26/10/2020 – Il rito appalti nel d.l. 16 luglio 2020, n. 76

Il rito appalti nel d.l. 16 luglio 2020, n. 76  (*)
I limiti all’inefficacia del contratto. La pronuncia cautelare e la definizione immediata del merito. L’accelerazione della pubblicazione della sentenza
 
 (*) Il presente scritto riproduce, con aggiornamenti, il testo pubblicato nella Rivista giuridica on line L’Amministrativista, con il titolo “Il nuovo rito appalti nel d.l. 16 luglio 2020, n. 76.
 

 di Marco Lipari – Presidente di Sezione del Consiglio di Stato

 
Sommario: 1. L’art. 4 del decreto semplificazioni n. 76/2020 e l’approvazione definitiva della legge di conversione n. 120/2020. – 2. La tutela cautelare nelle nuove procedure per il rilancio degli investimenti pubblici. – 3. La limitazione della tutela annullatoria per i contratti affidati con procedura negoziata di cui all’art. 63 del codice dei contratti pubblici. – 4. I limiti della tutela annullatoria e l’obbligo di attivare il procedimento di autotutela. – 5. L’art. 125 comma 3 del CPA e l’inefficacia flessibile del contratto nell’art. 121 del CPA. – 6. L’art. 125, comma 3, del CPA. Un meccanismo che dilata i tempi e spinge verso la sospensione dell’aggiudicazione. – 7. L’art. 125 del CPA: una norma vecchia, superata dalla direttiva n. 66/2007 e dagli articoli 121 e 122 del CPA. – 8. La definizione del merito in sede cautelare: la previsione del decreto legge e la disciplina a regime dopo la conversione in legge. – 9. La richiesta congiunta delle parti di limitare la decisione ad una questione unica. – 10. La decisione del merito “in ogni altro caso” e la complessità della causa. – 11. L’avviso alle parti. – 12. La sostenibilità della norma e le misure organizzative. – 13. La “deroga” all’art. 74 del CPA e la sua effettiva portata. – 14. La pubblicazione della sentenza che definisce il giudizio entro quindici giorni dall’udienza. – 15. La portata oggettiva della norma: l’applicazione al giudizio davanti al Consiglio di Stato. Il differimento della pubblicazione del dispositivo in ipotesi di stesura della motivazione particolarmente complessa. – 16. La sorte della pubblicazione del dispositivo a richiesta di parte. – 17. L’opzione zero e l’adeguamento del processo alle nuove esigenze. – 18. È indispensabile la legislazione d’urgenza per cambiare il rito appalti? – 19. La decodificazione delle norme processuali.  –  –
 
  1. L’art. 4 del decreto semplificazioni n. 76/2020 e l’approvazione definitiva della legge di conversione n. 120/2020.
Il Parlamento ha definitivamente convertito in legge, con modificazioni, il decreto legge 16 luglio 2020, n. 76[1].
Le disposizioni riguardanti direttamente il rito in materia di procedure di affidamento dei contratti pubblici, contenute nell’art. 4, commi 2, 3 e 4 dell’art. 4 del decreto legge, sono state tutte confermate per intero.
L’unica modifica portata dalla legge di conversione riguarda l’individuazione dei presupposti per la definizione del giudizio nel merito in occasione dell’esame della domanda cautelare[2].
La disciplina del nuovo rito appalti, quindi, è ormai consolidata come legge del Parlamento.
La disciplina del decreto legge, sostanzialmente corrispondente a quella del testo già circolato ufficiosamente nelle settimane precedenti[3], aveva formato oggetto di molteplici critiche e obiezioni, anche aspre[4]. Tra queste si segnala il parere radicalmente contrario del Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa[5].
La nuova normativa presenta in effetti numerose criticità, nonostante gli ambiziosi obiettivi perseguiti dal legislatore siano senz’altro apprezzabili:
  1. Impedire che la pendenza del giudizio possa pregiudicare l’esecuzione di prestazioni contrattuali correlate al perseguimento di primari interessi pubblici;
  2. Assicurare la rapida e certa conclusione del processo, incentivando la definizione del merito in sede cautelare e definendo con la massima nitidezza i tempi di deposito del dispositivo e della motivazione della pronuncia che definisce il giudizio.
L’intervento legislativo è scomponibile in due distinte parti.
La prima, racchiusa nei commi 2 e 3 dell’art. 4, ha una portata limitata ad alcune specifiche ipotesi contrattuali, caratterizzate da peculiari note di urgenza, ritenute tali da incidere sui presupposti della decisione cautelare (comma 2) e della pronuncia di inefficacia del contratto (comma 3).
La seconda, contenuta nel comma 4 dell’art. 4, riguarda, invece, l’intero contenzioso in materia di affidamento dei contratti pubblici e tocca la disciplina delle decisione di merito in sede cautelare, nonché il deposito del dispositivo e della motivazione della pronuncia che definisce il giudizio.
La contrapposizione tra i commi 2 e 3, da una parte, e il comma 4, dall’altra, si riflette anche sull’ambito temporale di applicazione della nuova disciplina.
  • I commi 2 e 3 si riferiscono a nuove ipotesi introdotte dallo stesso decreto legge. Pertanto, le regole processuali operano, per il futuro, solo in relazione alle procedure successive all’entrata in vigore del decreto legge.
  • Il comma 4, invece, atteso il suo carattere processuale e generalizzato, in assenza di regole transitorie di segno diverso, è applicabile, immediatamente ai giudizi in corso[6].
L’impressione complessiva è che le norme in esame siano state varate con eccessiva fretta, determinando non pochi problemi interpretativi e applicativi.
In particolare:
– la disciplina del comma 2 risulta in larga parte inutile, perché l’ipotizzata restrizione dei presupposti per l’accoglimento della domanda cautelare si risolve in una previsione sovrapponibile alla regola già prevista dall’art. 120, comma 8-ter del CPA;
– la regola dettata dal comma 3, nella parte in cui preclude la pronuncia di inefficacia del contratto già stipulato, alimenta forti dubbi di legittimità costituzionale e comunitaria e sembra mal coordinata con il sistema flessibile e funzionale, delineato dall’art. 122 del CPA;
– la regola del comma 4, alinea a), relativa alla definizione del merito in sede cautelare, nella versione derivante dalla legge di conversione, non sembra individuare concretamente presupposti più larghi di quelli generali.
L’innovazione più significativa, allora, riguarda la nuova disciplina introdotta dal comma 4, alinea b), concernente la pubblicazione della sentenza: la prevista accelerazione è destinata ad incidere innovativamente, sui giudizi davanti al TAR e al Consiglio di Stato.
È opportuno svolgere un esame più dettagliato delle nuove regole.
 
  1. La tutela cautelare nelle nuove procedure per il rilancio degli investimenti pubblici.
L’art. 4, comma 2, interviene, anzitutto, sul contenzioso relativo alle procedure di affidamento dei contratti sotto e sopra soglia, per l’incentivazione degli investimenti pubblici durante il periodo emergenziale, come definiti dagli articoli 1 e 2, comma 2, del decreto legge.
Si tratta, quindi, di una disciplina settoriale e contingente, destinata, però a coinvolgere, già in un prossimo futuro, una larga fetta del mercato dei contratti pubblici.
A tale scopo, la disposizione stabilisce che “In caso di impugnazione degli atti relativi alle procedure di affidamento di cui agli articoli 1 e 2, comma 2, del presente decreto, qualora rientranti nell’ambito applicativo dell’articolo 119, comma 1, lettera a), del codice del processo amministrativo, approvato con il decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104, si applica il comma 2 dell’articolo 125 del medesimo codice.
Si tratta delle procedure per l’incentivazione degli investimenti pubblici durante il periodo emergenziale in relazione all’aggiudicazione dei contratti pubblici sotto soglia (articolo 1), nonché di una parte elle procedure sopra soglia, vale a dire quelle diverse dagli affidamenti mediante procedura negoziata (art. 2, comma 2)[7].
L’innovazione prevede, quindi, in tali ipotesi, l’estensione della previsione dell’art. 125, comma 2, del codice del processo amministrativo, originariamente riferito alle infrastrutture strategiche e ad altre particolari ipotesi.
La norma codicistica richiamata stabilisce, a sua volta, un particolare onere motivazionale della decisione cautelare, inteso a verificare l’impatto della pronuncia sull’interesse pubblico legato all’esecuzione dell’appalto[8].
La finalità perseguita dal legislatore parrebbe quella di limitare l’accoglimento della domanda cautelare, in tutti i casi in cui siano riscontrabili esigenze di interesse pubblico prevalente.
È difficile, però, cogliere l’effettiva capacità della norma di innovare sul serio la disciplina vigente.
Si dimentica, infatti, che la previsione di una ricca motivazione della pronuncia cautelare di accoglimento, che tenga conto degli interessi pubblici, è già stabilita, in linea generale, dal comma 8-ter del codice del processo amministrativo, introdotto con il codice dei contratti pubblici del 2016, con riferimento a tutte le controversie soggette al rito appalti[9].
Tale norma indica in modo puntuale, sia attraverso il rinvio ai criteri degli articoli 121 e 122, sia mediante la menzione dell’interesse generale e delle esigenze imperative perseguite dalla stazione appaltante attraverso il contratto in itinere, la necessità inderogabile di considerare adeguatamente l’interesse pubblico implicato, tanto più rilevante qualora la decisione cautelare di accoglimento comporti la sospensione della procedura contrattuale in contestazione.
Non a caso, molti interpreti dubitano che l’art. 125, comma 2, sia stato abrogato, per incompatibilità, dal comma 8-ter[10]. In ogni caso, la disciplina dell’art. 125, comma 2, è stata decisamente svuotata di concreto spazio applicativo[11].
L’innovazione normativa in esame, inoltre, potrebbe creare confusione, perché non chiarisce nemmeno se la nuova regola prevalga, o semplicemente si aggiunga, alla disciplina generale del comma 8-ter.
A stretto rigore, si potrebbe sottilizzare sulla diversa formulazione letterale delle due norme. In tale prospettiva, tuttavia, non sembra affatto che l’art. 125 contenga una prescrizione realmente più restrittiva rispetto al comma 8-ter, tale da limitare i presupposti per l’accoglimento della domanda cautelare.
Inoltre, risulta indubitabile che, nel suo complesso, il comma 8-ter contenga una disciplina completa, incentrata sull’obbligo del giudice di motivare la decisione cautelare, specie se di accoglimento, valorizzando accuratamente il criterio della bilateralità del periculum, in relazione agli interessi pubblici in rilievo e alla loro eventuale recessività rispetto alla pretesa cautelare del soggetto privato ricorrente.
Non solo, ma il comma 8-ter pone in rilievo l’inscindibile connessione tra la pronuncia cautelare e il prevedibile esito nel merito, in relazione alla decisione concernente l’efficacia del contratto.
Ancora, il riferimento al solo art. 125, comma 2, risulta sistematicamente fuorviante, poiché tale previsione, con tutta evidenza, acquista un senso compiuto solo riannodandosi alla disciplina del successivo comma 3 dello stesso art. 125, focalizzato su una drastica preclusione della pronuncia di inefficacia del contratto.
Quindi, rispolverare il vecchio articolo 125, comma 2, del CPA, che corrisponde alla norma varata a suo tempo, con i decreti attuativi della legge obiettivo, nel lontano 2002, sembra, allora, un incongruo passo indietro, non un’innovazione moderna.
Si potrebbe pronosticare che il giudice, senza mutare un atteggiamento già pienamente consapevole della complessità dei contrapposti interessi implicati nella pronuncia cautelare, riconoscerà il rilievo formale delle nuove disposizioni, inserendo nella motivazione una formula di stile che parafrasi il contenuto dispositivo dell’art. 4, comma 2, e dell’art. 125, comma 2, del CPA: un arricchimento formale che non pare destinato a cambiare la sostanza della decisione e l’iter motivazionale che la sorregge.
Ci si potrebbe domandare se alla base dell’intervento legislativo si ponga la convinzione che, finora, il giudice abbia trascurato la protezione degli interessi pubblici sottesi all’esecuzione delle prestazioni contrattuali.
Al riguardo, occorre forse distinguere tra il dato estrinseco del richiamo esplicito al comma 8-ter e il dato sostanziale della effettiva considerazione delle esigenze espresse dalla stazione appaltante.
In tal senso l’esperienza dei primi anni di applicazione del comma 8-ter dimostra che assai raramente la stazione appaltante svolga difese approfondite incentrate su tale previsione normativa. Di conseguenza, anche le motivazioni delle decisioni cautelari non si diffondono troppo sulla enunciazione dei parametri applicati.
Tuttavia, sono costantemente espresse deduzioni difensive che, con variabili sfumature argomentative, richiamano i criteri generali della bilateralità del periculum, in una prospettiva coerente con la tradizionale elaborazione giurisprudenziale della tutela cautelare, costantemente orientata a valutare l’incidenza della decisione di accoglimento sugli interessi pubblici coinvolti.
Probabilmente, lo scopo ultimo del legislatore è quello di sollecitare il giudice a rendere ancora più esplicita e trasparente la valutazione degli interessi in conflitto, evidenziando l’incidenza sulle contrapposte esigenze pubbliche.
Si tratta di una finalità pienamente condivisibile, nella parte in cui vuole stigmatizzare i rari casi di pronunce cautelari troppo ermetiche: ma lo strumento prescelto, rappresentato dal rinvio alla consunta disciplina dell’art. 125, comma 2 del CPA, non appare molto efficace.
Con riguardo alla precisa esegesi dell’innovazione in esame, occorre sottolineare, poi, alcune sbavature. L’inciso “qualora rientranti nell’ambito applicativo dell’articolo 119, comma 1, lettera a)”, utilizzato dalla norma per delimitare il proprio ambito applicativo, risulta inutile e fuorviante.
Inutile, perché il rito di cui all’art. 125 presuppone, evidentemente, la piena applicabilità degli articoli 119 e 120.
Fuorviante, perché lascia supporre che le innovazioni sostanziali portate dal decreto legge ora convertito potrebbero riferirsi anche a procedure di scelta del contraente non soggette al rito speciale. Se è così – ma ciò non sembra desumibile dal testo – il legislatore avrebbe forse dovuto spiegare, almeno nella relazione, l’esatta portata oggettiva della disciplina.
 
  1. La limitazione della tutela annullatoria per i contratti affidati con procedura negoziata di cui all’art. 63 del codice dei contratti pubblici.
Il secondo intervento previsto dall’art. 4, comma 3, riguarda il solo contenzioso relativo alle procedure negoziate di urgenza di cui all’art. 2, comma 3, del decreto[12], consentite in presenza degli specifici presupposti indicati dalla norma sostanziale.
In tali ipotesi, poiché sussiste un’urgenza talmente evidente e rafforzata, tale da consentire procedure di selezione del contraente più agili, potrebbe risultare coerente una disciplina volta ad assicurare la pronta esecuzione delle prestazioni contrattuali, escludendo, in caso di accoglimento del ricorso proposto dall’interessato, la pronuncia di inefficacia (o di sospensione) del contratto.
Si tratta, quindi, di casi circoscritti e qualificati. L’indicata limitazione oggettiva della previsione, tuttavia, non ne attenua le forti criticità.
Per tali fattispecie si stabilisce l’applicazione dell’intero art. 125 del CPA[13].
Quindi, per tali controversie si estende anche la discussa previsione del comma 3, dell’art. 125, riguardante i drastici limiti alla caducazione del contratto, in seguito all’accertata illegittimità dell’aggiudicazione[14].
La norma codicistica richiamata forma oggetto, da tempo, di serie obiezioni di legittimità costituzionale e comunitaria. In ogni caso, tale previsione è apparsa inopportuna e in contrasto con le linee del sistema.
Secondo un autorevole indirizzo, infatti, dovrebbe considerarsi irrazionale e priva di giustificazione l’inesorabile preclusione della tutela caducatoria, collegata al solo fatto estrinseco dell’intervenuta stipulazione del contratto, senza tenere conto dell’effettivo stato di esecuzione delle prestazioni, della natura del vizio e di altri molteplici fattori rilevanti nella singola vicenda.
La norma richiamata fa salva la possibilità della pronuncia di inefficacia del contratto nei soli casi delle “gravi violazioni” di cui all’art. 121: sono le ipotesi, imposte dal legislatore comunitario, di violazione del termine sospensivo per la stipulazione del contratto e gli affidamenti illegittimi senza gara[15].
Si tratta, peraltro, di fattispecie assai circoscritte, che difficilmente potranno manifestarsi nelle procedure di affidamento in questione.
Non sono comprese nelle eccezioni di cui all’art. 121 altri casi di violazioni sostanzialmente gravi, non di rado anche notevolmente più gravi, che potrebbero riferirsi, tanto per esemplificare, anche alla stessa capacità minima dell’operatore economico, sotto l’aspetto tecnico od economico, o violazioni riguardanti l’errata formazione della graduatoria.
In tal modo, la drastica limitazione della tutela della parte privata interessata ad ottenere la realizzazione della pretesa sostanziale è palese e desta forte preoccupazione. Così, del resto, è messo in pericolo anche l’interesse pubblico alla garanzia della legalità sostanziale.
È davvero così sicuro che l’interesse a realizzare comunque presto l’opera prevalga sull’interesse (pubblico) all’aggiudicazione ad un operatore affidabile e alla qualità e sicurezza delle prestazioni?
E l’interesse dell’aggiudicatario individuato illegittimamente, dopo la stipulazione del contratto, è sempre, indefettibilmente prevalente su quello dell’operatore economico che avrebbe dovuto ottenere l’appalto?
E se l’intera procedura risulta irrimediabilmente viziata da gravi difetti sostanziali che hanno impedito l’effettivo svolgimento di un confronto concorrenziale, perché non si può rimediare alla gravissima illegittimità riscontrata?
È difficile comprendere perché debba restare efficace un contratto quando sia accertato che l’operatore economico non possiede i requisiti minimi necessari, mettendo a rischio la successiva corretta e regolare esecuzione delle prestazioni.
Anche tenendo conto di queste notazioni empiriche, un importante filone interpretativo sostiene il contrasto della disciplina legislativa di cui all’art. 125 con i parametri costituzionali e comunitari della tutela giurisdizionale.
Ora, senza approfondire ulteriormente il tema, che coinvolge delicate questioni di teoria generale, è utile svolgere alcune sintetiche considerazioni.
Si può anche ritenere, forse, che la disciplina legislativa riguardante i limiti alla tutela demolitoria (annullatoria e caducatoria) prevista in determinati casi non sia, di per sé, illegittima, alla luce della giurisprudenza, anche recente, della Corte costituzionale[16]. Come è noto, questo orientamento ritiene che la tutela annullatoria non sia una componente essenziale della tutela giurisdizionale riconosciuta dalla Costituzione.
Sulla base di tali premesse si potrebbe rilevare che la previsione in esame si riferisce, pur sempre, a ipotesi circoscritte, per le quali la rilevanza dell’urgenza è appurata.
Tuttavia, molto realisticamente, la questione della legittimità della previsione si presenterà presto nelle aule della giustizia amministrativa, suscitando nuove incertezze, rinvii alla Corte del Lussemburgo e alla Corte costituzionale, con esiti niente affatto scontati.
Va rilevato, infatti, che la dottrina è largamente critica sull’attuale indirizzo della Consulta, che, comunque, si è riferita a ipotesi ben caratterizzate dalla assoluta specificità delle situazioni contemplate, come è il caso della tutela annullatoria relativa agli atti dell’ordinamento sportivo. In tale ambito è emerso il rilievo della posizione a sé stante del sistema della giustizia disciplinato dal CONI e dalle Federazioni sportive, secondo la logica della pluralità degli ordinamenti giuridici.
 
  1. I limiti della tutela annullatoria e l’obbligo di attivare il procedimento di autotutela.
Né va trascurato un passaggio di estremo interesse, contenuto nella decisione della Corte costituzionale n. 160/2019, che pure conferma l’orientamento volto ad ammettere la legittimità di norme legislative preclusive della tutela annullatoria.
La pronuncia pone in rilievo che nel giudizio risarcitorio per equivalente, sostitutivo della tutela in forma specifica, realizzata attraverso la tecnica annullatoria, viene sempre in rilievo “l’accertamento incidentale condotto dal giudice amministrativo sulla legittimità dell’atto, di cui anche gli organi dell’ordinamento sportivo non possono non tenere conto.”
In altri termini, la Corte evidenzia che la pronuncia del TAR, la quale accoglie la domanda risarcitoria, costituisce il presupposto del doveroso avvio di un procedimento di autotutela, nel corso del quale l’organo competente del CONI dovrà tenere conto della decisione del giudice amministrativo, che ha accertato, con forza di giudicato, l’illegittimità dell’atto lesivo.
Secondo la Corte, pertanto, l’organo dell’ordinamento sportivo non è vincolato in modo rigido alla pronuncia del TAR, ma la sua determinazione motivata dovrà indicare adeguatamente le ragioni della scelta di non annullare l’atto illegittimo, verosimilmente collegata alla irreversibilità degli effetti prodotti e agli affidamenti incolpevoli maturati in capo ai soggetti interessati.
È un’indicazione di importanza evidente, perché destinata ad avere molteplici ricadute operative di tipo sistematico. Già a diritto vigente, infatti, si dovrebbe ragionevolmente sostenere che l’art. 125, comma 3, vada inteso nel senso che, accolta dal giudice la domanda risarcitoria per equivalente, in luogo di quella annullatoria, la stazione appaltante sia sempre tenuta a rivalutare attentamente l’atto di affidamento e il correlato contratto, stabilendo se il vizio riscontrato sia tale da pregiudicare gli interessi pubblici perseguiti.
Alla luce degli indirizzi manifestati dalla Consulta, solo in questo modo l’esclusione di un’azione annullatoria potrebbe ritenersi compatibile con il vigente quadro costituzionale.
Se è così, la prevista tutela risarcitoria, qualificata come sostitutiva di quella annullatoria, prevista dall’art. 125, non determina alcuna certezza sulla stabilità dell’affidamento, come immaginato dal legislatore del 2020, ma comporta, semmai, un effetto dirompente ancora più grave, perché destinata a riaprire il procedimento di aggiudicazione e il correlato contenzioso, anche a distanza di tempo dall’adozione dell’atto lesivo. E tale contenzioso si riferirà al provvedimento adottato all’esito del doveroso procedimento di autotutela, moltiplicando i provvedimenti della stazione appaltante e i correlati processi.
Anziché semplificare il giudizio, dunque, la norma in esame lo renderà ancora più lungo e incerto, in considerazione dei tempi fisiologici di decisione delle Corti.
 
  1. L’art. 125, comma 3, del CPA e l’inefficacia flessibile del contratto nell’art. 121 del CPA.
Analizzando più a fondo la disciplina, sulla base dell’esperienza applicativa dell’art. 125, nel suo complesso, è proprio l’utilità concreta della nuova norma a risultare di modesta consistenza, se si vuole valutare l’auspicata finalità di accelerazione dell’esecuzione contrattuale.
L’attuale disciplina generale degli articoli 121 e 122 contiene, infatti, una disciplina completa, omogenea ed accurata, degli effetti dell’annullamento dell’aggiudicazione sul contratto.
È una normativa perfettamente coerente con le direttive comunitarie e di cui nessuno ha mai messo in discussione la funzionalità e razionalità.
La disciplina degli artt. 121 e 122 è incentrata su un realistico principio di flessibilità, perfettamente logico, che permette di armonizzare le diverse esigenze in conflitto, giungendo ad esiti ottimali. E, in modo intelligente, la norma impone di valutare in primo luogo il dato pratico dello stato di esecuzione del contratto e non già quello, meramente formale ed estrinseco, della intervenuta stipulazione, anche in relazione alla possibilità di subentro di altro operatore economico.
Nel disegno della norma di cui all’art. 122, la presenza di preminenti interessi generali è pienamente idonea a prevalere, di volta in volta, sulla tutela caducatoria rivendicata del ricorrente.
Ma tale prevalenza va accertata dal giudice non in astratto, bensì alla luce di un bilanciamento concreto, frutto della dialettica processuale tra le parti.
Basterebbe pensare ai casi in cui l’illegittimità riscontrata si basi sulla riscontrata assoluta inidoneità tecnica o inaffidabilità economica o morale dell’aggiudicatario: tutti casi in cui proprio l’interesse nazionale dovrebbe imporre la caducazione di un contratto la cui esecuzione arrecherebbe innumerevoli danni e nessun vantaggio.
In concreto, non si ha contezza di casi significativi in cui il meccanismo dell’art. 122, governato attentamente dal giudice, abbia impedito di salvaguardare adeguatamente l’attuazione di interessi pubblici implicati nel contenzioso. Né le decisioni dei giudici finora edite sembrano in alcun modo sbilanciate nel senso di favorire a tutti i costi la caducazione del contratto, sacrificando gli interessi pubblici alla sollecita realizzazione delle opere.
La rigidità della preclusione derivante dall’intervenuta stipulazione, senza possibilità di deroghe, stabilita dall’art. 125, comma 3, quindi, non comporta alcun miglioramento, ma ingessa illogicamente la decisione del giudice, privandola di una elasticità che è connaturata al contenzioso in materia di appalti e, prima ancora, al buon senso comune.
Ma il funzionamento dell’art. 125, comma 3, penalizza la stessa amministrazione, costretta a mantenere intatto il rapporto con un appaltatore che, nel corso del giudizio risarcitorio, potrebbe essere risultato assolutamente non idoneo, salvo quanto si preciserà infra, in ordine al potere di autotutela.
 
  1. L’art. 125, comma 3, del CPA. Un meccanismo che dilata i tempi e spinge verso la sospensione dell’aggiudicazione.
Sotto altro e concorrente profilo, poi, l’esperienza dell’applicazione concreta dell’art. 125, ha dimostrato che il complessivo meccanismo previsto è destinato ad allungare i tempi della procedura, non ad abbreviarli, nella scansione che va dalla decisione cautelare di primo grado a quella definitiva in appello.
Infatti, poiché l’art. 125 non deroga al principio dello stand still processuale, è pressoché scontato che la parte ricorrente, interessata a salvaguardare la piena realizzazione della propria pretesa sostanziale, proporrà tempestivamente anche la domanda cautelare, che, se accolta, congelerà l’aggiudicazione e la stipulazione del contratto.
Del resto, è noto che, anche al di fuori del perimetro applicativo dell’art. 125, in tutto il contenzioso in materia di appalti, il ricorso è, nella generalità dei casi, accompagnato dalla domanda cautelare.
In tali casi, il giudice chiamato a decidere sull’istanza, nel dubbio, sarà quasi certamente molto più propenso alla sospensione dell’aggiudicazione e della conseguente stipulazione, considerando che il rigetto eventuale dell’istanza cautelare determinerebbe la prosecuzione della procedura e la successiva stipulazione, con il conseguente inderogabile effetto preclusivo dell’annullamento.
Dunque, la rigidità della regola stabilita dall’art. 125, comma 3, finisce per determinare l’effetto pratico di segno opposto a quello auspicato dal legislatore: un tendenziale favore per la sospensione dell’aggiudicazione, solo in minima parte temperato dal rilievo motivazionale delle esigenze di interesse pubblico implicate.
L’effettiva utilità della disciplina dell’art. 125, comma 3, del resto, era stata da tempo messa in discussione dalla circostanza che essa non preclude affatto il potere di autotutela della stazione appaltante, anche prescindendo dalle più recenti indicazioni provenienti dalla Corte costituzionale, orientata a considerare doveroso, o per lo meno opportuno, l’esercizio dell’autotutela.
Ora, il decreto legge in esame sembra impedire radicalmente all’amministrazione di adottare provvedimenti interinali di autotutela, volti a differire o sospendere la stipulazione. Ma anche tale previsione appare di dubbia legittimità, perché sembra in contrasto con i principi dell’art. 97 della Costituzione.
Come si è osservato, poi, la Corte costituzionale ha chiaramente affermato che la limitazione della tutela giurisdizionale è compatibile con i parametri costituzionali proprio perché vi è un ragionevole spazio di operatività dei principi generali dell’autotutela.
Risulterebbe assai dubbia, allora, la ragionevolezza di un sistema che precluda inderogabilmente l’esercizio dell’autotutela preventiva, lasciando aperto il potere-dovere di intervenire ex post, una volta accertata l’illegittimità della procedura di gara, all’esito di un giudizio risarcitorio.
La scelta di limitare la tutela a quella risarcitoria per equivalente, poi, comporta una serie di inconvenienti più volte segnalati, che comprendono la maggiore esposizione finanziaria delle stazioni appaltanti e la conseguente responsabilità erariale dei funzionari[17].
E la previsione della copertura assicurativa facoltativa, stabilita dal decreto legge, non risolve il problema nella sua dimensione macroeconomica: il mercato del settore dovrà definire premi assicurativi almeno pari alla prevedibile sommatoria dei risarcimenti dei danni complessivamente pagati dalle stazioni appaltanti. Cioè, tranquillizza, forse, la singola amministrazione (e i suoi funzionari), ma non alleggerisce affatto il debito pubblico correlato alla soppressione della tutela annullatoria e in forma specifica.
E, sul piano dell’affollamento delle aule di giustizia, la tecnica risarcitoria comporta anche un notevole aggravamento del contenzioso, dovendosi affrontare, in tale sede, delicate e spesso defatiganti problematiche di liquidazione.
 
  1. L’art. 125 del CPA: una norma vecchia, superata dalla direttiva n. 66/2007 e dagli articoli 121 e 122 del CPA.
Non va dimenticata una considerazione “di sistema”. L’art. 125, ora rivitalizzato dal legislatore, già nel 2010 era un mero “residuo” della disciplina posta nel lontano 2001 dalla legge-obiettivo n. 443/2001 e dai decreti attuativi (disciplina poi estesa ad altre fattispecie, indicate al comma 4), in un contesto che non conosceva ancora la normativa, chiara e funzionale, del rito appalti ordinario, consacrata nei citati articoli 121 e 122 del CPA.
Tali disposizioni, a loro volta, rappresentano l’attuazione della direttiva n. 66/2007, affrontando tutti i profili concernenti la sorte del contratto in seguito all’accertata illegittimità dell’aggiudicazione.
L’art. 125 è rimasto nel codice del processo amministrativo, ma con molte critiche e riserve, perché si è reputato che tale disposizione potesse servire a “chiudere” vicende ancora in atto, pur non connotandosi esplicitamente come disciplina (parzialmente) transitoria[18].
Sorprende, allora, che il legislatore, annunciando modernità e dinamismo, abbia modificato il rito appalti rispolverando una norma antica, che ha ormai esaurito, in tutto o in parte, la sua funzione ed è palesemente disallineata al contemporaneo disegno comunitario e nazionale, incentrato sui principi della direttiva n. 66/2007.
La disciplina degli articoli 121 e 122, e, per la fase cautelare, dell’art. 120, comma 8-ter, affronta in modo chiaro e razionale le stesse problematiche disciplinate a suo tempo dalla legge obiettivo: una normativa frutto di attenta ponderazione, dapprima, in sede europea, nel lungo iter che ha portato al varo della direttiva n. 66/2007, poi nel suo accurato recepimento nazionale, nel perfezionamento nel codice del processo e nel codice n. 50/2016.
Insomma, sembra quasi che il legislatore odierno si sia dimenticato che la questione della sorte del contratto stipulato sia già disciplinata dal codice, con regole molto efficaci e di respiro sistematico.
 
  1. La definizione del merito in sede cautelare: la previsione del decreto legge e la disciplina a regime dopo la conversione in legge.
Le altre innovazioni contenute nell’art. 4 del decreto legge convertito intendono incidere sui tempi di decisione nel rito appalti.
Anche in questo caso, l’intento di velocizzare la decisione sconta l’illusione di voler essere, a tutti i costi, più rapidi di qualsiasi altro precedente Governo e maggioranza parlamentare: come se l’efficienza complessiva del rito appalti si misurasse alla stregua di una gara di cento metri: con il cronometro in mano.
Anzitutto, nella nuova disciplina sembra volersi favorire la decisione del merito in sede cautelare (art. 4, comma 3, alinea a) del decreto legge).
La disposizione è stata in parte riformulata con la legge di conversione.
Secondo la norma definitivamente approvata, qualora le parti richiedano congiuntamente di limitare la decisione all’esame di un’unica questione, nonché in ogni altro caso compatibilmente con le esigenze di difesa di tutte le parti in relazione alla complessità della causa, è di norma definito anche in deroga al comma 1, primo periodo dell’articolo 74, in esito all’udienza cautelare ai sensi dell’articolo 60, ove ne ricorrano i presupposti.
È dubbio se la modifica apportata dalla legge di conversione:
  1. abbia una funzione limitatrice dell’obbligo di decidere il ricorso nel merito;
  2. introduca un’ipotesi ulteriore, costituita dalla richiesta congiunta delle parti, in cui la decisione del merito deve essere inderogabilmente adottata;
  3. costituisca una mera indicazione esemplificatrice, dal valore sostanzialmente pleonastico, delle ipotesi in cui è consentita la definizione immediata della controversia.
L’impressione complessiva è che, ora, la disposizione in esame non comporti significative accelerazioni del giudizio e che, in sostanza, non modifichi l’assetto esistente, risolvendosi in una sorta di enunciazione programmatoria volta a incentivare la decisione abbreviata.
Occorre verificare, in particolare, se la norma:
– individui realmente i nuovi presupposti del giudizio immediato in sede cautelare;
– preveda regole procedimentali diverse da quelle preesistenti.
 
  1. La richiesta congiunta delle parti di limitare la decisione ad una questione unica.
Con riferimento all’ambito applicativo, la norma considera, letteralmente, due diverse ipotesi:
  • La richiesta congiunta delle parti di limitare la decisione a una sola questione;
  • Ogni altro caso, “compatibilmente con le esigenze di difesa di tutte le parti in relazione alla complessità della causa”.
La formulazione adoperata dal legislatore suscita, anzitutto, un interrogativo. Non è chiaro se, nel primo caso, la definizione in sede cautelare sia sempre obbligatoria o se, anche in tale ipotesi, operi la clausola di salvezza, incentrata sull’espressione “di norma”: il giudice potrebbe sempre optare per limitare la pronuncia alla domanda cautelare, dandone conto nel provvedimento.
Dal punto di vista meramente grammaticale e letterale pare convincente l’interpretazione secondo cui anche in questo specifico caso, nonostante la congiunta richiesta delle parti, la decisione immediata non sia obbligatoria.
D’altro canto, però, non si comprenderebbe la necessità di isolare questa particolare fattispecie, se poi essa si risolve, in ultima analisi, in una delle innumerevoli ipotesi comprese nella locuzione “ogni altro caso”, individuate discrezionalmente dal giudice.
L’indicazione del legislatore, allora, avrebbe un significato meramente orientativo, utile a chiarire che in tale evenienza il giudizio immediato possa celebrarsi e la decisione di rinviare alla ordinaria udienza pubblica per il merito debba essere accuratamente motivata, attraverso l’indicazione delle ragioni ostative.
Realisticamente, però, considerando che, assai verosimilmente, le istanze congiunte di decisione non saranno molto numerose, il giudice dovrà sempre assecondare le istanze di parte, a meno che non emergano gravi ragioni oggettive che sconsigliano la definizione immediata. Si pensi ai casi in cui è imminente la pubblicazione di una decisione della Corte di Giustizia o dell’Adunanza Plenaria incidente sulla vicenda, od occorra effettuare un adempimento istruttorio; oppure alle ipotesi in cui il giudice intenda sollevare una diversa questione rilevabile d’ufficio.
È chiaro, invece, anche alla luce del dato letterale, che in questa ipotesi speciale non presenta particolare rilievo la prescrizione secondo cui il giudizio immediato è sempre subordinato alla salvaguardia del diritto di difesa delle parti, dal momento che sono le parti stesse a sollecitare la pronuncia immediata.
Meno scontata è la rilevanza del requisito della non complessità della causa, che, in linea generale, costituisce presupposto indefettibile della decisione immediata. A stretto rigore, l’unicità della questione, infatti, non coincide affatto con la sua semplicità. E l’incerto concetto di “complessità” va certamente inteso in senso qualitativo e non quantitativo.
Tuttavia, sembra preferibile seguire un indirizzo interpretativo diretto a valorizzare la volontà congiunta delle parti, senza svuotare l’intento acceleratorio voluto dal legislatore. Insomma, a fronte della richiesta congiunta delle parti, la scelta di rinviare al merito dovrebbe essere del tutto residuale.
Non è chiarissimo neppure quale sia l’esatta nozione di “questione unica”. Ma, assai probabilmente, dovrà essere apprezzato il contenuto della richiesta formulata dalle parti: di norma dovrebbe trattarsi di un unico motivo di censura, correlato ad un profilo di fatto o di diritto della vicenda. Tale dato andrà valutato in termini sostanziali e con la massima elasticità. Non di rado, lo stesso unitario profilo di illegittimità è letteralmente spezzato in motivi frazionati, senza per questo moltiplicarsi in plurime questioni sostanziali.
Senza dire che, comunque, resta ferma la discrezionalità del giudice di definire il merito anche nell’eventualità in cui la questione non sia effettivamente “unica”.
Sotto l’aspetto procedimentale, non si prevede alcuna regola in ordine ai tempi e alla modalità di espressione della richiesta congiunta. Questo implica che l’istanza delle parti potrebbe essere ritualmente formulata anche nel corso della stessa camera di consiglio.
È appena il caso di rilevare che il carattere congiunto della richiesta ha natura sostanziale e non formale: per cui essa va riscontrata anche qualora provenga da una parte soltanto e l’altra dichiari di aderirvi o di non opporsi, in tal modo rinunciando alle proprie difese. Ciò potrebbe portare ad affermare che la norma trovi applicazione anche nei casi in cui la richiesta provenga dal solo ricorrente e le altri, pur costituite, non compaiano in udienza.
Un altro interrogativo riguarda il significato della formula “parti”, utilizzata dal legislatore senza alcuna specificazione riguardante il requisito della costituzione in giudizio.
Ma pare preferibile ritenere che, per la decisione immediata sia sufficiente la richiesta congiunta (nel senso sopra precisato) di tutte le parti costituite.
Da ultimo, va chiarito il significato della formula “limitare il giudizio”, che potrebbe far pensare ad una necessaria “riduzione” del tema decisorio rispetto a quello originario introdotto dal ricorrente e dalle difese ed eccezioni delle altre parti.
È però evidente che il giudizio potrebbe essere sin dall’inizio circoscritto effettivamente a una sola questione.
Si deve comunque evidenziare che la necessità di definire con precisione l’ambito dell’ipotesi del giudizio riferito ad un’unica questione emergerebbe solo se si ritenesse questa della richiesta congiunta una fattispecie in cui il rito immediato è sempre obbligatorio.
Non è del resto agevole pronosticare quanti potranno i casi in cui il giudizio riguardi davvero una sola questione, le parti siano tutte d’accordo a concentrarsi su di essa, abbandonando eccezioni preliminari, e non emergano altri fattori ostativi alla pronuncia immediata. Basterebbe pensare ai casi in cui il giudice intenda rilevare una questione d’ufficio o vi siano particolari esigenze istruttorie.
 
  1. La decisione del merito “in ogni altro caso” e la complessità della causa.
La seconda ipotesi indicata dalla nuova disciplina ha carattere residuale e generalizzato: “ogni altro caso”, lasciando intendere, quindi, che il giudizio immediato è la regola, sia pure suscettibile di deroghe.
In sede di conversione è stata introdotta la precisazione secondo cui il giudizio immediato è celebrato sì “di norma”, ma “compatibilmente con le esigenze di difesa di tutte le parti in relazione alla complessità della causa”.
La specificazione pare intesa ad attenuare la perentorietà della regola, fino quasi a svuotarne la portata precettiva.
Vanno però affrontati alcuni interrogativi esegetici, riguardanti i due elementi introdotti dalla norma: le esigenze di difesa e la complessità della causa.
A stretto rigore, i due dati sono collegati in un unico periodo linguistico. Ne potrebbe derivare la conseguenza che la complessità della causa che impedisce la definizione del merito in sede cautelare rileva solo se le parti manifestino l’esigenza di articolare adeguatamente le proprie difese.
Potrebbe accadere, infatti, che le parti, pur riconoscendo la complessità oggettiva della vertenza, ritengano di non avere bisogno di svolgere ulteriore attività difensiva.
Ma è anche plausibile un’interpretazione più articolata, che considera separatamente il dato del diritto di difesa e quello della complessità della causa. Quest’ultimo, quindi, assume rilievo anche nella prospettiva dell’impegno aggiuntivo richiesto al giudice, chiamato a decidere il merito in sede cautelare. Questo non sarebbe esigibile a fronte di una particolare complessità del contenzioso.
Questa lettura appare ragionevole, perché consente di attribuire all’innovazione normativa una forte flessibilità, senza svuotarla totalmente di contenuto.
Resta da chiedersi se occorresse davvero una nuova previsione normativa così dettagliata, intesa a prevedere la possibilità di definire il merito in sede cautelare, considerando che l’istituto della decisione immediata ha portata generale ed è utilizzato con frequenza anche nel contenzioso di cui all’art. 120 cpa.
Del resto, nella sua ordinaria e generale configurazione e nell’esperienza pratica della sua applicazione, i limiti della decisione immediata sono costituti proprio dal rispetto delle esigenze di difesa e dalla complessità della controversia.
In linea di massima, infatti, piena garanzia del diritto di difesa è uno dei limiti generali del giudizio immediato e caratterizza, orizzontalmente, tutto il processo amministrativo. Pertanto, non si vede la necessità di richiamare un principio così ovvio e scontato.
Parimenti, la riscontrata oggettiva complessità della causa, oltre a incidere, all’evidenza, sulle stesse esigenze di difesa delle parti, è logicamente incompatibile con la celerità del rito immediato, anche dal punto di vista del giudice. La menzione di tale elemento, quindi, non incide concretamente sui presupposti della decisione immediata.
Anche in questo caso la norma non specifica che debbano considerarsi solo le esigenze difensive delle parti “costituite”. Inoltre, la disposizione non indica il grado di concretezza delle esigenze difensive rilevanti per escludere il giudizio immediato.
Si deve ritenere, allora, che, nel corso della camera di consiglio, le parti abbiano l’onere di rappresentare con sufficiente chiarezza le ragioni ostative alla decisione immediata, in relazione alla eventualità di specifiche attività difensive.
 
  1. L’avviso alle parti.
Sotto il profilo procedimentale, resta fermo che il giudice abbia l’onere di avvisare comunque le parti in ordine alla scelta, o anche alla semplice eventualità, di decidere la causa nel merito, in sede cautelare, indipendentemente dalle richieste formulate dalle parti.
A stretto rigore, si potrebbe ora ritenere che, diventando regola la decisione immediata, il giudice non sia più tenuto all’avviso e, semmai, dovrebbe rendere edotte preventivamente le parti del proprio intendimento di limitare la pronuncia alla domanda cautelare[19].
Tuttavia, poiché l’art. 60 non è stato modificato, la regola procedimentale dell’avviso, più rispettosa delle garanzie difensive delle parti, deve restare ferma.
Nel nuovo comma 6 dell’art. 120, peraltro, vengono accentuati alcuni evidenti limiti del concreto modo in cui funziona il contraddittorio verticale riguardante la scelta del rito.
Come è noto, la prassi del giudice amministrativo è nel senso che l’avviso alle parti circa l’intendimento di decidere il merito in sede cautelare non comporta, di per sé, la conversione del rito da cautelare a decisorio sul merito. In ogni caso, l’avviso non comporta alcun effetto irreversibile, con la conseguenza che la pronuncia del giudice potrebbe legittimamente limitarsi alla domanda cautelare.
E ciò è consacrato dalla diffusa abitudine di un avviso “generico”, con cui il collegio comunica di riservarsi di decidere il merito o la sola causa cautelare, tenendo conto dell’esito della discussione in camera di consiglio.
Si può aggiungere, poi, che l’avviso, a seconda dei casi, viene formulato prima dell’inizio della discussione in udienza (come sembrerebbe più corretto), o, assai spesso, in un momento successivo, contestualmente al passaggio in decisione.
Questo modus operandi potrebbe considerarsi giustificato, perché, in concreto, la scelta finale tra decisione limitata al cautelare od estesa al merito compete al collegio, il quale, ovviamente, dovrà valutare tutte le possibili alternative.
Ci deve chiedere, però, se, in prospettiva, non sarebbe preferibile seguire una procedura più trasparente, che consenta alle parti di capire se, dopo l’avviso, il collegio intenda decidere effettivamente il merito della controversia.
La nuova formulazione dell’art. 120 comma 6 apre un ulteriore interrogativo. Come si è anticipato, si potrebbe opinare che ora la decisione di merito vada adottata “di norma”, con la conseguenza che il collegio non avrebbe più bisogno di avvisare le parti del proprio intento. Semmai, dovrebbe avvisarle qualora intenda pronunciarsi solo sull’istanza cautelare, o, comunque, non sia certo di voler definire il merito della controversia.
Resta preferibile, tuttavia, l’opinione secondo cui l’avviso della definizione del merito è sempre necessaria.
La formula normativa induce a ritenere, inoltre, che, ora, il giudice della cautela, indipendentemente dagli avvisi alle parti, dovrebbe motivare la propria scelta di limitare la pronuncia all’istanza cautelare.[20]
Ma è assai probabile che questo obbligo, se ritenuto sussistente, si possa risolvere in formule sintetiche o tautologiche, consistenti nella parafrasi dell’art. 120, comma 6.
D’altro canto, la valutazione dei presupposti per la decisione immediata resta connotata da ampi margini di discrezionalità, sicché risulta pressoché impossibile l’individuazione di strumenti diretti a garantirne una più larga applicazione.
 
  1. La sostenibilità della norma e le misure organizzative.
L’organo di autogoverno della giustizia amministrativa ha osservato, sia pure con riguardo al testo del decreto legge, anteriormente alla sua conversione in legge, che la ipotizzata estensione del giudizio immediato potrebbe appesantire i già rilevanti carichi dei giudici.
La preoccupazione manifestata dal Consiglio di Presidenza non può essere trascurata e pone in rilievo anche un importante problema di metodo nell’iter delle riforme che toccano gli istituti processuali. Il coinvolgimento preventivo dei destinatari delle norme andrebbe sempre assicurato se non vi sono serie ragioni contrarie.
Tuttavia, anche per effetto delle modifiche apportate al testo dalla legge di conversione, i timori espressi dal CPGA possono essere in parte ridimensionati e in parte tradotti in rapide ed efficienti misure organizzative.
A) Nonostante le intenzioni del legislatore, l’estensione del giudizio immediato rimane un mero auspicio, senza determinare apprezzabili vincoli inderogabili. L’ipotesi dell’unica questione prospettata congiuntamente dalle parti, anche a voler supporre che essa comporti un autentico obbligo per il giudice, è assai limitata. Negli altri casi, il principio della pronuncia in forma semplificata resta ampiamente derogabile, tutt’al più esigendo una sintetica motivazione.
B) Il CPGA è titolare di un ampio potere riguardante la definizione dei carichi di lavoro dei giudici amministrativi. Pertanto, l’ipotizzata estensione dell’impegno correlato alla decisione in forma semplificata, potrebbe essere adeguatamente compensata con apposite misure organizzative e di computo dei carichi massimi esigibili dai magistrati. In tal modo verrebbero sacrificate le esigenze correlate a controversie estranee al settore degli appalti pubblici, ma questo esito risulterebbe coerente con la valutazione politica del Parlamento, indirizzata ad assicurare priorità a tale tipo di contenzioso.
C) L’avanzata digitalizzazione del processo ha liberato molte risorse nell’apparato delle segreterie. Questo potrebbe consentire di definire flussi di lavoro preparatorio che potrebbero agevolare notevolmente l’istruttoria della causa e la rapida stesura della motivazione. Si pensi alla opportunità di predisporre l’istruttoria consistente nella organizzazione del fascicolo digitale e delle norme e dei precedenti citati dalle parti.
In questo senso, andrebbero ripristinate le semplici prassi operative che liberavano l’estensore dal lungo e faticoso onere di controllo dell’intestazione della sentenza e degli altri aspetti formali della decisione. Parimenti, andrebbe semplificata e ammodernata la formazione del fascicolo informatico, la sua consultabilità anche mediante indici e richiami interni.
Senza trascurare l’opportunità di utilizzare il personale per la realizzazione di semplici ricerche normative e di giurisprudenza, non diversamente da quanto avviene ora nelle Sezioni consultive.
 
  1. La “deroga” all’art. 74 del CPA e la sua effettiva portata.
La norma indica che la prevista possibilità della decisione in forma semplificata è “in deroga all’art. 74” del CPA.
Ma la possibilità della definizione della controversia in sede cautelare è, infatti, una regola generale. Vale anche nel rito appalti ed è molto utilizzata nella prassi.
Non si comprende, allora, che necessità ci sia di stabilire una espressa “deroga” all’art. 74.
Senza dimenticare, poi, che, nell’art. 120 è già previsto che la motivazione della sentenza sia, ordinariamente, in forma semplificata.
È del resto pacifico che, nell’art. 60, definizione della controversia in sede cautelare può prescindere dalla oggettiva “liquidità” dell’esito, diversamente da quanto prevede, letteralmente, l’art. 74.
In ogni caso, nella prassi, la scelta del giudice di decidere il merito all’udienza cautelare (non solo nel rito appalti) non si preoccupa sempre di enunciare la sussistenza dei presupposti di cui all’art. 74 e, non di rado, valorizza, semmai, l’esigenza di definire rapidamente l’assetto sostanziale di una determinata vicenda, indipendentemente dalla maggiore o minore complessità delle questioni sottese.
Né la decisione di definire il merito è sindacabile in appello, se non in caso di accertata carenza dei presupposti procedimentali indicati dall’art. 60 collegati alla lesione del diritto di difesa[21]. La pronuncia del TAR non potrebbe essere censurata invece, per asserita mancanza del requisito della liquidità delle questione.
Se il legislatore avesse inteso introdurre un rito camerale decisorio totalmente alternativo a quello in udienza pubblica avrebbe dovuto dirlo con maggiore chiarezza. È un’opzione forse possibile, ma davvero poco appetibile, tenendo conto dei tempi rapidissimi del rito appalti.
È probabile, allora, che l’ipotizzata “deroga” all’art. 74, seppure tecnicamente imprecisa, sia finalizzata semplicemente a favorire una più larga utilizzazione del meccanismo decisorio dell’art. 60.
Insomma, la confusa previsione della decisione immediata, non aggiunge molto alla disciplina vigente e appesantisce inutilmente il testo normativo dell’art. 120.
Resta, in ogni caso il dubbio sulla reale utilità di questa annunciata accelerazione estrema del giudizio di merito.
Le parti hanno diritto di difendersi in tempi ragionevoli. Chi ha detto che tutti desiderino chiudere subito la partita, in sede cautelare, senza poter svolgere compiutamente le proprie argomentazioni?
L’art. 74 lo dice in modo chiaro, del resto: la decisione semplificata si adotta quando l’esito è manifesto. È una previsione irragionevole?
E anche sul piano dell’efficienza e dell’organizzazione dell’attività del giudice, il sovraccarico dell’udienza camerale non è necessariamente positivo. Rischia di incidere sensibilmente sulla qualità della decisione, benché opportune misure organizzative possano attenuare gli inconenienti.
Il Consiglio di Stato ha già avuto modo di porre in luce le criticità della norma in esame, seppure considerando la versione precedente la conversione in legge. In particolare, la V sezione, con una serie di ordinanze (nn. 4556, 4557,4558, 4563, 4564, 4565, 4566, 4567, 4569 del 31 luglio 2020) ha proposto una lettura costituzionalmente conforme “del rito previsto “di norma” dall’art. 4 del d.-l. n. 76 del 2020”, affermandone l’inapplicabilità in assenza di risorse adeguate[22].
Forse bisognerebbe considerare che talvolta non è rispettato il termine dei quarantacinque giorni per la celebrazione dell’udienza pubblica di discussione del merito.
La nuova disciplina è probabilmente originata dall’esigenza di evidenziare che l’immediatezza della decisione dovrebbe essere sempre favorita, con la conseguenza che la stessa fissazione del merito diventa, sistematicamente, una regola generale.
In tale quadro, allora, sarebbe difficilmente tollerabile uno slittamento ulteriore rispetto al previsto termine di quarantacinque giorni.
In questa chiave, allora, la sottolineatura dell’urgenza della decisione nel rito appalti non è totalmente inutile.
Resta il fatto che, senza dannosi contrasti fra le istituzioni pubbliche, si dovrebbero delineare strumenti efficaci per garantire il pieno rispetto dei termini stabiliti, definendo le opportune misure organizzative.
 
  1. La pubblicazione della sentenza che definisce il giudizio entro quindici giorni dall’udienza.
Da ultimo, il nuovo articolo 120, come modificato dall’art. 4, comma 4, alinea b), prevede un’accelerazione ulteriore della fase strettamente decisoria, intervenendo su regole che, peraltro, già stabiliscono tempi assai stretti per la redazione della sentenza nel rito speciale, in primo e in secondo grado.
Ovviamente, si può senz’altro scegliere di accelerare ulteriormente la pubblicazione della sentenza, ritenendo che trenta giorni siano ancora troppi, in un contenzioso caratterizzato da evidenti complessità giuridiche e rilevanti interessi economici e pubblici. Così come è certamente utile definire con maggiore chiarezza che i termini, quale che sia la loro durata, vanno riferiti alla pubblicazione della decisione completa della motivazione e non già alla trasmissione della minuta della motivazione.
Occorre però verificare con la massima attenzione il “costo” di questa ulteriore accelerazione, in relazione ai benefici effettivamente conseguibili.
L’ordinamento conosce un’ipotesi peculiare di rito processuale amministrativo contrassegnato dalla velocità massima ipotizzabile nella definizione del giudizio.
Esemplificativamente, il rito elettorale preparatorio prevede la pubblicazione della sentenza, completa della motivazione, lo stesso giorno dell’udienza. E tale prescrizione è scrupolosamente rispettata dal giudice amministrativo.
In quei casi, però, si tratta di definire la platea dei soggetti che parteciperanno alla competizione elettorale, garantendo il rispetto del calendario.
Anche nel contenzioso dei contratti pubblici l’opportunità di una decisione rapidissima è fuori discussione, ma non emerge la stessa necessità di una inderogabile definizione in tempi altrettanto brucianti, anche tenendo conto della possibilità della pubblicazione anticipata del dispositivo e degli effetti delle pronunce cautelari.
Ma, anche accettando l’impostazione che vuole a tutti i costi l’accelerazione, la nuova disciplina non funziona e, così come è formulata, andrebbe largamente rimodulata in sede di interpretazione.
La previgente formulazione dell’art. 120 prevedeva già tempi velocissimi: trenta giorni per il deposito della motivazione.
Sono davvero ancora troppo lenti e inadeguati? Forse, ma bisogna stare con i piedi per terra ed evitare banalizzazioni. In ogni caso, occorre equilibrare l’esigenza di certezza dei tempi di definizione della lite con la qualità della decisione.
E questo rileva particolarmente in appello, considerando la responsabilità nomofilattica del Consiglio di Stato e l’obbligo di rinvio alla Corte di Giustizia dell’Unione europea. Una decisione ponderata fatta bene, chiara e approfondita, risolve, per il futuro, mille controversie. Una decisione velocissima, ma non adeguatamente motivata, moltiplica incertezze e alimenta il contenzioso.
Cambiare ancora la disciplina dei tempi fissati dall’art. 120, ipotizzando di guadagnare –forse – qualche giorno, non sembra una soluzione ragionevole.
La proposta, poi, è strutturata con regole poco chiare e destinate a creare confusione.
 
  1. La portata oggettiva della norma: l’applicazione al giudizio davanti al Consiglio di Stato. Il differimento della pubblicazione del dispositivo in ipotesi di stesura della motivazione particolarmente complessa.
La portata oggettiva dell’innovazione riguarda non solo il giudizio di primo grado, dinanzi al TAR, ma anche il processo dinanzi al Consiglio di Stato.
La volontà del legislatore in tal senso è univoca e si manifesta attraverso la modifica della dizione contenuta nell’art. 120, comma 9.
La formula previgente dell’art. 120 comma 9, nel prevedere il termine di trenta giorni per il deposito della motivazione, faceva espresso riferimento al (solo) tribunale amministrativo regionale. Ora, la nuova disposizione sostituisce la locuzione il tribunale amministrativo regionale con l’espressione “il giudice”, astrattamente idonea a comprendere anche il giudice di secondo grado.
In tal modo si vuole superare il dubbio ingenerato dalla disciplina previgente.
Nella tormentata vicenda normativa dell’art. 120 del CPA, soggetto a ripetute modifiche incidenti proprio sul comma 9, il legislatore aveva ritenuto di diversificare le regole applicabili nel giudizio davanti al Consiglio di Stato, attenuando la portata della disciplina acceleratoria della fase decisoria.
Nel testo originario del codice, infatti, si prevedeva, al comma 9 dell’art. 120, che “Il dispositivo del provvedimento con cui il tribunale amministrativo regionale definisce il giudizio è pubblicato entro sette giorni dall’udienza di discussione, ferma restando la possibilità di chiedere l’immediata pubblicazione del dispositivo entro due giorni.”
Il comma 9, tuttavia, non era richiamato dal comma 11 tra le disposizioni applicabili al Consiglio di Stato. Se ne deduceva la conclusione che restavano applicabili le regole di cui all’art. 119, comma 5, concernenti la pubblicazione anticipata del dispositivo, entro sette giorni dall’udienza, su richiesta della parte interessata.
Successivamente, l’articolo 40, comma 1, lettera c), del decreto legge 24 giugno 2014, n. 90, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 agosto 2014, n. 90, aveva introdotto una disciplina acceleratoria, modificando il comma 9: “Il Tribunale amministrativo regionale deposita la sentenza con la quale definisce il giudizio entro trenta giorni dall’udienza di discussione; le parti possono chiedere l’anticipata pubblicazione del dispositivo, che avviene entro due giorni dall’udienza.
L’innovazione legislativa, peraltro, aveva lasciato immutata la norma di rinvio, contenuta nel comma 11, concernente il giudizio dinanzi al Consiglio di Stato.
L’art. 204, comma 1, lettera g), del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50, introducendo il rito “superaccelerato” in materia di ammissioni ed esclusioni aveva modificato il comma 9, aggiungendo un secondo periodo: “Nei casi previsti al comma 6 bis, il tribunale amministrativo regionale deposita la sentenza entro sette giorni dall’udienza, pubblica o in camera di consiglio, di discussione; le parti possono chiedere l’anticipata pubblicazione del dispositivo, che avviene entro due giorni dall’udienza.”
Ma lo stesso articolo 204, comma 1, alla lettera h) aveva modificato il comma 11 dell’art. 120, stabilendo che tra le norme applicabili al giudizio davanti al Consiglio di Stato dovesse includersi anche quella di cui al nuovo secondo periodo del comma 9.
Il rito superaccelerato è stato però abrogato dall’art. 1, comma 4 del decreto legge 18 aprile 2019, n. 32, convertito, con modificazioni, dalla legge 13 giugno 2019 n. 55.
Tale innovazione ha soppresso il secondo periodo del comma 9 e ha modificato la disposizione di rinvio, contenuta nel comma 11. Per effetto di tale innovazione, il rinvio non è più limitato al secondo periodo del comma 9, ormai abrogato, ma riguarda l’intero comma 9 (peraltro, ora composto di un solo periodo).
La relazione di accompagnamento al decreto legge non spiega le ragioni di questa specifica modifica[23], che, seminascosta nei meandri della novella legislativa, è passata quasi del tutto inosservata.
È ragionevole ritenere che il legislatore del 2019 fosse preoccupato essenzialmente di eliminare il rito superaccelerato e tutte le norme che lo richiamavano, senza porsi affatto il ben diverso problema della omogeneizzazione dei termini di definizione della controversia in primo e in secondo grado.
In questa prospettiva, allora, si comprende bene la necessità di sopprimere, nel comma 11, il riferimento al comma 9, secondo periodo.
È assai probabile che il legislatore, nel ricomporre il frastagliato sistema delineato dall’art. 120, soggetto a vorticosi cambiamenti, abbia optato per un rinvio secco al comma 9, senza considerare, però, l’effettiva conseguenza di tale riformulazione, forse frutto di una disattenzione tecnica, comunque mai annunicata con chiarezza.
In questa cornice, pertanto, poteva prospettarsi, quindi, il legittimo dubbio che il comma 9 conservasse ancora un raggio di azione limitato al giudizio dinanzi al TAR.
Ora, però, l’incertezza può dirsi definitivamente superata dalla formulazione della disposizione, riferita in modo indiscutibile al giudice e non più al solo tribunale amministrativo regionale.
L’omogeneizzazione dei tempi di pubblicazione della decisione in primo e in secondo grado è una scelta che forse avrebbe dovuto valutarsi con maggiore attenzione. I termini più lunghi per il giudizio non sono un privilegio, ma un’esigenza legata alla funzione nomofilattica del Consiglio di Stato, come pure alle caratteristiche devolutive del processo, che spesso impongono al giudice di appello di esaminare per la prima volta in secondo grado le questioni erroneamente assorbite dal TAR, per ragioni sostanziali o processuali, rivelatesi poi infondate.
 
  1. La sorte della pubblicazione del dispositivo a richiesta di parte.
Ciò chiarito, resta singolare l’effetto pratico della riforma. La prevista accelerazione della pubblicazione della motivazione si accompagna, infatti, alla incongrua eliminazione dell’obbligo della pubblicazione rapida del dispositivo, in primo grado, entro due giorni dall’udienza[24].
A meno che non si ritenga che, eliminata la specialissima regola contenuta nell’art. 120, si riespanda, anche dinanzi al TAR, la regola generale di cui all’art. 119 che prevede la pubblicazione del dispositivo, a domanda di parte, entro sette giorni.
Ma questa soluzione interpretativa pare smentita, invece, dalla nuova previsione, secondo cui la pubblicazione anticipata del dispositivo si deve compiere nei soli casi di motivazione complessa, da depositare nel termine di trenta giorni.
L’effetto pratico della nuova disciplina, quindi, è che, in questo modo, l’esito del giudizio si conoscerebbe più tardi di quanto attualmente previsto: quindici giorni, anziché due.
Non convince, poi, il meccanismo della obbligatoria pubblicazione anticipata del dispositivo nel caso di “motivazione complessa”.
Non è chiarito, intanto, con quali modalità il giudice dovrebbe stabilire che procederà alla pubblicazione anticipata del dispositivo. A quanto pare, allo scadere dei quindici giorni potrebbe, alternativamente, essere pubblicato un dispositivo o una sentenza completa.
E questa possibilità determina, inevitabilmente, incertezza ulteriore.
Non solo. È assai prevedibile che il giudice, per comprensibili ragioni di prudenza, preferirà attestarsi, di regola, sull’opzione della “motivazione complessa”, depositando poi la sentenza nel termine di trenta giorni. Insomma, lo stesso termine previsto in primo grado dall’art. 120, comma 9, prima della modifica. L’unica differenza rispetto al passato consisterebbe nell’obbligo di depositare il dispositivo, benché nel termine di quindici giorni, molto più lungo di quello ora vigente.
Per il giudizio di primo grado non è un’accelerazione, ma esattamente il suo contrario.
Perché complicare allora l’art. 120? Per offrire l’ingannevole promessa di un’accelerazione dei tempi di pubblicazione della sentenza, lasciando tutto uguale nella sostanza?
Poco convincente, infine, è la pleonastica indicazione del contenuto del dispositivo, benché muova da un rilievo esatto.
C’è bisogno di dire che il giudice specifica le domande accolte? Il dispositivo ha proprio questa funzione.
Forse il legislatore voleva imporre di indicare nel dispositivo il motivo accolto? Ma, anche ammettendo questa finalità, che però non è affatto esplicitata, è concretamente difficile ammettere che il dispositivo possa – e debba – avere una così chiara analiticità.
E l’eventuale “dimenticanza” della menzione di un motivo, nel dispositivo potrebbe alimentare incertezze sulla modificabilità delle decisione in sede di redazione della motivazione.
Poco perspicuo, poi, è il riferimento alla indicazione delle “misure attuative
Il giudice deve forse anticipare sempre l’ottemperanza in sede di cognizione?
L’art. 34 lo prevede[25], ma si tratta di un potere che deve essere sollecitato dalla parte. In concreto ciò avviene raramente.
Resta fermo, invece, che il giudice, fisiologicamente, in caso di accoglimento della domanda, quando è possibile, dispone subentri nel contratto e annulla gare intere, o singoli segmenti, dichiara l’inefficacia del contratto stipulato o ne accerta la persistente efficacia.
Ma questo significa, semplicemente, che il dispositivo può assumere contenuti diversificati, in funzione del contenzioso.
Resta comunque da valutare positivamente la scelta legislativa di prevedere la pubblicazione di dispositivi che, in caso di accoglimento della domanda, possano indicare con la massima chiarezza le conseguenze conformative della decisione, eliminando o riducendo sensibilmente le ipotesi in cui le conseguenze della pronuncia possono essere determinate solo attraverso la lettura della motivazione.
 
  1. L’opzione zero e l’adeguamento del processo alle nuove esigenze. Siano consentite un paio di considerazioni finali di sistema.
Un intervento legislativo che assume l’ambiziosa etichetta della semplificazione deve sempre ricordare che l’opzione zero è quasi sempre la migliore: non modificare l’assetto normativo esistente se non in caso di assoluta necessità.
Anzi, sarebbero molto gradite riforme che seguano l’opzione “sottozero”, eliminando norme complesse e oscure. La prudenza è consigliata almeno quando l’intervento non è accompagnato da un’adeguata illustrazione delle ragioni della riforma: non necessariamente una formale analisi di impatto della regolazione (AIR), ma almeno una ricognizione reale delle problematiche riscontrate, basata su una seria elaborazione di dati e non su generiche impressioni.
In concreto: quali elementi in possesso del Governo e del Parlamento hanno giustificato l’estensione dell’art. 125?
E quali dati concreti hanno indicato lentezze significative nella pubblicazione delle decisioni, quanto meno nella loro parte dispositiva?
Meglio non aggiungere norme. Meglio ancora sarebbe un intervento che elimina e riduce: questa è la vera semplificazione.
La metafora di Michelangelo che crea per sottrazione dal marmo potrebbe estendersi pure all’ordinamento giuridico. E questo vale per il processo in modo particolare.
Occorrono regole stabili e leggere. Le modifiche continue creano effetti negativi quasi sempre superiori – e di molto – a quelli positivi: specie se sono modifiche poco meditate, contestate dal foro e dalla dottrina, non condivise con i giudici.
Nella migliore delle ipotesi richiedono uno sforzo di metabolizzazione e recepimento.
Si comprende bene il paradosso della politica: il bisogno di esporre la capacità di “intervenire” comunque sulla materia, confidando sulla “percezione mediatica” della riforma; l’intramontabile convinzione che due o tre norme, forse discutibili, siano sempre meglio di niente.
In quest’ottica, la normativa in esame potrebbe senz’altro presentarsi come saggia modernizzazione di un sistema giudiziario che rallenta le opere pubbliche. Il bilancio sull’impatto delle innovazioni avverrà solo a distanza di mesi, e non avrà le prime pagine.
Ma, forse, anche sul piano della comunicazione le cose stanno cambiando. E un intervento semplificatore che complica non passa più inosservato ed è un boomerang per le istituzioni che lo propongono. Fanno perdere la fiducia e gettano ombre sulla credibilità su chi ci mette la faccia, quale che sia il suo colore.
 
  1. È indispensabile la legislazione d’urgenza per cambiare il rito appalti?
La scelta del decreto legge per intervenire sul rito appalti è ormai un’abitudine. Ma forse è arrivato il momento di cambiare. Questo sarebbe un vero segnale di discontinuità, serietà, concretezza.
Il decreto legge si può e si deve adottare per ragioni di urgenza reali. Così, nessuno ha dubitato della utilità del decreto legge per introdurre le norme processuali eccezionali applicate nella fase più acuta della pandemia.
Ma interventi destinati a incidere sulle forme di tutela e sui meccanismi di svolgimento del rito devono essere sempre ponderati.
Un’ultima considerazione riguarda la trasparenza dell’intervento normativo.
Sono passati decenni dai decreti legge catenaccio, con cui si aumentava il prezzo della benzina alle tre di notte, proprio per “sorprendere” i destinatari delle norme fiscali.
Oggi, le forze politiche sostengono, giustamente, la regola dello streaming, la verificabilità dei percorsi politici di decisione, anche su temi delicatissimi.
Le modifiche del processo amministrativo, come quelle oggi varate, hanno un contenuto tecnico e non richiedono assolutamente l’effetto sorpresa, né mettono in discussione la tenuta politica di una maggioranza. Allora, dovrebbero uscire dai corridoi segreti del Palazzo ed essere più verificabili, esporsi al confronto e al dibattito dei protagonisti del processo. Senza veti e senza corporativismi, ma con una nitida rappresentazione dei possibili rilievi sulla proposta.
E, forse, nell’interesse di tutti, si potrebbero seguire i percorsi istituzionali già delineati dall’ordinamento: primo fra tutti, il parere del Consiglio di Stato sui disegni di legge che toccano il suo funzionamento e la disciplina della Giustizia Amministrativa.
Che cosa può temere un Governo forte e autorevole da un parere non vincolante, espresso ai sensi dell’art. 100 della Costituzione? Tempi lunghi? Valutazioni scomode e critiche troppo severe?
Non sembra che i quarantacinque giorni (il tempo massimo previsto dalla legge) per la pronuncia del parere del Consiglio di Stato possano considerarsi eccessivi, in relazione a procedimenti normativi che devono essere accurati e seri.
E sugli argomenti di forte impatto tecnico giuridico sembra preferibile esporsi alle valutazioni preventive dell’organo consultivo, piuttosto che incassare, poi, una non improbabile bocciatura dalla Corte costituzionale o dalla Corte di Giustizia.
 
  1. La decodificazione delle norme processuali.
Un’ultima nota critica riguarda la tecnica prescelta dal legislatore. L’intervento normativo in commento, nella parte in cui estende l’applicazione dell’art. 125 CPA a nuove fattispecie, sceglie la modalità redazionale del rinvio formale alla fonte di disciplina generale del processo. Non modifica, dall’interno, il codice del processo.
Forse ci sono ragioni “formali”, legate alla oggettiva difficoltà di descrivere correttamente l’ambito delle nuove fattispecie e di distinguere tra le ipotesi di applicazione integrale dell’art. 125 (ma, a voler essere pignoli, il rinvio riguarda solo i commi 2 e 3, e non certo i commi 1 e 4) e i casi di applicazione del solo comma 2.
Tuttavia, la decodificazione di un testo normativo universalmente apprezzato per la sua organicità e completezza, è proprio il contrario di quello che qualsiasi intervento di semplificazione, anche non epocale, esige.
Almeno sul piano del linguaggio normativo si poteva tenere fermo quello che è l’esempio più collaudato di corretta tecnica di redazione normativa: il codice.
 
Marco Lipari
 
Presidente di Sezione del Consiglio di Stato
 
Pubblicato il 22 ottobre 2020
 

[1] Legge 11 settembre 2020, n. 120, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 228 del 14 settembre, S.O. n. 33, in vigore dal giorno successivo.
 
[2] Il testo dell’art. 4 del decreto legge originario è il seguente.
Conclusione dei contratti pubblici e ricorsi giurisdizionali
1. (…)
2. In caso di impugnazione degli atti relativi alle procedure di affidamento di cui agli articoli 1 e 2, comma 2, del presente decreto, qualora rientranti nell’ambito applicativo dell’articolo 119, comma 1, lettera a), del codice del processo amministrativo, approvato con il decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104, si applica l’articolo 125, comma 2, del medesimo codice.
3. In caso di impugnazione degli atti relativi alle procedure di affidamento di cui all’articolo 2, comma 3, si applica l’articolo 125 del codice del processo amministrativo, approvato con il decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104.
4. All’articolo 120 del codice del processo amministrativo, sono apportate le seguenti modificazioni:
a) al comma 6, primo periodo, le parole “, ferma la possibilità della sua definizione immediata nell’udienza cautelare ove ne ricorrano i presupposti,” sono sostituite dalle seguenti: “è di norma definito, anche in deroga al comma 1, primo periodo dell’articolo 74, in esito all’udienza cautelare ai sensi dell’articolo 60, ove ne ricorrano i presupposti, e, in mancanza,”;
b) al comma 9, le parole “Il Tribunale amministrativo regionale” sono sostituite dalle seguenti: “Il giudice” e quelle da “entro trenta” fino a “due giorni dall’udienza” sono sostituite dalle seguenti: “entro quindici giorni dall’udienza di discussione. Quando la stesura della motivazione è particolarmente complessa, il giudice pubblica il dispositivo nel termine di cui al primo periodo, indicando anche le domande eventualmente accolte e le misure per darvi attuazione, e comunque deposita la sentenza entro trenta giorni dall’udienza.”.
 
La legge di conversione ha modificato il comma 4, lettera a), nel seguente modo: le parole: «è di norma definito» sono sostituite dalle seguenti: « , qualora le parti richiedano congiuntamente di limitare la decisione all’esame di un’unica questione, nonché in ogni altro caso compatibilmente con le esigenze di difesa di tutte le parti in relazione alla complessità della causa, è di norma definito ».
 
Gli articoli del decreto legge richiamati concernono, rispettivamente:
  • Le nuove procedure per gli investimenti strategici sotto e sopra soglia (art. 1 e 2, comma 2),
  • Le procedure per gli investimenti strategici sopra soglia affidate con procedura negoziata (art. 1, comma 3).
Lo schema originario, invece, ipotizzava una distinzione diversa, prevedendo una disciplina specialissima, consistente nell’integrale estensione dell’art. 125 CPA per particolari opere di interesse nazionale, individuate con appositi DPCM.
 
[3] La differenza di maggiore rilievo tra il teso ufficioso e quello del decreto legge riguarda l’ambito di applicazione della nuova disciplina limitatrice della pronuncia di inefficacia del contratto.
 
[4] M. Lipari, La proposta di modifica del rito appalti: complicazioni e decodificazioni senza utilità? Focus del 03 luglio 2020, in L’Amministrativista, Focus del 3 luglio 2020.
 
[5] Questo il testo del documento approvato all’unanimità nella seduta straordinaria del 7 agosto 2020, inviato ai Presidenti delle Camere e al Presidente del Consiglio dei Ministri.
Il Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa:
– preso atto del DL 76/2020 e, in particolare, delle norme relative al processo amministrativo in materia di appalti;
– nell’esprimere, innanzitutto, il proprio rammarico per il fatto che il Governo, ancora una volta e in spregio al disposto dell’art. 1 del R.D.L. n. 273 del 1939, non abbia ritenuto di interpellare l’Organo di autogoverno prima della stesura di un testo che incide pesantemente sull’organizzazione della Giustizia Amministrativa e sulla qualità e sull’efficienza del servizio giustizia;
– rileva, comunque, sul piano del merito, che attualmente i tempi di definizione dei giudizi in materia di affidamento di opere, servizi e forniture sono straordinariamente celeri tanto che è possibile ottenere una sentenza definitiva in due gradi in meno di un anno e una pronuncia cautelare in trenta giorni; sicché è ormai generalmente riconosciuto, anche dal mondo delle imprese, che i ricorsi in materia di appalti non sono causa del ritardo nella realizzazione delle opere pubbliche. Pertanto non si comprendono le reali ragioni dell’intervento normativo che corre il rischio, se applicato letteralmente, di pregiudicare le garanzie di difesa dei cittadini e delle imprese e rimettere il controllo di legalità esclusivamente alla sede penale;
CHIEDE
la soppressione delle modifiche all’art. 120 c.p.a. e auspica, anche alla luce di quanto disposto dal R.D. L. n. 273 del 1939, una sollecita interlocuzione con il Parlamento.
 
[6] Come si chiarirà oltre, la disciplina riguarda sia il giudizio di primo grado sia quelli di impugnazione dinanzi al TAR e al Consiglio di Stato.
[7] In sintesi, sono le ipotesi in cui le stazioni appaltanti procedono all’affidamento delle attività di esecuzione di lavori, servizi e forniture nonché dei servizi di ingegneria e architettura, inclusa l’attività di progettazione, di importo pari o superiore alle soglie di cui all’articolo 35 del decreto legislativo 18 aprile 2016 n. 50, mediante la procedura aperta, ristretta o, previa motivazione sulla sussistenza dei presupposti previsti dalla legge, la procedura competitiva con negoziazione di cui agli articoli 61 e 62 del decreto legislativo n. 50 del 2016 o il dialogo competitivo di cui all’articolo 64 del decreto legislativo n. 50 del 2016, per i settori ordinari, e di cui agli articoli 123 e 124, per i settori speciali.
 
[8]2. In sede di pronuncia del provvedimento cautelare, si tiene conto delle probabili conseguenze del provvedimento stesso per tutti gli interessi che possono essere lesi, nonché del preminente interesse nazionale alla sollecita realizzazione dell’opera, e, ai fini dell’accoglimento della domanda cautelare, si valuta anche la irreparabilità del pregiudizio per il ricorrente, il cui interesse va comunque comparato con quello del soggetto aggiudicatore alla celere prosecuzione delle procedure.
 
[9]8 ter. Nella decisione cautelare, il giudice tiene conto di quanto previsto dagli articoli 121, comma 1, e 122, e delle esigenze imperative connesse ad un interesse generale all’esecuzione del contratto, dandone conto nella motivazione.
 
[10] Sia consentito rinviare a Lipari M. La nuova tutela cautelare degli interessi legittimi: il ‘rito appalti’ e le esigenze imperative di interesse generale, ove ulteriori citazioni.
 
[11] Un’ulteriore previsione di notevole rilievo, riguardante la tutela cautelare speciale, è rappresentata dall’art. 9, comma 2-sexies, d.l. 12 settembre 2014 n. 133, nel testo risultante dalla legge di conversione 11 novembre 2014 n. 164. Si tratta di una normativa che concerne il settore dei contratti pubblici di lavori, senza investire, nel suo complesso, l’intero rito di cui all’art. 120 CPA.
Secondo la disposizione, “Costituiscono esigenze imperative connesse a un interesse generale ai sensi dell’articolo 121, comma 2, del codice del processo amministrativo, di cui all’allegato 1 al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104, quelle funzionali alla tutela dell’incolumità pubblica. Nei casi di procedure ad evidenza pubblica avviate o da avviarsi, in quelli conseguenti alla redazione di verbale di somma urgenza per interventi conseguenti alla dichiarazione dello stato di emergenza, nonché nei casi di cui al comma 1 del presente articolo 43, il tribunale amministrativo regionale, nel valutare l’istanza cautelare, può accoglierla unicamente nel caso in cui i requisiti di estrema gravità e urgenza previsti dall’articolo 119, comma 4, del citato codice di cui all’allegato 1 al decreto legislativo n. 104 del 2010 siano ritenuti prevalenti rispetto alle esigenze di incolumità pubblica evidenziate dalla stazione appaltante.”
 
[12] L’art. 2, comma 3 determina i casi specialissimi in cui è ammesso il ricorso alla procedura negoziata.
“La procedura negoziata di cui all’articolo 63 del decreto legislativo n. 50 del 2016, per i settori ordinari, e di cui all’articolo 125, per i settori speciali, può essere utilizzata, previa pubblicazione dell’avviso di indizione della gara o di altro atto equivalente, nel rispetto di un criterio di rotazione, nella misura strettamente necessaria quando, per ragioni di estrema urgenza derivanti dagli effetti negativi della crisi causata dalla pandemia da COVID-19 o dal periodo di sospensione delle attività determinato dalle misure di contenimento adottate per fronteggiare la crisi, i termini, anche abbreviati, previsti dalle procedure ordinarie non possono essere rispettati. La procedura negoziata di cui all’articolo 63 del decreto legislativo n. 50 del 2016, per i settori ordinari, e di cui all’articolo 125, per i settori speciali, può essere utilizzata altresì per l’affidamento delle attività di esecuzione di lavori, servizi e forniture di importo pari o superiore alle soglie di cui all’articolo 35 del decreto legislativo n. 50 del 2016, anche in caso di singoli operatori economici con sede operativa collocata in aree di preesistente crisi industriale complessa ai sensi dell’articolo 27 del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 134, che, con riferimento a dette aree ed anteriormente alla dichiarazione dello stato di emergenza sanitaria da COVID-19 del 31 gennaio 2020, abbiano stipulato con le pubbliche amministrazioni competenti un accordo di programma ai sensi dell’articolo 252-bis del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152.”
[13] Sul piano strettamente formale, l’estensione prevista dovrebbe circoscriversi ai soli commi 2 e 3, dal momento che i commi 1 e 4 indicano le fattispecie soggette alle regole dell’art. 125 del CPA. È un’imperfezione esteriore innocua, ovviamente, che tradisce, però, la probabile fretta del legislatore e l’impostazione decodificante, che, invece, va decisamente stigmatizzata.
 
[14] 3. Ferma restando l’applicazione degli articoli 121 e 123, al di fuori dei casi in essi contemplati la sospensione o l’annullamento dell’affidamento non comporta la caducazione del contratto già stipulato, e il risarcimento del danno eventualmente dovuto avviene solo per equivalente. Si applica l’articolo 34, comma 3.
 
1. Il giudice che annulla l’aggiudicazione definitiva dichiara l’inefficacia del contratto nei seguenti casi, precisando in funzione delle deduzioni delle parti e della valutazione della gravità della condotta della stazione appaltante e della situazione di fatto, se la declaratoria di inefficacia è limitata alle prestazioni ancora da eseguire alla data della pubblicazione del dispositivo o opera in via retroattiva:
a) se l’aggiudicazione definitiva è avvenuta senza previa pubblicazione del bando o avviso con cui si indice una gara nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea o nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana, quando tale pubblicazione è prescritta dal decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163[15];
b) se l’aggiudicazione definitiva è avvenuta con procedura negoziata senza bando o con affidamento in economia fuori dai casi consentiti e questo abbia determinato l’omissione della pubblicità del bando o avviso con cui si indice una gara nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea o nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana, quando tale pubblicazione è prescritta dal decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163[15];
c) se il contratto è stato stipulato senza rispettare il termine dilatorio stabilito dall’articolo 11, comma 10, del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, qualora tale violazione abbia privato il ricorrente della possibilità di avvalersi di mezzi di ricorso prima della stipulazione del contratto e sempre che tale violazione, aggiungendosi a vizi propri dell’aggiudicazione definitiva, abbia influito sulle possibilità del ricorrente di ottenere l’affidamento[15];
d) se il contratto è stato stipulato senza rispettare la sospensione obbligatoria del termine per la stipulazione derivante dalla proposizione del ricorso giurisdizionale avverso l’aggiudicazione definitiva, ai sensi dell’articolo 11, comma 10-ter, del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, qualora tale violazione, aggiungendosi a vizi propri dell’aggiudicazione definitiva, abbia influito sulle possibilità del ricorrente di ottenere l’affidamento[15].
2. Il contratto resta efficace, anche in presenza delle violazioni di cui al comma 1 qualora venga accertato che il rispetto di esigenze imperative connesse ad un interesse generale imponga che i suoi effetti siano mantenuti. Tra le esigenze imperative rientrano, fra l’altro, quelle imprescindibili di carattere tecnico o di altro tipo, tali da rendere evidente che i residui obblighi contrattuali possono essere rispettati solo dall’esecutore attuale. Gli interessi economici possono essere presi in considerazione come esigenze imperative solo in circostanze eccezionali in cui l’inefficacia del contratto conduce a conseguenze sproporzionate, avuto anche riguardo all’eventuale mancata proposizione della domanda di subentro nel contratto nei casi in cui il vizio dell’aggiudicazione non comporta l’obbligo di rinnovare la gara. Non costituiscono esigenze imperative gli interessi economici legati direttamente al contratto, che comprendono fra l’altro i costi derivanti dal ritardo nell’esecuzione del contratto stesso, dalla necessità di indire una nuova procedura di aggiudicazione, dal cambio dell’operatore economico e dagli obblighi di legge risultanti dalla dichiarazione di inefficacia.
 
[16] La decisione della Corte costituzionale n. 160/2019 afferma a chiare lettere che la Costituzione non impone l’indefettibilità della tutela demolitoria.
Tuttavia, la Corte sottolinea che l’esclusione della pienezza della tutela deve pur sempre collegarsi alla protezione di interessi qualificati. È il caso della peculiarità e originarietà dell’ordinamento sportivo.
In queste coordinate ermeneutiche è davvero difficile ammettere che la scelta politico amministrativa di inserire un’opera tra quelle di interesse nazionale possa, da sola, giustificare una così vistosa limitazione di tutela.
[17] Il decreto legge introduce una sorta di scudo, che temporaneamente, limita la responsabilità erariale ai soli casi di dolo. Ma la disposizione è oggetto di forti riserve e potrebbe esser stralciata nel testo definitivo.
[18] Anche la modifica portata dal decreto correttivo n. 195/2011 alla lettera c) del comma 4 non riguardava l’estensione del suo perimetro applicativo, ma costituiva una correzione formale del testo.
[19] Nelle primissime applicazioni della norma, la Terza Sezione ha proceduto verbalizzando l’avvertenza che la decisione sarebbe stata limitata all’esame dell’istanza cautelare della decisione appellata.
[20] Questa è la prassi avviata dalla Terza Sezione: in modo sintetico, l’ordinanza cautelare indica che il collegio non ha ravvisato le condizioni per decidere il ricorso nel merito.
[21] Si è chiarito, infatti, che presupposti della sentenza in forma semplificata sono la completezza del contraddittorio (cioè la rituale notifica del ricorso e il rispetto del termine per la discussione sull’istanza incidentale), la completezza dell’istruttoria, l’avviso alle parti, ma l’esigenza e l’opportunità della sollecita decisione nel merito di una causa è da intendersi rimessa al prudente apprezzamento del giudice e non alla volontà delle parti, alle quali è stato riconosciuto il diritto di essere avvertite dell’intenzione del giudice (di decidere immediatamente nel merito la causa) al fine precipuo di non esaurire le loro difese sul piano della misura cautelare incidentalmente richiesta e di sviluppare pertanto le proprie argomentazione difensive anche nel merito; di conseguenza, la censura proposta contro la sentenza di primo grado, con cui si denuncia la carenza dei presupposti per la pronuncia in forma semplificata all’esito della camera di consiglio fissata per la trattazione dell’incidente cautelare, oltre ad essere inammissibile se le parti, espressamente informate dell’intenzione del collegio giudicate di definire immediatamente nel merito la causa, nulla hanno obiettato, è anche infondata nel merito, atteso che la doglianza si sostanzia in una censura di difetto di motivazione della sentenza impugnata che non rileva nel giudizio di appello, giacché l’effetto devolutivo di quest’ultimo consente al giudice di appello di provvedere sulle domande, eventualmente integrando la motivazione mancante.
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza n. 4244 del 5 luglio 2010)
 
 
[22] Pubblicate su l’Amministrativista, con News di Alessandra Coiante, Il CdS a difesa dell’effettività della tutela nel rito appalti: difficoltà applicative della nuova disciplina processuale nel decreto semplificazioni.
 
[23]La disposizione al comma 4 apporta modificazioni all’articolo 120 del codice del processo amministrativo, di cui al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104, e specificamente abroga i commi 2-bis e 6-bis, e apporta modificazioni ai commi 5, 7, 9 e 11.
La disposizione è volta a sopprimere il cosiddetto rito super accelerato che attualmente pende in Corte costituzionale e che è risultata, anche a seguito della consultazione pubblica effettuata dal Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, una norma che rischia di comprimere il diritto di difesa ex articolo 24 della Costituzione, prevedendo ulteriori oneri in capo alle imprese e che di fatto non sembra aver raggiunto il risultato di accelerare le procedure di affidamento dei contratti pubblici.
La norma al comma 5 stabilisce che le disposizioni di cui al comma 4 si applicano ai processi iniziati dopo la data di entrata in vigore del decreto-legge.”
[24] 9. Il Tribunale amministrativo regionale deposita la sentenza con la quale definisce il giudizio entro trenta giorni dall’udienza di discussione; le parti possono chiedere l’anticipata pubblicazione del dispositivo, che avviene entro due giorni dall’udienza.
[25] Art. 34, comma 1, lettera e): “dispone le misure idonee ad assicurare l’attuazione del giudicato e delle pronunce non sospese, compresa la nomina di un commissario ad acta, che può avvenire anche in sede di cognizione con effetto dalla scadenza di un termine assegnato per l’ottemperanza.”
 
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