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Non persuade la “nota operativa“, con la quale l’Anci ritiene che il Dpcm3.11.2020 abbia portato alla riespansione dell’esenzione dal servizio dei dipendenti dei comuni nelle zone rosse, che non possano essere disposti in lavoro agile o adibiti a funzioni indifferibili, da espletare necessariamente in presenza.

 Ricordiamolo: l’esenzione dal servizio implica che i dipendenti siano sospesi dalla prestazione lavorativa. E’, sostanzialmente, quel che accade con la cassa integrazione esattamente in questo periodo. Le imprese messe fuorigioco dall’emergenza Covid-19 interrompono il ciclo produttivo e, conseguentemente, sospendono l’attività lavorativa. La conseguenza è la sospensione anche delle obbligazioni a carico del lavoratore, che quindi non svolge per nulla (se la cassa integrazione è a zero ore) o svolge in modo limitato la prestazione. Sicchè, per le ore non lavorate, la retribuzione è sostituita dall’indennità di cassa integrazione. Che tendenzialmente è pari all’80% della retribuzione che il dipendente avrebbe percepito per le ore di lavoro non prestate tra le zero ore ed il limite dell’orario contrattuale e comunque non oltre le 40 ore settimanali.

Cosa diversa, però, è l’esenzione dal servizio. Infatti, ai sensi dell’articolo 87, comma 3, del d.l. 18/2020, convertito in legge 27/2020 “…Il periodo di esenzione dal servizio costituisce servizio prestato a tutti gli effetti di legge…”.

Ci si sarebbe aspettati che, in primavera, quando era operante tale norma, la sospensione dell’attività lavorativa determinasse inevitabili conseguenze. Sarebbe apparo logico che siccome il lavoratore non svolge prestazioni lavorative, il trattamento economico si sarebbe dovuto limitare al fondamentale: tabellare, indennità integrativa speciale per chi spetta, indennità di anzianità per chi spetta, posizione economica e indennità di comparto. Senza nessun’altra indennità e con inevitabili riflessi anche sulla valutazione ai fini del risultato, per determinare il salario accessorio. Infatti, il restante trattamento accessorio, come tutte le indennità connesse alle “condizioni di lavoro” (rischio, disagio, maneggio lavori), reperibilità, servizio esterno, particolari responsabilità, indennità per formatori ed educatori, turno, in assenza di attività lavorativa, non potrebbero spettare. La mancata effettuazione delle prestazioni, infatti, scinde il rapporto sinallagmatico che permette al datore di retribuire lecitamente il lavoratore anche con gli strumenti del salario accessorio.

Tuttavia, la Funzione Pubblica ha espresso un avviso totalmente opposto. Prima con le Faq:

“L’esenzione dal servizio incide negativamente sull’assiduità partecipativa ai fini dell’erogazione del trattamento accessorio e della valutazione?

La risposta è no, a fronte dell’art. 87, comma 3, d.l. 18/2020 che dispone che “il periodo  di  esenzione  dal  servizio costituisce  servizio  prestato  a  tutti  gli  effetti  di  legge  e l’amministrazione non corrisponde l’indennità sostitutiva di  mensa, ove prevista””.

Poi, con la circolare 2/2020: “Con riguardo all’istituto dell’esenzione di cui al comma 3, si sottolinea che – solo dopo aver verificato la non praticabilità delle soluzioni alternative individuate dal medesimo comma: lavoro agile, ferie pregresse, congedo, banca ore, rotazione, analoghi istituti – è possibile prevedere, come extrema ratio e pur sempre in casi puntuali, di esentare il personale dipendente, con equiparazione del periodo di esenzione al servizio prestato a tutti gli effetti di legge e, quindi, senza ripercussioni sulla loro retribuzione e senza che l’istituto incida negativamente ai fini della valutazione e dell’erogazione del trattamento accessorio”. 

Mentre il resto del mondo del lavoro che subisca una sospensione dell’attività subisce, quindi, un contenimento nella busta paga, per i lavoratori pubblici esentati si è stabilito, invece, che la loro retribuzione sarebbe stata piena, al 100%, anche ai fini della valutazione.

Non c’è da meravigliarsi, poi, se, finendo anche per generalizzare, sui media, tra gli economisti e gli operatori (anche a causa dell’assenza di dati sulla quantità di dipendenti pubblici esentati dal servizio) è montata la polemica. Facendo di tutta l’erba un fascio, si è parlato di smart working come comode ferie pagate. 

Di sicuro, la presenza di un istituto come l’esenzione dal servizio non ha aiutato all’immagine del lavoro pubblico ed ha contribuito a fomentare l’astio e la sterile polemica sulle differenze tra “garantiti” e “non garantiti”.

Sta di fatto che il d.l. 34/2020, rivedendo a fondo proprio la disciplina del lavoro agile ha disapplicato espressamente l’articolo 87, comma 1, lettera a), del d.l. 18/2020, ai sensi del quale le pubbliche amministrazioni, allo scopo di contrastare l’espansione della pandemia, erano chiamate a limitare “limitano la presenza del personale  nei  luoghi  di  lavoro  per assicurare esclusivamente le attività che ritengono indifferibili  e che richiedono necessariamente tale presenza, anche in ragione  della gestione dell’emergenza”. Questa disposizione, oggi disapplicata, era l’altra faccia della qualificazione del lavoro agile come “forma ordinaria” e “unica” di gestione del rapporto di lavoro, per i dipendenti non impiegati nelle attività indifferibili da rendere in presenza.

Il d.l. 34/2020, all’articolo 263 e successive modifiche, non qualifica più il lavoro ordinario come unica “forma ordinaria” di lavoro, ma lo indica come una delle possibili “forme ordinarie” di lavoro.

Da qui, la necessaria conseguenza tratta dalla circolare della Funzione Pubblica 3/2020: l’impossibilità di utilizzare ulteriormente l’istituto dell’esenzione dal servizio, a partire dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del d.l. 34/2020, cioè la legge 77/2020, e dunque dal 19 luglio 2020.

L’Anci, adesso, in conseguenza del Dpcm 3.11.2020 ritiene che l’istituto possa tornare ad essere applicato, perchè le disposizioni ivi previste nelle zone rosse sono “potenzialmente impositive dell’assenza dal servizio per effetto delle misure di sospensione straordinaria direttamente portate dal decreto, o per effetto della rideterminazione delle attività indifferibili nelle zone ad elevato rischio da ciascuna amministrazione”.

L’articolo 3, comma 4, lettera i), del Dpcm dispone che “i datori di lavoro pubblici limitano la presenza del personale nei luoghi di lavoro per assicurare esclusivamente le  attività  che ritengono  indifferibili  e che richiedono necessariamente tale presenza, anche in ragione della gestione dell’emergenza; il personale non in presenza presta la propria attività lavorativa in modalità agile”.

Basta questa previsione a determinare la nuova produzione di efficacia del comma 3 dell’articolo 87 del d.l. 18/2020, facendo rivivere l’esenzione dal servizio, a stipendio pieno?

Secondo l’Anci, il richiamo contenuto nel medesimo comma 3 dell’articolo 87 ai “periodi di assenza dal servizio dei dipendenti delle amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n.165, imposti dai provvedimenti di contenimento del fenomeno epidemiologico da COVID-19, adottati nella vigenza dell’articolo 3,comma 1, del decreto-legge 23 febbraio 2020, n. 6, convertito, con modificazioni, dalla legge 5 marzo 2020, n. 13, e dell’articolo 2,comma 1, del decreto-legge 25 marzo 2020, n. 19”. L’imposizione dell’assenza, implica prima l’utilizzo di istituti che diano titolo ad assenze dal servizio retribuite (ferie, congedi, banca delle ore, permessi, recuperi di eventuali straordinari. Per poi tornare, esauriti questi strumenti (che a fine anno difficilmente possono essere in quantità congrua), appunto all’esenzione dal servizio.

Altra argomentazione: il comma 3 dell’articolo 87 non è stato espressamente abrogato. Partiamo da qui. L’Anci e troppi interpreti molte volte elaborano interpretazioni alla luce di una carenza di abrogazione esplicita di certe norme. E’ una motivazione spesso falsa e inadeguata, perchè non può non essere noto che l’abrogazione delle norme può anche essere tacita. Dunque, l’assenza di un’abrogazione espressa non può mai essere indice di una sua attuale efficacia, in un sistema ordinamentale che abbia innovato la materia di cui si occupa la norma che interessa.

Sta di fatto che il comma 3 dell’articolo 87 si regge solo se il lavoro agile è l’unica forma ordinaria di lavoro, situazione che non è più prevista.

Il Dpcm 3.11.2020 pare, in effetti, porre solo due alternative: o adibire i dipendenti alle attività indifferibili da rendere in presenza, oppure al lavoro agile. Sta già prendendo piede un’alternativa: senza esentare dal servizio i dipendenti le cui mansioni non siano immediatamente idonee nè all’una, nè all’altra modalità organizzativa del lavoro, inserirli in percorsi di aggiornamento e formazione, così da accompagnarli proprio ad un cambio di mansioni che consenta l’impiego o nelle funzioni indifferibili, o in attività di lavoro agile.

E’ un’alternativa saggia, a condizione che la formazione non si traduca in un’esenzione dal servizio mascherata.

Un’altra possibilità potrebbe consistere nel riorganizzare al volo l’orario dei servizi pubblici sospesi, in modo da renderlo “multiperiodale”, cioè riducendo l’orario nella fase di riduzione dell’attività lavorativa, per riespanderlo quando sarà possibile la riapertura, anche qui a condizione che non si tratti di un’elusione.

In assenza di queste due possibili alternative, pare proprio che il ricorso all’esenzione dal servizio, se non espressamente ridefinito da una norma che lo sganci dal lavoro agile intesto quale unica modalità ordinaria di organizzazione del lavoro, comporti rischi evidenti di danno erariale e l’obbligo di definire con estrema cura le attività indifferibili ed in lavoro agile, in modo da assicurare l’adibizione ad esse di tutto il personale, senza eccezione alcuna, senza alcuna esenzione dal servizio.

Anche perchè, più del rischio di danno erariale, a guidare le decisioni dovrebbe essere, piuttosto, la certezza del danno gravissimo e quasi irreparabile di immagine, derivante dal perpetuare una misura, l’esenzione a stipendio pieno, mentre il mondo del lavoro sconta inevitabili conseguenze economiche in connessione alla riduzione o all’azzeramento dell’attività lavorativa.

 

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