nota, in particolare, per avere introdotto nel codice penale la norma sull’associazione mafiosa) con la quale è stato affidato al Prefetto il compito di comunicare alle pubbliche amministrazioni competenti l’esistenza di provvedimenti ostativi ad autorizzazioni, appalti, ecc., acquisiti attraverso un flusso di informazioni che passava dagli uffici giudiziari alle questure e da queste ultime alle prefetture.
Successivamente con il D.lgs. 8 agosto 1994, n. 490 è stato stabilito che le pubbliche amministrazioni, gli enti pubblici, gli enti, le aziende, imprese vigilati dallo Stato o da altri enti pubblici, prima di procedere alla stipula, approvazione, autorizzazione di contratti o subcontratti, relativi ad appalti di lavori, servizi e forniture, concessioni demaniali ed erogazioni di finanziamenti pubblici pari o superiori ad una determinata soglia, dovevano acquisire, oltre alla certificazione antimafia, un’apposita informativa da rilasciarsi dalla Prefettura della provincia di residenza della persona fisica o in cui ha sede la persona giuridica, riguardante “eventuali tentativi di infiltrazioni mafiose, tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o imprese interessate”. Nasceva, così, l’informativa antimafia che si aggiungeva alla mera comunicazione delle cause di decadenza, conseguenti l’applicazione di misure di prevenzione. Tuttavia, rispetto al sistema delle comunicazioni antimafia, l’informativa operava in un settore più ristretto, in quanto comportava la preclusione ad ottenere provvedimenti volti ad attribuire al privato risorse e beni pubblici e non, in generale, provvedimenti necessari per accedere all’economia legale (D.P.R. n. 252/1998).
Negli anni successivi la legislazione antimafia è stata affinata sino a confluire nel vigente Codice antimafia (D.lgs. 6 ottobre 2011, n. 159), finalizzato, fra l’altro, all’aggiornamento e alla semplificazione della documentazione antimafia, anche mediante l’istituzione di una Banca dati nazionale unica, che costituisce certamente uno dei punti più qualificanti della disciplina codicistica in materia di documentazione antimafia.[1]
Il Codice delle leggi antimafia contiene, oltre alla disciplina delle misure di prevenzione, la disciplina della documentazione antimafia, ossia della comunicazione antimafia e della informazione antimafia. La comunicazione antimafia (art. 84, comma 2, D.lgs. n. 159/2011) consiste nell’attestazione della sussistenza o meno di una delle cause di decadenza, sospensione o divieto di cui all’art. 67 D.lgs. n. 159/2011, e, cioè, l’applicazione, con provvedimento definitivo, di una delle misure di prevenzione personali previste dal libro I, titolo I, capo II, D.lgs. n. 159/2011 e statuite dall’autorità giudiziaria. L’informazione antimafia (art. 84, comma 3, D.lgs. n. 159/2011) consiste nell’attestazione della sussistenza, o meno, di una delle cause di decadenza, di sospensione o di divieto, di cui all’art. 67 (l’esistenza, come detto, di un provvedimento di prevenzione definitivo), nonché nell’attestazione della sussistenza, o meno, di eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte o gli indirizzi della società o delle imprese interessate. L’informazione ha, pertanto, un contenuto più ampio della comunicazione ed è il frutto di una valutazione dell’autorità prefettizia che, fondandosi su una serie di elementi sintomatici, esprime un motivato giudizio, in chiave preventiva, circa il pericolo di infiltrazione mafiosa all’interno dell’impresa, interdicendole l’inizio di qualsivoglia rapporto contrattuale con l’amministrazione o l’ottenimento di qualsiasi sussidio, beneficio economico o sovvenzione. Inoltre, l’informazione antimafia, diversamente dalla comunicazione, è richiesta solo per operazioni che superino certe soglie di valore, ovvero poste in essere in settori particolarmente sensibili ai sensi dell’art. 91 D.lgs. n. 159/2011.
Considerata l’indubbia diversità dei due istituti[2] – sia nei presupposti, sia nell’oggetto, sia nella disciplina – il loro rapporto tradizionalmente è stato ricostruito in termini di necessaria alternatività[3], nel senso che la comunicazione antimafia non dev’essere acquisita quando è necessaria l’informazione antimafia e viceversa.
 
Sennonché con il D.lgs. 13 ottobre 2014, n. 153, è stato inserito nel Codice antimafia l’art. 89-bis rubricato ‹‹Accertamento di tentativi di infiltrazione mafiosa in esito alla richiesta di comunicazione antimafia››, secondo il quale, ove in esito alle verifiche di cui all’art. 88, comma 2, – vale a dire quelle compiute dal Prefetto consultando la banca dati ai fini del rilascio della comunicazione – ‹‹venga accertata la sussistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa››, il Prefetto adotta comunque un’informazione antimafia interdittiva e ne dà comunicazione ai soggetti richiedenti, senza emettere la comunicazione richiesta, della quale l’informazione adottata tiene luogo.
Tale norma è stata fonte di continue incertezze sul piano applicativo. In particolare, ci si è chiesti se fosse ancora corretto ricostruire il rapporto fra i due istituti in termini di alternatività o se la disposizione avesse esteso al settore delle autorizzazioni, tradizionalmente inciso dalla comunicazione antimafia, gli effetti dell’informazione antimafia (originariamente limitati al settore della contrattazione e dei finanziamenti pubblici), ampliando l’ambito di rilevanza del tentativo di infiltrazione mafiosa.
La vicenda interpretativa inizia con un parere del Consiglio di Stato del 17 novembre 2015[4], con il quale è stato affermato che il rapporto tra comunicazione antimafia e informativa antimafia è d’alternatività, tuttavia l’art. 89-bis costituisce una deroga a tale principio poiché prevede l’informazione antimafia laddove è richiesta la comunicazione antimafia, e al tempo stesso ne opera l’assorbimento equiparando l’informazione antimafia alla comunicazione antimafia. Secondo l’organo consultivo l’art. 89-bis risponderebbe all’esigenza di elevare il livello della tutela dell’economia legale dall’aggressione criminale, per cui estenderebbe anche alle ipotesi in cui manca un rapporto contrattuale con la pubblica amministrazione gli effetti interdittivi espressamente disciplinati dall’art. 67 del Codice antimafia, ‹‹posto che anche in ipotesi di attività private soggette a mera autorizzazione l’esistenza di infiltrazioni mafiose inquina l’economia legale, altera il funzionamento della concorrenza e costituisce una minaccia per l’ordine e la sicurezza pubbliche››[5].
Successivamente il Consiglio di Stato, affrontando la questione in sede giurisdizionale[6], ha affermato che la suesposta interpretazione dell’art. 89-bis è coerente con l’impostazione del D.lgs. n. 159/2011 e con il tendenziale progressivo superamento (che dal predetto Codice si evince) della rigida bipartizione tra comunicazioni antimafia, applicabili alle autorizzazioni, e informazioni antimafia, applicabili ad appalti, concessioni, contributi ed elargizioni, che avrebbe consentito alle associazioni di stampo mafioso ‹‹di gestire tramite imprese infiltrate, inquinate o condizionate da essa, lucrose attività economiche, in vasti settori dell’economia privata, senza che l’ordinamento potesse efficacemente intervenire per contrastare tale infiltrazione››[7].
A sostegno della propria interpretazione, i giudici di Palazzo Spada hanno evidenziato che l’art. 2, comma 1, lett. c, della L. 13 agosto 2010, n. 136 (Piano straordinario contro le mafie, nonché delega al Governo in materia di normativa antimafia), ha previsto l’istituzione della Banca dati nazionale unica della documentazione antimafia con immediata efficacia delle informative antimafia interdittive su tutto il territorio nazionale, senza differenziare le autorizzazioni dalle concessioni e dai contratti e dunque, includendo quei rapporti che, per quanto oggetto di mera autorizzazione, hanno un impatto fortissimo e potenzialmente devastante su beni e interessi pubblici. È stato osservato, altresì, che lo Stato non riconosce dignità e statuto di operatori economici, e non più soltanto nei rapporti con la pubblica amministrazione, a soggetti condizionati, controllati, infiltrati ed eterodiretti dalle associazioni mafiose, sulla base di una valutazione che ha natura preventiva e non sanzionatoria ed è, dunque, avulsa da qualsivoglia logica penale o lato sensu punitiva e costituisce un severo limite all’iniziativa economica privata, che tuttavia è giustificato dalla considerazione che il metodo mafioso, per sua stessa ragion di essere, costituisce un danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.
L’impostazione ermeneutica del Consiglio di Stato non è stata esente da rilievi critici[8]. È stato obiettato, infatti, che fra i principi e i criteri direttivi di cui all’art. 2 D.lgs. n. 159/2011 – da osservarsi anche in sede di decreto correttivo qual è quello che ha introdotto l’art. 89-bis – non è contemplata la possibile estensione del rilascio dell’informazione antimafia (con i più severi accertamenti che tale provvedimento presuppone) per alcuna delle ipotesi in cui l’ordinamento abbia precedentemente previsto la richiesta ed il rilascio della semplice comunicazione.  Inoltre, nella relazione ministeriale allo schema di D.lgs. n. 153/2014 si legge che l’art. 89-bis assolve la finalità di “evitare vuoti normativi suscettibili di favorire l’ingerenza nel settore degli appalti e dei rapporti con la Pubblica Amministrazione”. Tale espressione, con il suo specifico riferimento agli “appalti” e a veri e propri “rapporti” tra l’interessato e l’Amministrazione (con esclusione dei procedimenti lato sensu autorizzatori), potrebbe indurre ad interpretare la disposizione nel senso che essa sia riferita esclusivamente ai contratti, ai subcontratti, alle concessioni e alle erogazioni al di sotto del valore per cui era già prevista l’acquisizione dell’informazione antimafia, in ossequio all’esigenza di evitare ogni impegno di denaro pubblico in favore di soggetti in qualsiasi modo interessati dall’attività della criminalità organizzata. Si potrebbe replicare che, se così fosse, sarebbe stato molto più semplice eliminare le soglie di valore. Tuttavia, la differenza, pur sottile, consiste nel fatto che «un conto è eliminare le soglie e prevedere che l’Amministrazione richieda sempre l’informativa in caso di appalti, concessioni e sovvenzioni, a prescindere quindi dal valore; altro è disporre che, solo quando emerga una pregressa causa interdittiva all’esito delle verifiche necessarie per la predisposizione della comunicazione, il Prefetto possa rilasciare l’informazione antimafia in luogo della richiesta comunicazione»[9].
Alla luce di quanto suesposto è evidente che dall’adesione all’orientamento ermeneutico del Consiglio di Stato derivino importanti conseguenze economiche e sociali.[10]
Da questo indirizzo giurisprudenziale risulta, infatti, che le imprese interdette non possano svolgere alcuna attività privata che consenta loro di sopravvivere anche al di fuori del mercato dei contratti pubblici. Di conseguenza le persone (dirigenti, dipendenti), che a tali imprese sono legati, rimangono privi di mezzi di sussistenza, nonostante non siano affatto mafiosi, e nei loro confronti non siano state né adottate né proposte misure di prevenzione. Si tratta di un risultato non del tutto condivisibile[11], giacché il tentativo di qualche mafioso, o ritenuto tale, di infiltrarsi nella governance di una impresa non trasforma l’impresa stessa, e coloro che ne sono responsabili, in soggetti “abitualmente dediti a traffici delittuosi”, o che, “per la condotta ed il tenore di vita debba ritenersi (…) che vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose”, o ancora che “sono dediti alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo l’integrità fisica o morale dei minorenni, la sanità, la sicurezza, o la tranquillità pubblica”[12]; in altre parole non li trasforma in soggetti cui possono essere applicate le misure di prevenzione, le quali, sole, e solo quando risultano da provvedimenti giudiziali definitivi, comportano le conseguenze di cui all’art. 67.[13]
Pur nella consapevolezza del preminente interesse generale a che il sistema della documentazione antimafia possa svolgere in modo effettivo la funzione di anticipazione della soglia di difesa, non può sottacersi l’altrettanta preminente esigenza di rispettare ulteriori valori costituzionalmente rilevanti: dal principio di legalità, ai principi di presunzione di innocenza, della libertà di iniziativa economica privata e della tutela della dignità e della onorabilità delle persone fisiche.[14]
Già prima dell’introduzione dell’art. 89-bis, infatti, era fortemente sentita la necessità di approfondire eventuali momenti di riequilibrio della normativa antimafia[15] al fine di evitare il rischio di danneggiare imprese del settore degli appalti pubblici non infiltrate, escludendo – con valutazione ampiamente discrezionale – un’impresa pienamente “in regola” da ogni rapporto economico con la pubblica amministrazione, anche in presenza di semplici sospetti di contiguità mafiosa, non supportati da prove, ma da meri indizi, insufficienti pure per l’applicazione delle misure di prevenzione.[16]
Non si veda come la stessa esigenza non possa avvertirsi anche (ma forse soprattutto) in un contesto, come quello attuale, in cui gli effetti estremamente afflittivi previsti dall’art. 67 Codice antimafia, precludono – all’imprenditore destinatario di un’informativa antimafia interdittiva – non solo i rapporti con la pubblica amministrazione; non solo l’esercizio di una qualsiasi attività imprenditoriale a prescindere da eventuali rapporti con la pubblica amministrazione (impedendogli, così, di fare l’imprenditore); ma anche – si badi bene –  lo svolgimento di una vita civile normale (si pensi, a titolo esemplificativo, alla impossibilità di ottenere l’autorizzazione per realizzare un passo carrabile o per conseguire una patente di guida) ponendosi, quindi, in contrasto non solo con il principio della libertà di iniziativa economica, ma anche dei principi generali di cui all’art. 2 Cost.[17]
I sostenitori dell’opposta tesi potrebbero obiettare che un soggetto qualificato come “mafioso” non avrebbe alcun diritto al lavoro e a una vita “normale”. Tuttavia questo argomento non sembra tener conto del fatto che le interdittive di per sé non attestano la “mafiosità” di un’impresa o di chi vi opera, ma solo il suo essere infiltrata o a rischio di infiltrazione[18], giacché anche soggetti semplicemente conniventi con la mafia, «per quanto non concorrenti, nemmeno esterni, con siffatta forma di criminalità, e persino imprenditori soggiogati dalla sua forza intimidatoria e vittime di estorsioni sono passibili di informativa antimafia»[19].
Difatti l’informativa antimafia interdittiva – obbedendo a una logica di anticipazione della soglia di difesa sociale – non postula l’accertamento in sede penale di uno o più reati che attestino il collegamento o la contiguità dell’impresa con associazioni di tipo mafioso, ma si fonda anche sul solo rilievo di elementi sintomatici che dimostrino il concreto pericolo (anche se non la certezza) di infiltrazioni della criminalità organizzata nell’attività imprenditoriale[20]. L’autorità amministrativa può desumere il pericolo di infiltrazione mafiosa non solo da una serie di elementi fattuali tipizzati dal legislatore (art. 84, comma 4, D.lgs. n. 159/2011), ma anche da provvedimenti di condanna non definitiva per reati strumentali all’attività delle organizzazioni criminali unitamente a concreti elementi da cui risulta che l’attività d’impresa possa, anche in modo indiretto, agevolare le attività criminose o esserne in qualche modo condizionata (art. 91, comma 6, D.lgs. n. 159/2011).
Con il provvedimento del Prefetto, quindi, si anticipa la tutela contro il possibile inquinamento mafioso ad un livello, che se non è quello del sospetto, risulta comunque molto anticipato, perché basato, non su un accertamento giurisdizionale[21], ma su rapporti di polizia, cointeressenze economiche e, spesso, massime di esperienza. Queste ultime sono ricavate da generalizzazioni che attingono a dati, non solo frutto dell’attività investigativa, ma a volte anche sociologici e culturali.[22]
Da quanto suesposto appare, dunque, evidente che l’art. 89-bis – assegnando alle informative antimafia interdittive efficacia inibitoria estesa ai provvedimenti elencati nell’art. 67 – determina un’indebita assimilazione tra destinatari delle comunicazioni antimafia (id est delle misure di prevenzione) viventi nell’area del penalmente rilevante, e destinatari delle informazioni antimafia interdittive, i quali, il più delle volte, sono imprese estranee a tale area o perfino vittime delle ingerenze mafiose.
Ma vi è di più. Ai destinatari dell’informativa antimafia interdittiva verrebbe riservato un trattamento persino deteriore rispetto a quello che l’art. 67, comma 5, del Codice antimafia prevede per chi è definitivamente accertato come “mafioso”, in quanto l’autorità amministrativa non può (perché non è previsto dalla legge) procedere ad alcuna esclusione dalle decadenze e dai divieti, a differenza di quanto può fare il Tribunale, che ha applicato con provvedimento definitivo una misura di prevenzione, allorquando per effetto degli stessi verrebbero a mancare i mezzi di sostentamento all’interessato e alla famiglia.
Tra l’altro, la ratio della norma in questione fa perdere di valore e significato all’istituto del commissariamento previsto dall’art. 32 D.l. n. 90/2014[23]. Tale articolo, al comma 10, prevede, infatti, che – qualora le imprese aggiudicatarie di un appalto per la realizzazione di opere pubbliche, servizi o forniture, siano destinatarie di un’informativa antimafia interdittiva – il Prefetto adotti d’ufficio misure straordinarie di gestione, sostegno e monitoraggio delle imprese[24], sempre che sussista l’urgente necessità di assicurare il completamento dell’esecuzione del contratto, ovvero la sua prosecuzione[25] al fine di garantire la continuità di funzioni e servizi indifferibili per la tutela di diritti fondamentali, nonché per la salvaguardia dei livelli occupazionali o dell’integrità dei bilanci pubblici, ancorché ricorrano i presupposti di cui all’art. 94, comma 3, D.lgs. n. 159/2011. Tale norma trova, quindi, applicazione solo in presenza di grandi realtà economiche legate alla p.a. da un rapporto negoziale, id est dei casi in cui è previsto per le pubbliche amministrazioni l’obbligo di acquisire l’informazione di cui all’articolo 84, comma 3 (art. 91, comma 1, D.lgs. n. 159/2011). Contrariamente i soggetti che – richiedendo uno degli atti di cui all’art. 67 per cui è necessaria la comunicazione antimafia – si trovano ad essere destinatari di un’informativa interdittiva emessa ai sensi dell’art. 89-bis, non possono più svolgere alcun tipo di attività, giacché decadono ipso iure da ogni autorizzazione, iscrizione, abilitazione professionale e tecnica.
 
Le preoccupazioni di cui si è dato conto sono state recepite dall’ordinanza di rimessione ora scrutinata dalla Corte costituzionale.
Il Tribunale ordinario di Palermo, con l’ordinanza n. 131 del 10 maggio 2018,  ha per l’appunto dubitato della legittimità costituzionale degli artt. 89-bis e 92 del Codice antimafia, in riferimento agli artt. 3 e 41 della Costituzione, in quanto le norme censurate ricollegano al rilascio dell’informazione interdittiva (dunque ad un provvedimento di natura amministrativa basato o su elementi fattuali più sfumati di quelli che si pretendono in sede giudiziaria – perché solo sintomatici e indiziari – o sulla sussistenza solo di tentativi di infiltrazione mafiosa) le conseguenze estremamente afflittive previste dall’art. 67 D.lgs. n. 159/2011 ossia il divieto non solo di intrattenere rapporti con la pubblica amministrazione, ma anche di esercitare un’attività imprenditoriale puramente privatistica[26], così privando il destinatario del diritto, sancito dall’art. 41 Cost., di esercitare l’iniziativa economica e ponendolo nella stessa situazione di colui che risulti destinatario di una misura di prevenzione personale applicata con provvedimento definitivo di natura giurisdizionale, come tale garantito dal punto di vista procedimentale.
Il giudice rimettente – pur riconoscendo la pervasività e la profonda lesività del fenomeno dell’infiltrazione mafiosa nell’economia e la necessità di una risposta efficace che elimini i soggetti economici “infiltrati” dalle associazioni mafiose dal circuito dell’economia legale, e non solo da quello dei rapporti con la pubblica amministrazione – ritiene che una legislazione  che affida tale radicale risposta ad un provvedimento amministrativo, quale è l’informazione antimafia prefettizia (sostanzialmente equiparandolo negli effetti ad un provvedimento giurisdizionale definitivo) porrebbe seri dubbi di legittimità costituzionale in riferimento agli artt. 3 e 41 Cost.. Ad avviso del giudice a quo sarebbe, infatti, irragionevole ricollegare ad un provvedimento di natura amministrativa gli stessi effetti di una misura di prevenzione applicata con un provvedimento di natura giurisdizionale, paralizzando di fatto il diritto all’esercizio dell’iniziativa economica, costituzionalmente protetto dall’art. 41 Cost..
 
La Corte Costituzionale, con la sentenza in esame, ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 89-bis e 92 commi 3 e 4, D.lgs. n. 159/2011, sollevate dal Tribunale di Palermo. Il Giudice delle leggi, infatti, non ha ravvisato profili di incostituzionalità nella scelta di affidare l’adozione della grave misura interdittiva di ogni attività economica, anche privata, all’autorità amministrativa e non a quella giurisdizionale, come auspicato dal giudice rimettente.
A tale risoluzione è giunta sostenendo, ancora una volta[27], che la pericolosità del fenomeno mafioso – non solo per le dimensioni ma anche per le caratteristiche, in quanto la forza intimidatoria del vincolo associativo e la mole ingente di capitali provenienti da attività illecite sarebbero inevitabilmente destinate a tradursi in atti e comportamenti che inquinano e falsano il libero e naturale sviluppo dell’attività economica nei settori infiltrati, con grave vulnus non solo per la concorrenza, ma per la stessa libertà e dignità umana – rende necessario svolgere un’azione preventiva, con un costante monitoraggio del fenomeno che consenta di conoscere le sue manifestazioni e l’individuazione delle modalità di tale azione criminale capace di adattarsi alle circostanze e variare in relazione alle situazioni e alle problematiche locali.
È in questa prospettiva anticipatoria della difesa della legalità che si collocherebbe il provvedimento in questione, al quale viene riconosciuta dalla giurisprudenza natura ‹‹cautelare e preventiva››[28].
D’altro canto, secondo la Corte, il bilanciamento al massimo grado possibile tra i valori costituzionali rilevanti in materia – l’esigenza, da un lato, di preservare i rapporti economici dalle infiltrazioni mafiose e, dall’altro, la libertà di impresa – è comunque garantito da un sindacato giurisdizionale pieno ed effettivo e dal carattere provvisorio della informativa antimafia.
 
Questa argomentazione risulta complessivamente condivisibile.[29] Deve osservarsi effettivamente che rispetto al passato, la cognizione nel nuovo processo assume una fisionomia ben diversa, passando dal sindacato “estrinseco” sulla legittimità del provvedimento alla cognizione “piena” del rapporto e della discrezionalità tecnica. Nello schema originario e tradizionale della giurisdizione amministrativa, il giudice amministrativo conosceva del rapporto tra amministrazione e cittadino attraverso lo “schermo” di validità dell’atto, non approdando in modo positivo e sostanziale alla risoluzione del conflitto, ma arrestandosi al profilo “estrinseco” del provvedimento. L’ordinamento processuale amministrativo si è poi progressivamente affrancato dal paradigma del mero accertamento giuridico di legittimità dell’atto per volgersi verso una idea di giurisdizione preordinata alla tutela di pretese sostanziali.
Merita rimarcare che la giustizia amministrativa ha già saputo trasformarsi mentre cambiava il rapporto tra autorità e libertà, tra potere e diritti fondamentali, tra interesse legittimo e pretesa alle prestazioni sociali. Il giudice amministrativo ha assunto un ruolo peculiare: nasce come un giudice nell’amministrazione, per l’idea che l’amministrazione non può essere giudicata che da sé stessa, e si trasforma gradualmente in un giudice dell’amministrazione, cioè un giudice che giudica l’amministrazione. La giustizia amministrativa, al pari e anche più di altri settori, risente, infatti, dei mutamenti di contesto: a livello politico (con riferimento alle priorità di ordine sociale che si traducono nelle scelte legislative e nella loro conseguente attuazione amministrativa); a livello economico (perché le decisioni del giudice amministrativo impattano su settori di rilevanza economica, quali la regolazione, il governo del territorio e la tutela dell’ambiente); a livello sociale (si pensi alle connessioni con i servizi pubblici e le prestazioni sociali); a livello di ordinamento sovranazionale (per effetto del quale l’interferenza dei poteri pubblici sulla vita dei consociati si è intensificata, sia pure attraverso nuove forme giuridiche).[30]
In questo mutato contesto i pubblici poteri si trasformano e, di conseguenza, cambiano i loro rapporti con i privati. Il ruolo del giudice segue questa evoluzione, facendosi «garante del “diritto” dei singoli componenti della comunità a vedersi non solo salvaguardata la propria sfera individuale, ma anche riconosciute quelle pretese a prestazioni amministrative che costituiscono il cuore dei “nuovi diritti” da tempo definiti – fin dal Manifesto di Gurvitch del 1946 –  “diritti sociali”, cioè diritti delle persone in quanto appartenenti a una comunità solidale, che costituiscono la misura concreta dei diritti riconosciuti dalle Costituzioni»[31].
Nondimeno anche nel settore dell’ordine pubblico e del contrasto all’illegalità, che qui è di interesse, emerge il mutato ruolo del giudice amministrativo. Le numerose sentenze amministrative che si sono occupate di questo settore, in particolare dell’informativa antimafia, hanno affermato, infatti, che ‹‹il giudice amministrativo è chiamato a valutare la gravità del quadro indiziario, posto a base della valutazione prefettizia in ordine al pericolo di infiltrazione mafiosa, e il suo sindacato sull’esercizio del potere prefettizio, con un pieno accesso ai fatti sintomatici del pericolo, consente non solo di sindacare l’esistenza o meno di questi fatti, ma di apprezzare la ragionevolezza e la proporzionalità della prognosi inferenziale che l’autorità amministrativa trae da quei fatti››[32].
Tuttavia occorre precisare che la regola di inferenza utilizzata dal giudice amministrativo al fine di individuare il pericolo di insinuazione mafiosa è quella incentrata su di un giudizio probabilistico basato sulla regola del più probabile che non.[33] Il Consiglio di Stato ha, infatti, individuato nel criterio del più probabile che non l’essenza della regola di giudizio da utilizzarsi onde ritenere il pericolo di condizionamento e trarre così dal quadro indiziario d’insieme il giudizio negativo di pericolosità che fonda la misura interdittiva.
In sostanza, il quadro indiziario dell’infiltrazione mafiosa posto a base dell’informativa deve evidenziare fatti aventi le caratteristiche di gravità, precisione e concordanza, dai quali il giudice amministrativo, chiamato a verificare l’effettivo pericolo di infiltrazione mafiosa, possa pervenire in via presuntiva alla conclusione ragionevole e più probabile che sussista  il “rischio” di permeabilità dell’impresa, e non necessariamente l’avvenuta infiltrazione, da parte di associazioni mafiose,  valutate e contestualizzate tutte le circostanze di tempo, di luogo e di persona.[34] Tale regola, ispirata a finalità preventive, si ricava dalla differenza rispetto al principio al di là del ragionevole dubbio[35] che caratterizza il giudizio penale: l’ipotesi raggiunge la soglia oltre ogni ragionevole dubbio quando sia l’unica in grado di giustificare tutti i risultati ottenuti nell’indagine. Il criterio del più probabile che non si colloca, invece, nell’area del ragionevole dubbio: ciò che lo connota non è un diverso procedimento logico, ma la (minore) forza dimostrativa dell’evidence and inference.
In definitiva, l’interprete è sempre vincolato a sviluppare un’argomentazione rigorosa sul piano metodologico, ma al fine di ritenere provato un determinato fatto, gli è sufficiente accertare che l’ipotesi intorno a quel fatto sia più probabile di tutte le altre messe insieme, ossia rappresenti il 50% + 1 di possibilità, ovvero, con formulazione più appropriata, la c.d. probabilità cruciale.[36]
Il pericolo dell’infiltrazione mafiosa, quale emerge dalla legislazione antimafia, non può tuttavia sostanziarsi in un sospetto della pubblica amministrazione o in una vaga intuizione del giudice. Il sistema della prevenzione amministrativa antimafia, infatti, non costituisce e non può costituire, in uno Stato di diritto democratico, un diritto della paura, perché deve rispettare l’irrinunciabile principio di legalità, non solo in senso formale ma anche sostanziale, sicché il giudice amministrativo, chiamato a sindacare il corretto esercizio del potere prefettizio nel prevenire l’infiltrazione mafiosa, deve farsi attento custode delle irrinunciabili condizioni di tassatività sostanziale e di tassatività processuale di questo potere per una tutela giurisdizionale piena ed effettiva di diritti aventi rango costituzionale, come quello della libera iniziativa imprenditoriale (art. 41 Cost.), nel necessario, ovvio, bilanciamento con l’altrettanto irrinunciabile, vitale, interesse dello Stato a contrastare l’insidia delle mafie.[37]
Queste considerazioni valgono, a maggior ragione, dopo la recente sentenza della Corte Costituzionale n. 24 del 27 febbraio 2019 che, in seguito alla sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo del 23 febbraio 2017, De Tommaso c. Italia, e seppure con riferimento alle ipotesi di cui alle lett. a) e b) dell’art. 1, comma 1, D.lgs. n. 159/2011 (riguardanti le misure di prevenzione personali), ha sottolineato l’esigenza generale di rispettare, anche per il diritto della prevenzione, essenziali garanzie di tassatività sostanziale, inerenti alla precisione, alla determinatezza e alla prevedibilità degli elementi costitutivi della fattispecie legale, che costituisce oggetto di prova, ed altrettanto essenziali garanzie di tassatività processuale, attinenti invece alle modalità di accertamento probatorio in giudizio.[38]
A tal proposito deve osservarsi che secondo la giurisprudenza prevalente del Consiglio di Stato il sindacato giurisdizionale sull’informativa interdittiva adottata dal Prefetto è pieno ed effettivo, in termini di full jurisdiction, anche secondo il diritto convenzionale, perché non solo investe, sul piano della c.d. tassatività sostanziale, l’esistenza di fatti indicatori di eventuale infiltrazione mafiosa, posti dall’autorità prefettizia a base del provvedimento interdittivo, ma sindaca anche, sul piano della c.d. tassatività processuale, la prognosi inferenziale circa la permeabilità mafiosa dell’impresa, nell’accezione, nuova e moderna, di una discrezionalità amministrativa declinata in questa delicata materia sotto l’aspetto del ragionamento probabilistico compiuto dall’amministrazione.[39]
In particolare, la tipizzazione giurisprudenziale degli elementi indicativi dell’infiltrazione mafiosa sulla base del diritto positivo non viola il principio di determinatezza della fattispecie, che si declina in modo strutturalmente diverso nel diritto della prevenzione, in base ad una necessaria elasticità che la distingue, sul piano della tassatività sostanziale, dalle fattispecie incriminatrici tipiche del diritto della repressione.[40]
Secondo i Giudizi di Palazzo Spada, infatti, «non si può dubitare che l’interpretazione giurisprudenziale tassativizzante, a partire dalla sentenza n. 1743 del 3 maggio 2016, consenta ragionevolmente di prevedere l’applicazione della misura interdittiva in presenza delle due forme di contiguità, compiacente o soggiacente, dell’impresa ad influenze mafiose, allorquando, cioè, un operatore economico si lasci condizionare dalla minaccia mafiosa e si lasci imporre le condizioni (e/o le persone, le imprese e/o le logiche) da questa volute o, per altro verso, decida di scendere consapevolmente a patti con la mafia nella prospettiva di un qualsivoglia vantaggio per la propria attività»[41].
D’altronde, come ha posto in rilievo la Corte Costituzionale nella sentenza n. 24 del 27 febbraio 2019, allorché si versi al di fuori della materia penale, non può del tutto escludersi che l’esigenza di predeterminazione delle condizioni in presenza delle quali può legittimamente limitarsi un diritto costituzionalmente e convenzionalmente protetto possa essere soddisfatta anche sulla base dell’interpretazione, fornita da una giurisprudenza costante e uniforme, di disposizioni legislative pure caratterizzate dall’uso di clausole generali, o comunque da formule connotate in origine da un certo grado di imprecisione.
Essenziale – nell’ottica costituzionale così come in quella convenzionale[42] – è, infatti, che tale interpretazione giurisprudenziale sia in grado di porre la persona potenzialmente destinataria delle misure limitative del diritto in condizioni di poter ragionevolmente prevedere l’applicazione della misura stessa.
Parimenti, sempre secondo il Consiglio di Stato, il criterio del più probabile che non soddisfa, a sua volta, le indeclinabili condizioni di tassatività processuale, pure menzionate dalla Corte Costituzionale nella già richiamata sentenza n. 24 del 2019, afferenti alle modalità di accertamento probatorio in giudizio e, cioè, al quomodo della prova e «riconducibili a differenti parametri costituzionali e convenzionali […] tra cui, in particolare, il diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost. e il diritto a un “giusto processo” ai sensi, assieme, dell’art. 111 Cost. e dell’art. 6 CEDU […] di fondamentale importanza al fine di assicurare la legittimità costituzionale del sistema delle misure di prevenzione»[43].
Lo standard probatorio sotteso alla regola del più probabile che non, nel richiedere la verifica della c.d. probabilità cruciale, impone infatti di ritenere, sul piano della tassatività processuale, più probabile l’ipotesi dell’infiltrazione mafiosa rispetto a “tutte le altre messe insieme”, nell’apprezzamento degli elementi indiziari posti a base del provvedimento prefettizio, che attingono perciò una soglia di coerenza e significatività dotata di una credibilità razionale superiore a qualsivoglia altra alternativa spiegazione logica, laddove l’esistenza di spiegazioni divergenti, fornite di un qualche elemento concreto, implicherebbe un ragionevole dubbio, non richiedendosi infatti, in questa materia, l’accertamento di una responsabilità che superi qualsivoglia ragionevole dubbio, tipico delle istanze penali, né potendo quindi traslarsi ad essa, impropriamente, le categorie tipiche del diritto e del processo penale, che ne frustrerebbero irrimediabilmente la funzione preventiva.[44]
7. La validità temporale delle informazioni antimafia interdittive: verso il superamento della tendenziale ultrattività
In secondo luogo, la Corte Costituzionale rinviene nel carattere provvisorio dell’informativa antimafia[45], l’ulteriore meccanismo finalizzato a garantire la tutela della libertà di impresa e del diritto all’iniziativa economica di cui all’art. 41 Cost.[46]
Questa affermazione è tutt’altro che ovvia ed induce a svolgere alcune considerazioni sui due contrastanti orientamenti interpretativi che si fronteggia(va)no in materia.
Secondo l’orientamento prevalente e consolidato la limitazione temporale di efficacia dell’informativa antimafia di cui all’art. 86, comma 2[47], deve essere riferita alle sole ipotesi di informativa di contenuto liberatorio (in cui sia attestata l’assenza di pericolo di infiltrazione mafiosa), e non anche alle ipotesi in cui l’informativa dia atto di riscontri indicativi del pericolo di infiltrazioni malavitose, i quali ultimi conservano la loro valenza anche oltre il termine indicato nella norma.
Questo orientamento maggioritario opera una scissione degli effetti delle informative tra quelle interdittive e quelle liberatorie (id est afferma la tendenziale ultrattività dell’informativa antimafia interdittiva), e fa leva su una serie di argomenti trasfusi essenzialmente nella sentenza del Consiglio di Stato, n. 4121 del 5 ottobre 2016.
Il primo argomento è di carattere testuale e muove dal combinato disposto dell’art. 86, comma 2 e dell’art. 83, comma 1, D.lgs. n. 159/2011 (disposizione che individua quali sono gli obblighi che ricadono in capo alle pubbliche amministrazioni quando si trovino a stipulare, autorizzare o approvare contratti pubblici). È stato al riguardo sostenuto che questa previsione normativa priva di ubi constistam un’interpretazione che affermi che il decorso del tempo comporta la perdita di efficacia dell’informativa interdittiva, atteso che le amministrazioni non potrebbero comunque procedere alla stipula, autorizzazione o approvazione di contratti in mancanza del rilascio di una nuova interdittiva.
Il secondo argomento è di carattere teleologico e si fonda sulla piena coerenza che sussiste fra (da un lato) la finalità preventiva e lato sensu anticipatoria che deve essere riconosciuta alle informative antimafia di contenuto liberatorio e (dall’altro) l’efficacia temporale tendenzialmente illimitata che può e deve essere riconosciuta alle informative interdittive.[48] Si tratta di una finalità che, mirando a perseguire scopi di preminente interesse pubblico (quali quelli legati al contrasto ai tentativi di infiltrazione mafiosa negli appalti pubblici), non tollera in via di principio l’imposizione di vincoli temporali di sorta.[49]
Il terzo è collegato al carattere di permanente significatività della rilevata sussistenza di tentativi di infiltrazione malavitosa, fino al sopraggiungere di fatti positivi, che persuasivamente e fattivamente introducano elementi di inattendibilità della situazione rilevata in precedenza. È stato al riguardo sostenuto che l’interdittiva antimafia può legittimamente fondarsi, oltre che su fatti recenti, anche su fatti pregressi e più risalenti nel tempo, laddove gli elementi a tal fine raccolti dal Prefetto siano comunque sintomatici di un condizionamento attuale dell’attività d’impresa.[50]
Contrariamente secondo l’orientamento ad oggi minoritario, ma non per questo privo di forti argomenti a proprio sostegno, la disposizione normativa di cui all’art. 86, comma 2, si presta ad una lettura di carattere letterale che sembrerebbe deporre pienamente nel senso che le tutte le informative antimafia (ivi comprese quelle interdittive) perdono validità (rectius efficacia) decorso il termine annuale. In proposito, giova qui menzionare la significativa pronuncia del Consiglio di Stato n. 5256 del 17 novembre 2015[51] che aderisce, con una certa ampiezza di argomentazioni, a quest’ultimo orientamento (id est pari perdita di efficacia sia dell’informativa interdittiva sia dell’informativa liberatoria).
In primis, i fautori della tesi minoritaria affermano che l’orientamento maggioritario introduce – in contrasto ad un ben noto canone ermeneutico, effettuando un’operazione interpretativa complessa – elementi di discrimine non emergenti dal chiaro ed univoco significato letterale del testo normativo.
In secundis viene evidenziato che in virtù del principio trasfuso nel brocardo ubi lex non distinguit nec nos distinguere debemus, ove il legislatore non ha operato una distinzione di questo tipo (come risulta dalla disposizione normativa in esame) l’interprete non dovrebbe essere legittimato a farlo.
Inoltre, secondo la tesi minoritaria, l’opposta interpretazione appare rivolta ad “estendere”, in mancanza di idonei strumenti di garanzia, la “stretta” portata di “norme emergenziali” introduttive di “potestà ablatorie straordinarie”[52].
Infine, i fautori della tesi minoritaria sostengono che, anche a condividere l’orientamento che riconosce una sorta di valore indiziante agli elementi posti a fondamento della precedente informativa interdittiva, appare necessario comprendere esattamente su chi gravi l’onere della prova in contrario. In particolare, anche laddove la Prefettura abbia del tutto persuasivamente e motivatamente adottato la prima informativa di carattere preclusivo, occorre in questo caso verificare se gravi sulla Prefettura l’onere di volta in volta di riverificare – se del caso su iniziativa della parte privata – tutti gli elementi potenzialmente idonei a giungere ad una soluzione di segno diverso, oppure se gravi sulla parte privata l’onere di provare  l’esistenza di elementi nuovi e diversi che evidenzino il venir meno della situazione di pericolo.
Orbene la Corte Costituzionale, con la sentenza in commento, sembra aprire una nuova strada, segnando un importante cambiamento di rotta nell’applicazione della disciplina di cui all’art. 86, comma 2, e riportando alla luce quest’ultimo orientamento minoritario secondo cui tutte le informative antimafia (ivi comprese quelle interdittive) perdono validità (rectius efficacia) decorso il termine annuale.
Questa soluzione non può che essere condivisa, anche alla luce di considerazioni di carattere più generale che attengono al procedimento volto all’adozione della misura interdittiva.
Deve evidenziarsi, infatti, che secondo una giurisprudenza consolidata, le generali garanzie di partecipazione del privato al procedimento amministrativo non opererebbero in materia, poiché «la natura cautelare dell’atto, caratterizzato da celerità e riservatezza, esclude la necessità dell’avviso dell’avvio del procedimento»[53]. Gli istituti della legislazione antimafia hanno, quindi, portata derogatoria rispetto alle generali regole sul giusto procedimento amministrativo consacrate dalla L. 7 agosto 1990, n. 241 e successive modificazioni. Pertanto, questo tipo di procedimenti non prevede la comunicazione di avvio del procedimento e il preavviso di diniego, di cui agli artt. 7 e 10 bis della legge sul procedimento amministrativo, e può comportare un’attenuazione, se non una eliminazione, del contraddittorio procedimentale[54]. Appare chiaro, quindi, come una limitazione del contraddittorio in sede procedimentale, unita ad una efficacia temporale tendenzialmente illimitata delle informative antimafia interdittive, porterebbe ad un sostanziale diniego di giustizia e alla violazione del principio di cui all’art. 41 Cost. e della riserva di legge in materia di potestà ablatorie[55], considerata la rilevante attenuazione o espoliazione di poteri di iniziativa economica privata che ne consegue.
È evidente, infatti, che l’orientamento fino ad ora maggioritario, teso a non gravare la Prefettura di un onere probatorio in negativo, rischia di condannare l’imprenditore a quello che è stato definito una sorta di vero e proprio “ergastolo imprenditoriale” o “morte civile dell’impresa”, che può essere combinato sia quando al soggetto privato venga impedito di farsi parte attiva nel fornire l’allegazione di documenti e circostanze nuove e ulteriori, sia nello sgravio in capo alle prefetture di un potere/dovere di attivazione officiosa in tal senso.
Tra l’altro, proprio con riferimento al profilo del contraddittorio procedimentale, il TAR Bari con l’ordinanza n. 28 del 13 gennaio 2020[56] aveva richiesto alla Corte di Giustizia UE di chiarire pregiudizialmente se gli artt. 91, 92, e 93 del D.lgs. n. 159/2011, nella parte in cui non prevedono obbligatoriamente il contraddittorio procedimentale in favore del soggetto nei cui confronti il Prefetto si propone di rilasciare una informazione antimafia, siano compatibili con il principio del contraddittorio, così come ricostruito e riconosciuto quale principio di diritto dell’Unione. Sul punto, il Consiglio di Stato[57] ha prontamente rilevato, incidenter tantum, che, ferma restando ogni cognizione della Corte UE sulla questione rimessale, l’assenza di una necessaria interlocuzione procedimentale in questa materia non costituisce un vulnus al principio di buona amministrazione, perché il diritto al contraddittorio procedimentale e al rispetto dei diritti della difesa non è una prerogativa assoluta, ma può soggiacere a restrizioni, a condizione che «queste rispondano effettivamente a obiettivi di interesse generale perseguiti dalla misura di cui trattasi e non costituiscano, rispetto allo scopo perseguito, un intervento sproporzionato e inaccettabile, tale da ledere la sostanza stessa dei diritti così garantiti»[58].
La Corte di Giustizia UE si è pronunciata sulla questione[59], senza tuttavia toccarne il merito, ma dichiarandola manifestamente irricevibile ai sensi dell’art. 53, par. 2, del regolamento di procedura della Corte di Giustizia, in quanto «il giudice del rinvio non ha dimostrato l’esistenza di un criterio di collegamento tra, da un lato, il diritto dell’Unione e, dall’altro, l’informazione antimafia interdittiva adottata dalla Prefettura».[60]
Deve, inoltre, osservarsi che – sebbene la giurisprudenza si trovi, frequentemente, a porre rimedio a una cattiva qualità della normazione, a lacune dell’ordinamento, e a volte anche a mancate scelte legislative[61] – l’interpretazione del testo dell’art. 86, comma 2, non necessitava di un intervento correttivo, in quanto il dato letterale appare certo e univoco.
Il Giudice delle leggi sembra ben consapevole dell’esigenza che la libertà di iniziativa economica non venga compromessa a tempo indeterminato, e afferma, quindi, che anche le informative antimafia interdittive perdono efficacia decorso il termine annuale, come previsto dall’art. 86, comma 2.[62]
 
Le conseguenze sull’operato delle Prefetture dei principi fin qui affermati sono estremamente rilevanti.
Ne consegue logicamente, infatti, che l’Amministrazione prefettizia prima di “spedire”, affinché possa essere “ultrattivamente utilizzata”, una informativa “ormai scaduta” (per decorso del termine di validità), avrà l’obbligo di verificare che le condizioni che ne hanno determinato l’originaria emissione non siano modificate e persistano in toto.[63]
E ciò non solo nel caso in cui il soggetto interessato abbia chiesto espressamente alla competente Prefettura la revisione, ma anche a prescindere da una richiesta di riesame da parte del privato.
Il trascorrere del tempo non è più allora un fatto irrilevante, di conseguenza non graverà più sul privato l’onere di presentare una richiesta di aggiornamento circostanziata e rappresentativa di sopravvenienze, astrattamente idonee a far venire meno la situazione di permeabilità mafiosa. Spetterà piuttosto al Prefetto dimostrare che i fatti posti a fondamento della precedente informativa interdittiva – benché sia trascorso il termine annuale di efficacia previsto dalla legge – sono comunque sintomatici di un condizionamento attuale dell’attività d’impresa.[64]
D’altra parte è più ragionevole sostenere che i limiti temporali di validità della documentazione antimafia debbono valere non solo “contro” il cittadino (nel senso della necessità di verificarne la permanenza dei requisiti), ma anche a suo favore. 
Le esigenze di prevenzione cui risponde l’azione amministrativa in materia, richiedono giudizi legati all’attualità dei dati rilevanti, in un senso o nell’altro, per la tutela delle dette esigenze. Ed il carattere dell’“attualità” delle risultanze delle informative prefettizie è chiaramente assicurato dal legislatore nel determinare in termini univoci il periodo di validità dei documenti antimafia, come opportunamente evidenziato dalla Corte Costituzionale.
Né può ritenersi che il periodo annuale di utilizzabilità delle informative prefettizie (sul piano letterale certamente non limitato alle informative “negative”) possa risultare tale sulla base di un’interpretazione logica o sistematica della normativa in subiecta materia.[65]
A tal proposito occorre ribadire che si tratta di disposizioni tendenzialmente di stretta interpretazione in quanto certamente limitative in maniera estremamente rilevante della libertà di iniziativa economica. Sia in dottrina[66] che in giurisprudenza[67] è stato affermato, infatti, che l’interpretazione della normativa antimafia deve essere improntata a necessaria cautela e prudenza, in modo che sia assicurato il delicato equilibrio tra gli opposti interessi che fanno capo, da un lato, alla presunzione di innocenza di cui all’art. 27 Cost. e alla libertà di impresa costituzionalmente garantita e, dall’altro, alla efficacia repressione della criminalità organizzata[68].
 
A tutto ciò si aggiunga che il Prefetto, deputato a riesaminare i presupposti per confermare o revocare l’informativa interdittiva, avrebbe l’obbligo di avviare un sub-procedimento istruttorio sulla questione con il coinvolgimento del soggetto interessato. In altre parole, incomberebbe sul Prefetto l’obbligo ineludibile di comunicare l’avvio del procedimento ex art. 7 L. n. 241/1990, che costituisce lo strumento indispensabile per attivare la partecipazione all’attività amministrativa, consentendo al soggetto coinvolto dall’agere amministrativo di avere conoscenza dell’avvio di un procedimento destinato a sfociare nell’emanazione di un provvedimento che produrrà effetti nei suoi confronti (id est dell’informativa antimafia interdittiva), permettendogli così di esercitare i diritti che gli sono riconosciuti dalla stessa L. n. 241/1990.
Inoltre, nel caso in cui l’aggiornamento dell’informativa avvenga su istanza di riesame del destinatario, graverebbe sull’Amministrazione prefettizia l’obbligo di comunicare l’eventuale preavviso di rigetto ex art. 10-bis L. n. 241/1990 come modificato dal D.l. n. 76/2020, conv. in L. 11 settembre 2020, n. 120, al fine di consentire al destinatario di adoperarsi per rappresentare fatti e/o interessi che contraddicono o rendono non più attuali le conclusioni adombrate dal Prefetto, non sussistendo ragioni di urgenza a giustificazione dell’omissione della fase partecipativa.
D’altronde il diritto ad una buona amministrazione costituisce anche un principio fondamentale del diritto dell’Unione, sancito nell’art. 41 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, il quale prevede che “1. Ogni persona ha diritto a che le questioni che la riguardano siano trattate in modo imparziale ed equo entro un termine ragionevole dalle istituzioni, organi e organismi dell’Unione. 2. Tale diritto comprende in particolare: a) il diritto di ogni persona di essere ascoltata prima che nei suoi confronti venga adottato un provvedimento individuale che le rechi pregiudizio; b) il diritto di ogni persona di accedere al fascicolo che la riguarda, nel rispetto dei legittimi interessi della riservatezza e del segreto professionale e commerciale; c) l’obbligo per l’amministrazione di motivare le proprie decisioni”.
Peraltro anche nella giurisprudenza amministrativa del Consiglio di Stato, sembra affermarsi un’apertura in tal senso.[69]
 La III Sezione ha, infatti, recentemente affermato[70] che un quanto meno parziale recupero delle garanzie procedimentali, nel rispetto dei diritti di difesa spettanti al soggetto destinatario del provvedimento, sarebbe auspicabile, de iure condendo, in tutte quelle ipotesi in cui la permeabilità mafiosa appaia alquanto dubbia, incerta, e presenti per così dire, delle zone grigie o interstiziali, rispetto alle quali l’apporto procedimentale del soggetto potrebbe fornire utili elementi a chiarire alla stessa autorità procedente la natura dei rapporti tra il soggetto e le dinamiche, spesso ambigue e fluide, del mondo criminale.
In tutte queste ipotesi dunque, laddove la partecipazione non frusti l’urgenza del provvedere
e le particolari esigenze di celerità del procedimento – art. 7 della L. n. 241/1990 – per bloccare un grave, incontrollabile o imminente pericolo di infiltrazione mafiosa e, dunque, non ostacoli la ratio stessa dell’informazione antimafia quale strumento di massima tutela preventiva nella lotta contro la mafia, la partecipazione procedimentale, prima di adottare un provvedimento interdittivo potrebbe e dovrebbe essere ammessa in via generale perché:
a) consentirebbe all’impresa di esercitare in sede procedimentale i propri diritti di difesa e di spiegare le ragioni alternative di determinati atti o condotte, ritenuti dalla Prefettura sintomatici di infiltrazione mafiosa, nonché di adottare, eventualmente su proposta e sotto la supervisione della stessa Prefettura, misure di self cleaning, che lo stesso legislatore potrebbe introdurre già in sede procedimentale con un’apposita rivisitazione delle misure straordinarie, ad esempio, dall’art. 32, comma 10, D.l. n. 90/2014, conv. con mod. in L. 11 agosto 2014, n. 114, da ammettersi, ove la situazione lo consenta, prima e al fine di evitare che si adotti la misura più incisiva dell’informazione antimafia; b) consentirebbe allo stesso Prefetto di intervenire con il provvedimento interdittivo quale extrema ratio solo a fronte di situazioni gravi, chiare, inequivocabili, non altrimenti giustificabili e giustificate dall’impresa, secondo la logica della probabilità cruciale, di infiltrazione mafiosa, all’esito di una istruttoria più completa, approfondita, meditata, che si rifletta in un apparato motivazionale del provvedimento amministrativo, fondamento e presidio della legalità sostanziale in un ordinamento democratico, che sia il più possibile esaustivo ed argomentato; c) consentirebbe, infine, al giudice amministrativo di esercitare con maggiore pienezza il proprio sindacato giurisdizionale sugli elementi già valutati dalla Prefettura in sede procedimentale, anche previo approfondimento istruttorio nel contraddittorio con l’impresa, nonché sul conseguente corredo motivazionale del provvedimento prefettizio, e di affinare così ulteriormente, nell’ottica della full jurisdiction, i propri poteri cognitori e istruttori in questa delicata materia, crocevia di fondamentali valori costituzionali, eurounitari e convenzionali in gioco.
I giudici di Palazzo Spada hanno, inoltre, osservato che tutto ciò potrebbe far ritenere la stessa questione della determinatezza delle situazioni indicative di infiltrazione mafiosa, nell’ottica della c.d. tassatività sostanziale, meno assillante o persino superata perché, per rammentare le parole della Corte di Giustizia UE nell’ordinanza del 28 maggio 2020 in C-17/20, il soggetto destinatario dell’informazione, già in sede procedimentale, potrebbe acquisire conoscenza e manifestare utilmente il proprio punto di vista «in merito agli elementi sui quali l’amministrazione intende fondare la sua decisione», anche quelli che, per la natura preventiva della misura, hanno un naturale, ineliminabile, margine di elasticità, e correggere così con le opportune misure, ove possibile, comportamenti o prassi che possono avvalorare il rischio di infiltrazione mafiosa.
L’incisività delle misure interdittive, come mostra anche l’aumento dei provvedimenti prefettizi negli ultimi anni, richiede che la lotta della mafia avvenga senza un sacrificio sproporzionato dei diritti di difesa, anzitutto, e della libertà di impresa, perché solo la proporzione è condizione di civiltà dell’azione amministrativa ed evita che la normativa di contrasto all’infiltrazione mafiosa, come ogni altro tipo di legislazione emergenziale, si trasformi in un diritto della paura.
Spetterà pure alla saggezza del legislatore, anche nell’ottica di un delicato bilanciamento tra i valori in gioco che hanno una rilevanza, ormai, non solo nazionale, valutare simili percorsi normativi, che evitino un sacrificio del diritto di difesa sproporzionato, in ipotesi che non siano contrassegnate dall’urgenza e dalle «particolari esigenze di celerità del procedimento» (le quali sole, come noto, possono comportare l’omissione delle garanzie partecipative, secondo quanto prevede in generale l’art. 7 della L. n. 241/1990), rispetto alla pure irrinunciabile, fondamentale, finalità del contrasto preventivo alla mafia.
 
Dott.ssa Anna Maria Speciale
Direttore dei Servizi Generali e Amministrativi
 
Pubblicato il 26 ottobre 2020
 

[1]M. Noccelli, I più recenti orientamenti della giurisprudenza sulla legislazione antimafia, in www.giustizia-amministrativa.it; N. Gullo, Il regolamento per il funzionamento della Banca dati nazionale unica della documentazione antimafia, in Giorn. Dir. Amm., 4, 2015; R. Cantone, La riforma della documentazione antimafia: davvero solo un restyling?, in Gior. dir. Amm., 8-9, 2013; G. D’Angelo, La documentazione antimafia nel D.lgs. 6 settembre 2011, n. 159: profili critici, in Urbanistica e Appalti, 3, 2013; V. Capuzza, Nuovi tratti normativi del codice antimafia sull’informativa prefettizia, in www.giustamm.it, 9, 2011.
[2]Consiglio di Stato, Sez. III, 1 aprile 2016, n. 1324, il quale ribadisce la «distinzione, ben netta ed ancorata a tassativi presupposti, tra informazione antimafia e comunicazione antimafia, vincolata, quest’ultima, alla definitività della misura di prevenzione».
[3]Consiglio di Stato, Sez. I, parere 17 novembre 2015, n. 3088.
[4]Consiglio di Stato, Sez. I, 17 novembre 2015, n. 497, in Foro it., 2016, III, 214, con nota di G. D’Angelo.
[5]Consiglio di Stato, Sez. I, parere 17 novembre 2015, n. 3088.
[6]Con le sentenze della Sez. III, 9 febbraio 2017, n. 565 e 8 marzo 2017, n. 1109.
[7]Consiglio di Sato, Sez. III., n. 565/ 2017 cit.
[8]Si veda in senso critico F.G. Scoca, Le interdittive antimafia e la razionalità, la ragionevolezza e la costituzionalità della lotta “anticipata” alla criminalità organizzata, in Giustamm.it, 6, 2018, secondo il quale «non c’è alcun necessario collegamento tra la lotta alla mafia, da un lato, e la salvaguardia dell’ordine economico e della concorrenza dall’altro: può esserci e non esserci, a seconda dei fatti che volta a volta giustificano la interdittiva. (…) Il codice antimafia, distinguendo tra soggetti che si muovono in aree criminali, e che, per questo, sono passibili di misure di prevenzione, con gli effetti dell’art. 67, e imprese soltanto esposte a tentativi di infiltrazione e, come tali, soggette ad interdittiva ed agli effetti di cui all’art. 94, ha raggiunto un condivisibile punto di equilibrio tra la difesa attiva contro la mafia e la tutela dei diritti costituzionalmente garantiti dei cittadini e delle imprese. Ogni aggravamento della disciplina legislativa, come risulta in modo chiarissimo dalla giurisprudenza amministrativa, governata dal Consiglio di Stato, che ha modificato perfino l’architettura del sistema, sposta l’asse fissato dal legislatore, aumenta (forse) l’efficacia della lotta alla mafia, ma incide negativamente sulla costituzionalità della disciplina e, a mio avviso, rischia di compromettere lo sviluppo economico delle zone inquinate». Sul punto si veda anche P. Tonnara, Informative antimafia e discrezionalità del Prefetto, in Urbanistica e Appalti, 2, 2017, per il quale: «si è già rilevato che, tradizionalmente, l’informativa antimafia è stata confinata al solo ambito dell’economia pubblica, ossia quel settore in cui l’Amministrazione attribuisce ai privati risorse e beni pubblici (appalti, concessioni, sovvenzioni). Se si indagano le ragioni di tale scelta, non sembra possa concludersi che essa sia stata il frutto di una sottovalutazione dell’imperversare della mafia in danno dell’economia legale. Pare piuttosto plausibile che l’opzione legislativa discenda dalla volontà di differenziare il livello di tutela a seconda delle circostanze e, soprattutto, dei contrapposti valori da bilanciare».
[9]P. Tonnara, Informative antimafia e discrezionalità del Prefetto, cit.
[10]In tal senso G. Amarelli, L’onda lunga della sentenza De Tommaso: ore contate per l’interdittiva antimafia ‘generica’ ex art. 84, co. 4, lett. d) ed e) D.lgs. n. 159/2011?, in Dir. Pen. Cont., 4, 2017, il quale ha osservato che: «è bene tener presente che il nocumento che può derivare ai beni patrimoniali del destinatario del provvedimento può assumere proporzioni vastissime e a volte “demolitive” per l’intera impresa come, ad esempio, nell’ipotesi in cui questa abbia dimensioni considerevoli e lavori esclusivamente o prevalentemente su commesse pubbliche: l’entità del danno economico conseguente all’adozione di un’interdittiva potrebbe aggirarsi su valori superiori a quelli di qualsiasi sanzione patrimoniale penale, anche la temutissima confisca per equivalente, riguardando l’intero “portafoglio” delle sue attività, non solo quelle “connesse” direttamente o meno con il reato, e determinando così il suo stato di decozione prodromico al fallimento o all’estensione dell’impresa».
[11]Peraltro non condiviso dal Consiglio di giustizia amministrativa per la Sicilia, 28 agosto 2017, n. 379.
[12]Art. 1, D.lgs. 6 settembre 2011, n. 159.
[13]F.G. Scoca, Le interdittive antimafia e la razionalità, la ragionevolezza e la costituzionalità della lotta “anticipata” alla criminalità organizzata, cit.
[14]M. Mazzamuto, Lo scettro alla prefettocrazia: l’indefinita pervasività del sottosistema antimafia delle grandi opere e il caso emblematico della “filiera”, in Dir. econ., 2013, 624 (Intervento al Convegno su Diritto amministrativo e criminalità, Copanello, 28-29 giugno 2013) secondo il quale: «la penetrazione della normativa antimafia nel tessuto del sistema giuspubblicistico presenta, in generale, due ordini di problemi. Un primo problema è costituito da una troppo scontata propensione a massimizzare l’interesse pubblico sotteso alla normativa antimafia.(…) Un secondo e, per certi versi, più grave problema, dal punto di vista dell’amministrazione e delle imprese, è costituito dal grado di legalità della normativa antimafia. Se è discutibile quale debba essere il punto di equilibrio tra prevenzione antimafia e interessi pubblici concorrenti o diritti di libertà, non può comunque eludersi l’esigenza di “certezza”». Si interroga anche sui profili di costituzionalità della disciplina della documentazione antimafia, F.G. Scoca, Razionalità e costituzionalità della documentazione antimafia in materia di appalti pubblici, in Giustamm.it, 6, 2013.
[15]Per F.G. Scoca, Razionalità e costituzionalità della documentazione antimafia in materia di appalti pubblici, cit., «l’interdittiva equivale ad una condanna a morte; dato che, una volta emessa, tutte le aggiudicazioni verranno revocate e da tutti i contratti già stipulati le stazioni appaltanti recederanno. Si consideri anche che, colpendo imprese sane, si falsa la concorrenza e si danneggiano, più o meno gravemente, anche le stazioni appaltanti». In argomento M. Mazzamuto, Profili di documentazione amministrativa antimafia, in Giustamm.it, 3, 2016, afferma che «di solito, si evidenzia, non a torto, che il contrasto alla criminalità costituisce una precondizione essenziale perché possa aversi un assetto effettivamente concorrenziale del mercato: le mafie infatti inibiscono la libera scelta degli operatori economici. Ma la questione può anche prospettarsi in termini capovolti. Occorre infatti verificare se e fino a che punto l’ordine pubblico e il variegato strumentario del diritto amministrativo antimafia non diventino essi stessi un ostacolo ai principi concorrenziali».
[16]TAR Calabria, Reggio Calabria, 31 gennaio 2007, n. 69 con riferimento all’art. 10 del D.P.R. n. 252/1998 “Informazioni del Prefetto”, ha affermato che «La disciplina in questione ha, evidentemente, natura eccezionale e derogatoria rispetto all’ordinaria necessità di rispettare il principio costituzionale di libertà di iniziativa economica ed essa non può, dunque, trovare applicazione al di là dei casi specificamente indicati dal legislatore, che ne ha comprensibilmente delimitato l’ambito di applicazione alle fattispecie ritenute di significativa rilevanza per il contrasto  delle attività della criminalità organizzata (id est: agli appalti superiori ad un certo valore)».
[17]A tal proposito C. Miccichè, L’azione di contrasto preventivo alla criminalità mafiosa e le informazioni antimafia interdittive: tra legalità ed efficacia, in IUS-ONLINE, 1, 2019, «l’interdittiva, adesso, incide anche su altri diritti della persona senz’altro tutelati a livello europeo e costituzionale, come quello alla vita privata e familiare (tutelato dall’art. 8 Cedu)».
[18]In questi termini, C. Miccichè, L’azione di contrasto preventivo alla criminalità mafiosa e le informazioni antimafia interdittive: tra legalità ed efficacia, cit.; F.G. Scoca, Le interdittive antimafia e la razionalità, la ragionevolezza e la costituzionalità della lotta “anticipata” alla criminalità organizzata, cit.
[19]Consiglio di Stato, Sez. III, 3 maggio 2016, n. 1743.
[20]In tal senso (ex multis), Consiglio di Stato, Sez. III, 15 settembre 2014, n. 4693; Consiglio di Stato, Sez. III, 18 aprile 2011, n. 2342; Consiglio di Stato, Sez. VI, 17 luglio 2006, n. 4574.
[21]G. Amarelli, L’onda lunga della sentenza De Tommaso: ore contate per l’interdittiva antimafia ‘generica’ ex art. 84, co. 4, lett. d) ed e) D.lgs. n. 159/2011?, cit., osserva criticamente che l’informativa antimafia interdittiva «nonostante l’elevatissimo tasso di afflittività si colloca, per deprecabile ed incontrovertibile consuetudine interna, al di fuori del concetto allargato di “materia penale”» ed «è affidata – in ragione di una “base legale” molto elastica – alla discrezionalità pressoché arbitraria non del potere giudiziario, ma addirittura del Prefetto; e non beneficia del controllo garantista del giudice penale neanche in sede di gravame, spettando la competenza alla giustizia amministrativa chiamata ad operare una mera valutazione formale di legittimità della sussistenza dei labili presupposti applicativi. (…) Ma si può davvero tollerare che una misura così restrittiva delle libertà fondamentali dell’imprenditore e gravida di effetti devastanti sulle sue attività e sulla sua situazione economico-patrimoniale, nonché sulla situazione occupazionale dei suoi dipendenti, possa essere affidata ad una decisione arbitraria del Prefetto a causa di una disposizione di legge che non ne indica neanche sommariamente i presupposti e che cumula nelle sue mani poteri inquirenti e poteri decisionali?». Sulla natura discrezionale dei poteri prefettizi si veda, ancora, l’opinione critica di F.G. Scoca, Razionalità e costituzionalità della documentazione antimafia in materia di appalti pubblici, in Giustamm.it, 6, 2013.
[22]Si pensi a tutte quelle ipotesi in cui si valorizzano i legami di parentela o coniugio con soggetti già noti alle forze dell’ordine per la loro appartenenza, presunta o accertata, ad un’organizzazione criminale di stampo mafioso. In giurisprudenza, almeno in termini generali, sembra comunque escluso che un’informativa interdittiva possa basarsi esclusivamente sull’evidenza di tali rapporti. Sul punto, Consiglio di Stato, Sez. III, 19 gennaio 2015, n. 118; Consiglio di Stato, Sez. III, 3 luglio 2013, n. 3576; Consiglio di Stato, Sez. III, 10 gennaio 2013, n. 96; TAR Sicilia, Palermo, Sez. I, 29 aprile 2015, n. 1051; TAR Lazio, Sez. I, 7 marzo 2013, n. 2451; TAR Salerno, Sez. I, 17 giugno 2013, n. 1348, con nota di G. Mangialardi, Insufficienza del riferimento a rapporti di parentela a comprovare il tentativo di infiltrazione mafiosa, in Urbanistica e Appalti, 2013, 1205. Si veda in senso critico F.G. Scoca, Le interdittive antimafia e la razionalità, la ragionevolezza e la costituzionalità della lotta “anticipata” alla criminalità organizzata, cit., secondo cui «se si tratta di fatti o situazioni di ordine soggettivo, riguardanti cioè i comportamenti tenuti, o le situazioni in cui si trovano i dirigenti dell’impresa (rapporti familiari, frequentazioni, ecc.), non credo che l’esclusione dal mercato della impresa possa costituire salvaguardia dell’ordine economico o tutela della concorrenza: sarebbe possibile sostenere il contrario»; G. Armao, Brevi considerazioni su informativa antimafia e rating di legalità ed aziendale nella prevenzione delle infiltrazioni criminali nei contratti pubblici, in Giustamm.it, 3, 2017, il quale afferma che «deve, pertanto ritenersi inattendibile ed illogica l’informativa antimafia che precluda ogni relazione con l’amministrazione all’imprenditore imparentato con esponenti del crimine organizzato, sebbene dall’istruttoria non risultano ulteriori sintomi di condizionamenti mafiosi. D’altronde, ammettere un limite alla libera iniziativa economica privata, agganciando le proprie convinzioni esclusivamente al dato anagrafico senza alcun supporto in ordine alla dimostrazione di frequentazioni o comunanza di interessi con ambienti malavitosi, significherebbe acconsentire ad un sistema nel quale gli errori di un padre devono essere scontati automaticamente anche dal figlio. Nel quale chi vive, senza colpa, un legame familiare con un pregiudicato per fatti di mafia, si ritrova nell’impossibilità di poter svolgere attività lecite costituzionalmente tutelate».
[23]Con riguardo al rapporto tra interdittive antimafia e commissariamento si veda F. Astone, Interdittive antimafia e “commissariamento” delle imprese (avuto riguardo al settore degli appalti pubblici), in Giustamm.it, 7, 2018, per il quale «il salto qualitativo che viene compiuto con queste previsioni è notevole, specialmente ove si consideri che i provvedimenti restrittivi di cui si vuole sottolineare la singolarità, sono disposti ante e praeter delictum, sulla base di un quadro probatorio di consistenza inferiore rispetto a quanto necessario per ottenere una condanna in sede penale. Le nuove misure straordinarie previste all’art. 32 D.l. 90/2014, intendono evitare il rischio che, da un lato, le indagini penali ostacolino il conseguimento da parte della p.a. dell’utilità connessa al contratto, dall’altro, che la necessità di portarlo comunque ad esecuzione consenta a chi ne abbia ottenuto contra legem l’aggiudicazione di conseguirne pure il profitto». Circa la tutela di altri interessi pubblici coinvolti si veda anche M. Mazzamuto, Le interdittive prefettizie tra prevenzione antimafia e salvataggio delle imprese, in Giur. It., 10, 2018, pp. 2222 ss., il quale osserva che «Rispetto alla consumazione degli “effetti” dell’interdizione, dall’impedimento all’adozione di certi atti alla rimozione degli atti già adottati, si sono cominciate a valorizzare variabili volte a preservare interessi pubblici “altri”, diversi cioè dall’interesse sotteso alla prevenzione antimafia, o volte al “salvataggio” dell’impresa dall’infiltrazione mafiosa. (…) L’obiettivo che ineludibilmente legittima e caratterizza i poteri anticorruzione, anche in ragione degli organi coinvolti, è la sterilizzazione della presenza criminale, ma non vi è dubbio che, nel caso dell’interdittiva, la legge demanda ai prefetti anche la tutela degli interessi pubblici “altri” all’eventuale continuazione del rapporto.
[24]Per M. Mazzamuto, Le interdittive prefettizie tra prevenzione antimafia e salvataggio delle imprese, cit., pp. 2222 ss., se sussistono i presupposti indicati dalla legge «l’esercizio dei poteri prefettizi sembra nell’an doveroso, tanto che la legge non usa mai il “può”, e nel quo modo tipizzato». Anche  ANAC, Linee Guida, 27 gennaio 2015, 8: “quando emerge la necessità di salvaguardare i particolari interessi pubblici… il Prefetto dovrà necessariamente fare luogo all’applicazione delle predette misure straordinarie”.
[25]Secondo la giurisprudenza, ciò significa che il presupposto viene esaudito anche qualora il contratto non abbia avuto un inizio di esecuzione. Si veda in tal senso, Consiglio di Giustizia Amministrativa Regione Siciliana, ordinanza 15 aprile 2016, n. 247; TAR Abruzzo, Pescara, Sez. I, 4 gennaio 2016, n. 1; contra ANAC, Linee Guida, cit., 10.
[26]La vicenda sottesa alla pronuncia in rassegna scaturisce proprio dal ricorso proposto da un soggetto, volto a ottenere l’annullamento della cancellazione della propria ditta dall’albo delle imprese artigiane, disposta dalla Commissione Provinciale per l’artigianato della Provincia di Palermo. Il provvedimento di cancellazione dall’albo delle imprese artigiane, adottato dalla Commissione Provinciale nei confronti della ricorrente, richiamava il disposto degli artt. 67 e 89-bis del decreto legislativo 159/2011 e si fondava sulla nota della Prefettura di Palermo con la quale le era stata comunicata l’adozione dell’informazione antimafia interdittiva. Il tribunale di Palermo, nel caso di specie, era stato chiamato a sindacare se l’adozione di tale misura integrasse o meno i presupposti per la cancellazione del destinatario dall’albo delle imprese artigiane.
[27]La Corte Costituzionale era già stata investita della questione di costituzionalità dell’art. 89-bis, però con riferimento agli artt. 76, 77, comma 1, e 3 Cost. dal TAR Sicilia, Catania, con ordinanza del 28 settembre 2016, n. 2337. Nel dichiarare infondata la questione di legittimità costituzionale, con sentenza n. 4 del 2018, la Corte Costituzionale aveva affermato che «non è perciò manifestamente irragionevole che, secondo l’interpretazione dell’art. 89-bis censurato, a fronte di un tentativo di infiltrazione mafiosa, il legislatore, rispetto agli elementi di allarme desunti dalla consultazione della banca dati, reagisca attraverso l’inibizione, sia delle attività contrattuali con la pubblica amministrazione, sia di quelle in senso lato autorizzatorie, prevedendo l’adozione di un’informazione antimafia interdittiva che produce gli effetti anche della comunicazione antimafia».
[28]Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, 6 aprile 2018, n. 3.
[29]Per M. Mazzamuto, Profili di documentazione amministrativa antimafia, cit., «Il sindacato del giudice amministrativo sulla legittimità dei provvedimenti prefettizi è particolarmente profondo, poiché investe, nel caso degli atti prefettizi ricognitivi, la reale esistenza delle cause interdittive, nel caso dei tentativi di infiltrazione mafiosa, sia l’ancoraggio degli indizi a fatti e non a mere congetture, sia l’effettiva esistenza dei fatti evocati dal provvedimento, sia infine la valutazione complessiva del rilievo di tali fatti e indizi». Si veda, inoltre, F. Patroni Griffi, La sentenza “giusta” e il metodo di decisione del giudice amministrativo, in Dir. Proc. Amm. 2018.
[30]F. Patroni Griffi, Relazione Inaugurazione Anno Giudiziario 2020, in www.giustizia-amministrativa.it.
[31]F. Patroni Griffi, Relazione Inaugurazione Anno Giudiziario 2020, cit.
[32]Sul punto (ex multis): Consiglio di Stato, Sez. III, 5 settembre 2019, n. 6105; Consiglio di Stato, Sez. III, 30 gennaio 2019, n.758. Si veda, inoltre, Consiglio di Stato, Sez. III, 8 marzo 2017 n. 1109 secondo cui “l’equilibrata ponderazione dei contrapposti valori costituzionali in gioco, la libertà di impresa, da un lato, e la tutela dei fondamentali beni che presidiano il principio di legalità sostanziale sopra richiamati, richiedono alla Prefettura un’attenta valutazione di tali elementi, che devono offrire un quadro chiaro, completo e convincente del pericolo di infiltrazione mafiosa, e a sua volta impongono al giudice amministrativo un altrettanto approfondito esame di tali elementi, singolarmente e nella loro intima connessione, per assicurare una tutela giurisdizionale piena ed effettiva contro ogni eventuale eccesso di potere da parte del Prefetto nell’esercizio di tale ampio, ma non indeterminato, potere discrezionale”.
[33]Cfr, si veda Consiglio di Stato, Sez. III, 7 ottobre 2015, n. 4657, che afferma l’estraneità rispetto al sistema delle informazioni antimafia del criterio del “oltre ogni ragionevole dubbio”, in quanto non si tratta di provvedimenti sanzionatori, bensì cautelari, volti alla prevenzione del grave pericolo rappresentato dalle azioni criminali delle organizzazioni mafiose.
[34]In termini, Consiglio di Stato, Sez. III, 12 marzo 2018, n. 1563; Consiglio di Stato, Sez. III, 12 settembre 2017, n. 4295; Consiglio di Stato, Sez. III, 28 giugno 2017, n. 3171; TAR Calabria, Reggio Calabria, 2 luglio 2018, n. 400.
[35]Per un approfondimento del tema si veda F. Fracchia – M. Occhiena, Il giudice amministrativo e l’inferenza logica: “più probabile che non” e “oltre”, “rilevante probabilità” e “oltre ogni ragionevole dubbio”. Paradigmi argomentativi e rilevanza dell’interesse pubblico, in Il diritto dell’economia, 3, 2018; F. Patroni Griffi, La decisione robotica e il giudice amministrativo, 28 agosto 2018, in www.giustizia-amministrativa.it.
[36]Consiglio di Stato, Sez. III, 26 aprile 2017, n. 1923. In ordine alla concreta linea di valutazione giurisdizionale dei presupposti delle informazioni interdittive si veda, F.G. Scoca, Le interdittive antimafia e la razionalità, la ragionevolezza e la costituzionalità della lotta “anticipata” alla criminalità organizzata, cit., il quale rileva una limitata, ma non marginale, diversità di indirizzo tra i due organi di appello della giustizia amministrativa: «in via approssimativa, si può dire che il Collegio romano è maggiormente attento alla esigenza di contrastare l’attacco mafioso alla struttura economica e sociale del paese; mentre il Collegio palermitano tiene in adeguata considerazione le prerogative, costituzionalmente garantite, degli imprenditori e le conseguenze negative che sulla economia della zona in cui essi operano comportano le interdittive, soprattutto quando esse si moltiplicano». Sul punto si veda anche N. Durante, I tentativi di infiltrazione mafiosa, in www.giustizia-amministrativa.it secondo cui: «una frattura, tuttavia, sembra tuttora restare aperta tra il Consiglio di Stato ed il Consiglio di giustizia amministrativa della Regione Siciliana, riguardo al criterio metodologico da utilizzare per considerare raggiunta ed oltrepassata la soglia del pericolo».
[37]Consiglio di Stato, Sez. III, 30 gennaio 2019, n.758.
[38]Consiglio di Stato, Sez. III, 6 novembre 2019, n. 7575.
[39]Consiglio di Stato, Sez. III, 6 maggio 2020, n. 2854.
[40]In senso critico si veda R. Piombino, A quali costi? L’efficacia estensiva dell’informazione interdittiva antimafia (nota a sentenza – Corte Costituzionale 14.01.2020 n. 57), in Diritto di Difesa, La rivista dell’Unione delle Camere Penali.
[41]Consiglio di Stato, Sez. III, 5 settembre 2019, n. 6105.
[42]v., ex multis, Corte europea dei diritti dell’uomo, sezione quinta, sentenza 26 novembre 2011, Gochev c. Bulgaria; Corte europea dei diritti dell’uomo, sezione prima, sentenza 4 giugno 2002, Olivieiria c. Paesi Bassi; Corte europea dei diritti dell’uomo, sezione prima, sentenza 20 maggio 2010, Lelas c. Croazia.
[43]Corte Costituzionale, 27 febbraio 2019, n.24.
[44]Consiglio di Stato, Sez. III, 5 settembre 2019, n. 6105.
[45]Corte Costituzionale, 26 marzo 2020, n. 57 «In questa valutazione complessiva dell’istituto un ruolo particolarmente rilevante assume il carattere provvisorio della misura. È questo il senso della disposizione dell’art. 86, comma 2, del D.lgs. n. 159 del 2011, secondo il quale l’informativa antimafia ha una validità limitata di dodici mesi, cosicché alla scadenza del termine occorre procedere alla verifica della persistenza o meno delle circostanze poste a fondamento dell’interdittiva, con l’effetto, in caso di conclusione positiva, della reiscrizione nell’albo delle imprese artigiane, nella specie, e in generale del recupero dell’impresa al mercato. E va sottolineata al riguardo la necessità di un’applicazione puntuale e sostanziale della norma, per scongiurare il rischio della persistenza di una misura non più giustificata e quindi di un danno realmente irreversibile».
[46]Consiglio di Stato, Sez. III, 11 maggio 2020, n. 2962 «In merito alla temporaneità (che assume rilievo anche in relazione alla proporzionalità) è opportuno richiamare la decisione della Corte Costituzionale n. 57/2020 (par. 6) che ha sottolineato il carattere provvisorio della misura. La Corte ha richiamato “l’art. 86, comma 2, del D.lgs. 159 del 2011, secondo cui l’informativa antimafia ha una validità limitata di dodici mesi, cosicchè alla scadenza del termine occorre procedere alla verifica della persistenza o meno delle circostanze poste a fondamento dell’interdittiva con l’effetto, in caso di conclusione positiva, [….] del recupero dell’impresa al mercato, [….] per scongiurare il rischio della persistenza di una misura non più giustificata e quindi di un danno realmente irreversibile”».
[47]Art. 86, comma 2, D.lgs. 6 settembre 2011, n. 159 ‹‹L’informazione antimafia, acquisita dai soggetti di cui all’art. 83, commi 1 e 2, con le modalità di cui all’articolo 92, ha una validità di dodici mesi dalla data dell’acquisizione, salvo che non ricorrano le modificazioni di cui al comma 3››.
[48]C. Contessa, Ancora sul regime temporale di efficacia delle informative interdittive antimafia [Nota a sentenza: Consiglio di Stato, se. V, 1 ottobre 2015, n. 4602], in Urbanistica e Appalti, 20, 2016.
[49]Sul punto (ex multis): Consiglio di Stato, Sez. III, 15 settembre 2014, n. 4693.
[50]In tal senso: Consiglio di Stato, Sez. III, 24 luglio 2015, 3653.
[51]Si tratta della sentenza del Consiglio di Stato, Sez. III, 17 novembre 2015, n. 5256.
[52]Consiglio di Stato, n. 5256/2015 cit..
[53]Ex multis, Consiglio di Stato, Sez. III, 22 gennaio 2014, n. 287.
[54]Si veda ex multis, Consiglio di Stato, Sez. III, 9 febbraio 2017, n. 565, la quale ha precisato che «la delicatezza di tale ponderazione intesa a contrastare in via preventiva la minaccia insidiosa ed esiziale delle organizzazioni mafiose, richiesta all’autorità amministrativa, può comportare anche un’attenuazione, se non una eliminazione, del contraddittorio procedimentale, che del resto non è un valore assoluto, slegato dal doveroso contemperamento di esso con interessi di pari se non superiore rango costituzionale, né un bene in sé, o un fine supremo e ad ogni costo irrinunciabile, ma è un principio strumentale al buon andamento della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.) e, in ultima analisi, al principio di legalità sostanziale (art. 3, comma secondo, Cost.), vero e più profondo fondamento del diritto amministrativo».
[55]Consiglio di Stato, Sez. III, 17 novembre 2015, n. 5256.
[56]TAR Puglia, Bari, Sez. III, 13 gennaio 2020, n. 28.
[57]Consiglio di Stato, Sez. III, 31 gennaio 2020, n. 820, con nota di R. Ruberto, Sul contraddittorio procedimentale in materia di informazioni antimafia, in Giur. it. Marzo 2020, pp. 683 ss.. Su questo argomento il Consiglio di Stato, con la già richiamata sentenza del 6 maggio 2020, n. 2854, ha poi affermato che «l’eventuale sacrificio di queste garanzie procedimentali e dei diritti di difesa, necessario e proporzionato rispetto al fine perseguito, è tuttavia compensato dal successivo sindacato giurisdizionale sull’atto adottato dal Prefetto che, contrariamente a quanto assume parte della dottrina, è pieno ed effettivo, in termini di full jurisdiction, anche secondo il diritto convenzionale, perché non solo investe, sul piano della c.d. tassatività sostanziale, l’esistenza di fatti indicatori di eventuale infiltrazione mafiosa, posti dall’autorità prefettizia a base del provvedimento interdittivo, ma sindaca anche, sul piano della c.d. tassatività processuale, la prognosi inferenziale circa la permeabilità mafiosa dell’impresa, nell’accezione, nuova e moderna, di una discrezionalità amministrativa declinata in questa delicata materia sotto l’aspetto del ragionamento probabilistico compiuto dall’amministrazione». Si veda anche, Consiglio di Stato, Sez. III, 13 maggio 2020, n. 3039, secondo cui «la delicatezza della ponderazione intesa a contrastare in via preventiva la minaccia insidiosa ed esiziale delle organizzazioni mafiose, richiesta all’autorità amministrativa, può comportare anche un’attenuazione, se non una eliminazione, del contraddittorio procedimentale, che del resto non è un valore assoluto, come ha pure chiarito la Corte di Giustizia UE nella sua giurisprudenza (ma v. pure Corte Cost.: sent. n. 309 del 1990 e sent. n. 71 del 2015), o slegato dal doveroso contemperamento di esso con interessi di pari se non superiore rango costituzionale, né un bene in sé, o un fine supremo e ad ogni costo irrinunciabile, ma è un principio strumentale al buon andamento della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.) e, in ultima analisi, al principio di legalità sostanziale (art. 3, comma secondo, Cost.), vero e più profondo fondamento del moderno diritto amministrativo (Cons. St., sez. III, 9 febbraio 2017, n. 565). Peraltro, il contraddittorio procedimentale non è del tutto assente nemmeno nelle procedure antimafia, se è vero che l’art. 93, comma 7, D.lgs. n. 159 del 2011 prevede che “il prefetto competente al rilascio dell’informazione, ove lo ritenga utile, sulla base della documentazione e delle informazioni acquisite invita, in sede di audizione personale, i soggetti interessati a produrre, anche allegando elementi documentali, ogni informazione ritenuta utile”».
[58]Corte di Giustizia UE, 9 novembre 2017, C-298/16, par. 35.
[59]Corte di Giustizia UE, sez. IX, ordinanza 28 maggio 2020, C-17/20.
[60]Più precisamente la CGUE, nel §28 della propria ordinanza del 28 maggio 2020 in C-17/20 ha affermato, con un significativo obiter dictum, che il principio del rispetto dei diritti della difesa «costituisce un principio generale del diritto dell’Unione che trova applicazione quando l’Amministrazione intende adottare nei confronti di una persona un atto che le arrechi pregiudizio. In forza di tale principio i destinatari di decisioni che incidono sensibilmente sui loro interessi devono essere messi in condizione di manifestare utilmente il loro punto di vista in merito agli elementi sui quali l’amministrazione intende fondare la sua decisione. Tale obbligo incombe sulle amministrazioni degli Stati membri ogni qualvolta esse adottano decisioni che rientrano nella sfera d’applicazione del diritto dell’Unione, quand’anche la normativa dell’Unione applicabile non preveda espressamente siffatta formalità. Tuttavia, nella presente causa, il giudice del rinvio non ha dimostrato l’esistenza di un criterio di collegamento tra, da un lato, il diritto dell’Unione e, dall’altro, l’informazione antimafia interdittiva adottata dalla prefettura di Foggia. Non sembra pertanto che la normativa oggetto del procedimento principale possa ricadere nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione o attuarlo. Ne consegue che la domanda di pronuncia pregiudiziale non soddisfa i requisiti di cui all’articolo 94 del regolamento di procedura e che deve pertanto essere dichiarata manifestamente irricevibile».
[61]Notevole è infatti lo sforzo della giurisprudenza di rendere meno astratta e più completa la disciplina della informazione antimafia. Il risultato di questo impegno si evince soprattutto dall’individuazione di un nucleo consolidato di situazioni indiziari, che sviluppano e completano le indicazioni legislative, da cui trarre il pericolo del condizionamento mafioso.
[62]Consapevolezza già manifestata con la decisione n. 4/2018, in cui la Corte avvertiva che «spetta alla giurisprudenza comune, in sede di interpretazione del quadro normativo, decidere in quali casi e a quali condizioni il legislatore delegato abbia inteso attribuire all’informazione antimafia gli effetti della comunicazione antimafia».
[63]Consiglio di Stato, Sez. III, 17 novembre 2015, n. 5256; Consiglio di Stato, Sez. III, 22 gennaio 2014, n. 292; Consiglio di Stato, Sez. III, 22 gennaio 2014, n. 293; TAR Palermo, Sez. I, 15 gennaio 2016, n. 123; TAR Campania, Sez. I, 24 aprile 2014, n. 2304.
[64]A tal proposito è opportuno evidenziare che la Commissione Fiandaca, incardinata presso il Ministero della Giustizia, aveva proposto due importanti modifiche al Codice antimafia,  consistenti sia nella previsione dell’obbligo di previa audizione della parte interessata da parte del Prefetto antecedentemente all’emissione di eventuali provvedimenti interdittivi, sia nella puntuale regolamentazione – quanto a procedure e presupposti – della valutazione prefettizia delle istanze di aggiornamento delle interdittive (entrambe avallate dalla Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali, anche straniere “Commissione Bindi”). In particolare, come risulta dalla Relazione della Commissione ministeriale incaricata di elaborare una proposta di interventi in maniera di criminalità organizzata (DM 10 giugno 2013), 92, in www.penalecontemporaneo.it, la Commissione aveva proposto di rendere obbligatorio il contraddittorio, abrogando dall’art. 93 comma 4 la parola “eventuale” e dal comma 7 l’inciso “ove lo ritenga utile”. Per quanto riguarda il procedimento di revisione delle informative antimafia, la Commissione aveva proposto di inserire un altro comma all’art. 91 per disciplinare un periodico aggiornamento d’ufficio da parte delle Prefetture: “Il Prefetto, comunicandone l’esito all’interessato, provvede d’ufficio all’aggiornamento con immediatezza ove vengano meno le circostanze rilevanti ai fini dell’accertamento dei tentativi di infiltrazione mafiosa ed in ogni caso entro 24 mesi dalla data di emissione dell’interdittiva o dalla data dell’ultimo aggiornamento d’ufficio o su istanza di parte, confermativo dell’interdittiva”. Per M. Mazzamuto, Profili di documentazione amministrativa antimafia, cit., «Questo ultimo aspetto, che potrebbe collegarsi alla fissazione di un effettivo termine di durata delle interdittive, non va sopravvalutato, anche perché la disciplina delle white list, è informata al principio dell’aggiornamento d’ufficio (art. 1, comma 52, L. n. 190/2012). Non si vede infatti la ragione per la quale lo Stato dovrebbe svolgere tale attività nei confronti di un’impresa white e non anche nei confronti di un’impresa black».
[65]TAR Lazio, Roma, Sez. III, 26 luglio 2010, n. 28473, con nota di G. Ferraro, La validità temporale delle informative antimafia, in Urbanistica e Appalti, 11, 2010.
[66]F.G. Scoca, Le interdittive antimafia e la razionalità, la ragionevolezza e la costituzionalità della lotta “anticipata” alla criminalità organizzata, cit.; M. Mazzamuto, Profili di documentazione amministrativa antimafia, cit.
[67]Consiglio di Stato, Sez. V, 29 aprile 2010, n. 2460 «i valori costituzionali in gioco (presunzione di innocenza e libertà di impresa), se non escludono la predisposizione di mezzi di prevenzione, impongono che la interpretazione della normativa in esame debba essere improntata a necessaria cautela». In tal senso, si veda inoltre, Consiglio di Stato, Sez. V, 31 maggio 2007, n. 2828; Consiglio di Stato, Sez. VI, 2 maggio 2007, n. 1916; Consiglio di Stato, Sez. V, 27 giugno 2006, n. 4135; Consiglio di Stato, Sez. IV, 4 maggio 2004, n. 2783.
[68]Cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 17 luglio 2006, n. 4574; Consiglio di Stato, Sez. V, 27 giugno 2006, n. 4135.
[69]Invero anche il Consiglio di giustizia amministrativa della Regione Siciliana con ordinanza 10  luglio 2020, n. 569 (sebbene in relazione alla specifica disciplina di settore relativa ai procedimenti di iscrizione alla c.d. white list) ha affermato – in relazione al mancato rispetto del canone partecipativo enuncleato dall’art. 10-bis della L. n. 241/1990 – con una lettura coerente con l’esigenza di garantire il diritto di difesa nella sede procedimentale, che: I) “una lettura costituzionalmente orientata e rispettosa dei principi eurounitari, alla cui stregua si evince, rispettivamente, che il diritto al contraddittorio realizza l’inalienabile diritto di difesa del cittadino, presidiato dall’art. 24 Cost., e il buon andamento dell’Amministrazione, presidiato dall’art. 97 Cost.; II) il rispetto del diritto, per ogni persona, di essere sentita prima dell’adozione di qualsiasi decisione che possa incidere in modo negativo sui suoi interessi costituisce un principio fondamentale del diritto dell’Unione, sancito negli artt. 41, 47 e 48 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, che garantiscono – rispettivamente – il diritto ad una buona amministrazione (cfr. art. 41. par. 2, il quale prevede che tale diritto comporta, in particolare, il diritto di ogni individuo di essere ascoltato prima che nei suoi confronti venga adottato un provvedimento individuale lesivo), il rispetto dei diritti della difesa nonché il diritto ad un processo equo in qualsiasi procedimento giurisdizionale; III) per pacifica giurisprudenza della Corte di giustizia UE, in forza di tale principio, che trova applicazione ogniqualvolta l’Amministrazione si proponga di adottare nei confronti di un soggetto un atto ad esso lesivo, i destinatari di decisioni che incidono sensibilmente sui loro interessi devono essere messi in condizione di manifestare utilmente il loro punto di vista in merito agli elementi sui quali l’Amministrazione intende fondare la sua decisione, mediante una previa comunicazione del provvedimento che sarà adottato, con la fissazione di un termine per presentare eventuali difese od osservazioni; IV) nel caso specifico, la violazione dell’art. 10-bis è rilevante perché molti fatti posti a fondamento della informativa sono contestati con argomenti non implausibili prima facie e che avrebbero dovuto costituire oggetto di dettagliata  verifica in sede di contraddittorio procedimentale; V) va respinta l’ipotesi di applicabilità dell’art. 21-octies L. 241/1990, in presenza di fatti e circostanze oggetto di apprezzamento e valutazione discrezionale, e non sussistendo ragioni di urgenza a giustificazione dell’omissione della fase partecipativa. Sullo stesso argomento si veda, anche, Consiglio di Stato, Sez. III, 25 agosto 2020, n. 5196.
[70]Consiglio di Stato, Sez. III, 10 agosto 2020, n. 4979.
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