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Con il Dpcm del 3 novembre, operativo dal 6, le Pa nelle regioni ad alto rischio tornano alla casella di partenza rappresentata dalle regole previste per il primo lockdown: solo le attività indifferibili che richiedono la presenza in servizio possono evitare il lavoro agile. Tutti gli altri dipendenti devono svolgere la prestazione lavorativa in smart-working. Il testo dell’articolo 87, comma 1, lettera a), del Dl 18/2020, vigente fino a metà settembre, è identico all’articolo 4, comma 4, lettera i) dell’ultimo Dpcm.

Non è stata però riproposta la norma, contenuta nell’articolo 87, comma 2 del Dl 18/2020, che equiparava alla presenza in servizio l’assenza dei dipendenti addetti ad attività non indifferibili e non smartizzabili (come per i lavori manuali) una volta esaurite ferie, congedi e banca ore. La situazione è aggravata dal fatto che le ferie sono già state consumate nella prima fase dell’emergenza. È pur vero che il decreto Dadone consente di adibire questo personale ad altre mansioni o di prevedere percorsi formativi, ma per operai o uscieri non è semplice rendere concrete queste previsioni. Salvo nascondersi dietro improbabili corsi da improvvisare.

Sul piano pratico il Dpcm non sospende i termini dei procedimenti amministrativi e lascia aperti i servizi scolastici e i nidi d’infanzia. È impensabile sospendere poi l’assistenza sociale alle fasce deboli della popolazione o bloccare i cantieri in corso. Ne consegue che in questa seconda fase agli enti locali restano ben pochi spazi di manovra.

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