15/10/2020 – Sul concetto di unitarietà dell’immobile ai fini del condono edilizio

Sul concetto di unitarietà dell’immobile ai fini del condono edilizio
di Giuseppe Cassano – Direttore del Dipartimento di Scienze Giuridiche della European School Of Economics
 
Oggetto di intervento del Consiglio di Stato, nella sentenza in esame, è il condono edilizio avuto particolare riguardo alla identificazione dell’opera.
In primis si consideri che la natura procedurale del condono edilizio è eccezionale e straordinaria rispetto alla ordinaria disciplina edilizia e urbanistica: il Comune deve istruire il procedimento nei modi e termini specificatamente previsti dalla legge (art. 35, comma 12, L. n. 47/1985 in relazione all’art. 39, comma 4, L. n. 724/1994); l’interessato al buon esito della pratica deve, a sua volta, assolvere all’onere d’individuare nel dettaglio tipo, la consistenza materiale riferita al singolo immobile dell’illecito edilizio, e, in aggiunta, non restare inerte di fronte alle doverose istanze d’integrazione recapitategli dal Comune (Cons. Stato, sez. VI, 13 giugno 2019, n. 3634).
Si consideri anche che la giurisprudenza ha sottolineato la differente natura giuridica dell’istanza di sanatoria (anche detta richiesta di accertamento della cd. doppia conformità ex art. 36D.P.R. n. 380 del 2001) rispetto alla domanda di condono edilizio di cui alle Leggi n. 47 del 1985n. 724 del 1994 e n. 326 del 2003.
Precisamente, dalla presentazione della domanda di accertamento di conformità ex art. 36 cit. non possono trarsi le medesime conseguenze della domanda di condono poiché i presupposti dei due procedimenti di sanatoria – quello di condono edilizio e quello di accertamento di conformità urbanistica – sono non solo diversi ma anche antitetici, atteso che l’uno (il condono edilizio) concerne il perdono ex lege per la realizzazione sine titulo abilitativo di un manufatto in contrasto con le prescrizioni urbanistiche (violazione sostanziale) l’altro (quello di sanatoria ex art. 13 L. n. 47 del 1985 ed oggi ex art. 36 cit.) l’accertamento ex post della conformità dell’intervento edilizio realizzato senza preventivo titolo abilitativo agli strumenti urbanistici (violazione formale) (T.a.r. Lazio, Roma, sez. I quater, 11 gennaio 2011, n. 124T.a.r., Campania Napoli, sez. VI, 3 settembre 2010, n. 17282).
Pertanto, alla fattispecie dell’accertamento di conformità non può applicarsi la sospensione dei procedimenti sanzionatori prevista per i condoni a partire dall’art. 44 della L. n. 47/1985, come richiamato dalle successive disposizioni di cui all’art. 39L. n. 724/1994 e dell’art. 32 della L. n. 326/2003 (T.a.r. Lazio, Roma, sez. I quater, 2 marzo 2012, n. 2165Cons. Stato, sez. IV, 11 settembre 2017, n. 4269).
Orbene, ciò premesso in termini generale, e venendo più da vicino a quanto affermato in sentenza da parte dell’adito Collegio di Palazzo Spada, l’opera abusiva deve essere identificata con riferimento all’immobile (o al complesso immobiliare) unitariamente inteso, nell’ipotesi in cui sia stato posto in essere dando esecuzione ad un unico disegno progettuale, non assumendo così alcun rilievo una eventuale suddivisione in diversi moduli abitativi (Con. Stato, sez. V, 3 marzo 2001, n. 1229), e non essendo consentita la presentazione di distinte domande per aggirare il limite di volumetria normativamente previsto (v. in tal senso Corte Cost., 23 luglio 1996, n. 302 secondo cui, espressamente: «uno stesso soggetto legittimato non può utilizzare separate domande di sanatoria per aggirare il limite di volumetria previsto dall’art. 39, comma 1, L. n. 724 del 1994, dovendosi, in tal caso, necessariamente unificare le richieste quando si tratti della medesima nuova costruzione da considerarsi in senso unitario»).
Si vuol dire, cioè, che l’unitaria consistenza morfologica e strutturale di un fabbricato comporto da più unità abitative, quando realizzato ex novo abusivamente, non è suscettibile di essere “cartolarmente” frazionata mediante la presentazione di distinte domande di condono per ciascun appartamento da esaminarsi singolarmente in tempi (magari) diversi modulati sulla scansione delle diverse leggi sul condono succedutesi a partire dalla L. n. 47/1985, cui ha fatto seguito, come noto, la L. n. 724/1994 per giungere, infine, alla L. n. 326/2003 (T.a.r. Lombardia Milano, sez. II, 6 aprile 2020, n. 597Cons. Stato, sez. II, 30 maggio 2019, n. 3612Cons. Stato, sez. II, 30 maggio 2019, n. 3611T.a.r. Lazio, Roma, sez. II bis, 4 febbraio 2019, n. 1425).
In definitiva, il limite di volumetria previsto dalla legge sul condono per poter fruire del beneficio è assoluto ed inderogabile e, quindi, non suscettibile d’elusione mediante la presentazione di domande separate che, ancorché riferite a singole unità abitative catastalmente distinte, abbiano comunque ad oggetto l’unico edificio realizzato senza titolo edilizio di cui esse – nonostante il frazionamento catastale – fanno parte.
Si veda Cons. Stato, sez. IV, 12 giugno 2014, n. 2995 secondo cui deve ritenersi illegittimo l’inoltro di diverse domande tutte imputabili ad un unico centro sostanziale di interesse, in quanto tale espediente rappresenta un evidente (e ricorrente) tentativo di aggirare i limiti consentiti per il condono relativamente al calcolo della volumetria consentita (pena, altrimenti, la violazione del principio di uguaglianza).
Non è dunque ammissibile il condono al di sopra del limite legale in caso di mutamento di destinazione di un fabbricato a mezzo della realizzazione delle opere quando la richiesta di sanatoria sia stata presentata frazionando artatamente l’unità immobiliare in plurimi interventi edilizi da parte dei diversi soci di una medesima società, essendo in tal caso evidente la riconducibilità delle domande ad un’unica finalità.
Precisa, da parte sua, la giurisprudenza penale: «in materia di condono edilizio disciplinato dalla L. 24 novembre 1994, n. 724, ai fini della individuazione dei limiti stabiliti per la concedibilità della sanatoria, ogni edificio va inteso quale complesso unitario, qualora faccia capo ad un unico soggetto legittimato alla proposizione della domanda di condono, con la conseguenza che le eventuali singole istanze presentate in relazione alle separate unità che compongono tale edificio devono riferirsi ad un’unica concessione in sanatoria, onde evitare l’elusione del limite legale di consistenza dell’opera. Qualora, invece, per effetto della suddivisione della costruzione o della limitazione quantitativa del titolo abilitante la presentazione della domanda di sanatoria, vi siano più soggetti legittimati, è possibile proporre istanze separate relative ad un medesimo immobile (tra le più recenti, Cass., Sez. 3, n. 44596 del 20/05/2016, Boccia, Rv. 269280-01 e n. 27977 del 04/04/2019, Caputo, Rv. 276084)» (Cass. pen., sez. III, 1 settembre 2020, n. 24607).
Quanto all’interesse pubblico sotteso al conseguente provvedimento (cioè di diniego di condono), in disparte la considerazione che oggetto di cognizione da parte del Giudice è il diniego di condono e non già un provvedimento repressivo dell’abuso, è jus receptum che l’abusività delle opere ed il contrasto insanabile con la normativa edilizia costituiscono motivazione sufficiente ad adottare il diniego di condono, il quale non necessita di una particolare e specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati.
Tale precisazione sull’onere motivazionale offre il destro per precisare che ogni tutela dell’affidamento alla conservazione della res abusiva è recessiva a fronte della necessità del ripristino, oltre che della legalità violata, dell’assetto edilizio compromesso da un manufatto abusivo.
A riguardo, va richiamato l’indirizzo dettato dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato nella sentenza n. 9/2017 a mente del quale «il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell’abuso. Il principio in questione non ammette deroghe neppure nell’ipotesi in cui l’ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell’abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell’abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell’onere di ripristino» (v. anche Cons. Stato, sez. VI, 25 maggio 2020, n. 3304)

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