02/11/2020 – NOTA ALLA SENTENZA DEL CONSIGLIO DI STATO N. 6460 DEL 2020 SUI REQUISITI PER L’AFFIDAMENTO IN HOUSE DI UN SERVIZIO PUBBLICO

Con sentenza del 26 ottobre 2020 n. 6460, il Consiglio di Stato (sez. V) ha affrontato la questione della legittimità dell’affidamento diretto del servizio di igiene urbana da parte di un Comune ad una società dal medesimo partecipata unitamente ad altre amministrazioni pubbliche.

La sentenza presenta interessanti spunti di riflessione andando ad esaminare diverse questioni relative all’affidamento in house ed in particolar modo ai requisiti per la legittimità dell’affidamento.

Requisito del controllo analogo

Uno dei requisiti previsti dalla vigente normativa per l’affidamento in house è l’esercizio da parte dell’ente affidante del controllo analogo sulla società affidataria, inteso come un’influenza determinante sia sugli obiettivi strategici che sulle decisioni significative della società (cfr. art. 2 lett. c) del d.lgs 175/2016).

Nella sentenza in commento il Consiglio di Stato si è trovato a verificare, sotto diversi punti di vista, la sussistenza di tale requisito.

1.1. Strumenti per il controllo analogo congiunto

In primo luogo, la questione sottoposta al giudizio del giudice amministrativo riguardava la legittimità degli strumenti predisposti dalla società affidataria ai fini del controllo analogo congiunto ed in particolare la legittimità della costituzione di due organi speciali: il Comitato unitario per il controllo analogo e il Comitato tecnico di controllo per ciascuna Divisione aziendale.

Occorre ricordare che, in caso di società partecipata da più enti pubblici, la giurisprudenza comunitaria ha da tempo sostenuto che il controllo analogo può essere esercitato in forma congiunta (sentenza 13 novembre 2008 nella causa C-324/07 Coditel Brabant SA), attraverso appositi strumenti con cui i soci possono realizzare un’interferenza in maniera penetrante nella gestione della società. Sono stati, in particolare, considerati quali validi strumenti per l’esercizio del controllo analogo congiunto i patti parasociali (vd. sentenza 29 novembre 2012 nelle cause C-182/11 e 183/11 Econord) e gli organi speciali come i Comitati unitari e i Comitati tecnici (vd sentenza 10 settembre 2009 nella causa C-573/07 Sea) a condizione che: a) in essi ogni socio pubblico abbia un proprio rappresentante e che le deliberazioni siano assunte con maggioranze formate per unità e b) che siano previsti poteri di controllo e di gestione tali da restringere l’autonomia decisionale del consiglio di amministrazione imponendo indirizzi e prescrizioni, nonché prevedendo poteri consultivi preventivi.

L’ art. 2 lett. d) del d.lgs 175/2016 cit. identifica il “controllo analogo congiunto” con la situazione in cui l’amministrazione esercita, congiuntamente con altre amministrazioni, un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi, con la precisazione che la suddetta situazione si verifica al ricorrere delle condizioni di cui all’art. 5 comma 5 del d.lgs. 50/2016.

Ai sensi della norma predetta le amministrazioni aggiudicatrici o gli enti aggiudicatori esercitano su una persona giuridica un controllo congiunto quando sono soddisfatte tutte le seguenti condizioni:

a) gli organi decisionali della persona giuridica controllata sono composti da rappresentanti di tutte le amministrazioni aggiudicatrici o enti aggiudicatori partecipanti. Singoli rappresentanti possono rappresentare varie o tutte le amministrazioni aggiudicatrici o enti aggiudicatori partecipanti;

b) tali amministrazioni aggiudicatrici o enti aggiudicatori sono in grado di esercitare congiuntamente un’influenza determinante sugli obiettivi strategici e sulle decisioni significative di detta persona giuridica;

c) la persona giuridica controllata non persegue interessi contrari a quelli delle amministrazioni aggiudicatrici o degli enti aggiudicatori controllanti.

L’art. 16, comma 2, del d.lgs. 175 cit. stabilisce, per le società per azioni, al fine di realizzare l’assetto organizzativo predeterminato ex lege:

– alla lettera a) che si legittimano le clausole statutarie in deroga agli artt. 2380-bis c.c. (amministrazione della società) e 2409-novies c.c. (Consiglio di gestione), che stabiliscono la competenza gestoria esclusiva degli amministratori e del consiglio di gestione, rispettivamente, nel sistema di amministrazione e controllo c.d. tradizionale e in quello dualistico;

– alla lettera c) che si amplia la possibilità di fare ricorso a patti parasociali che hanno per oggetto o per effetto l’esercizio anche congiunto di un’influenza dominante sulla società ex art. 2341-bis c.c., rimuovendo il limite di durata quinquennale nelle s.p.a.

Il controllo analogo presuppone, dunque, la “condivisione” del potere di eterodirezione o, più precisamente, l’esercizio “congiunto” dell’“influenza determinante sia sugli obiettivi strategici che sulle decisioni significative della società controllata” (art. 2, lett. c e d d.lgs 175/16).

Il modello dell’in house providing congiunto o frazionato richiede, allora, che a livello statutario siano indicati gli istituti giuridici (di diritto privato) idonei a garantire che ciascun Ente, insieme a tutti gli altri soci della società in house, sia effettivamente in grado di controllare ed orientare l’attività della società controllata, e che abbia la possibilità di influenzare concretamente ed in maniera determinante sia gli obiettivi strategici che le decisioni importanti della società, nonché di determinare la dipendenza dell’affidatario diretto in tema di strategie e politiche aziendali per quanto concerne ogni aspetto della organizzazione e gestione del servizio del proprio territorio di riferimento.

Il Consiglio di Stato, nella sentenza in commento, ha ritenuto che, al fine di realizzare il controllo analogo, lo statuto di una società in house pluripartecipata può assegnare il potere gestorio ad organi assembleari diversi dal consiglio di amministrazione configurando, così, un peculiare sistema di amministrazione e controllo della società in house, nel quale gli amministratori sono privi di poteri decisionali propri, che derivano, invece, da altri organi della società, e che, comunque, non esercitano in piena autonomia rispetto ad essi.

Sempre secondo i giudici di Palazzo Spada, la necessità di costituire organi speciali risiede nella circostanza per cui i soci pubblici, per poter esercitare il controllo analogo in forma congiunta hanno necessità di concordare previamente le determinazioni da trasmettere agli organi di amministrazione della società, ed hanno quindi bisogno di individuare una “sedes” in cui la volontà comune possa dei soci possa assumere la forma di determinazioni vincolanti per gli organi amministrativi un organo assembleare speciale.

Nel caso analizzato dalla sentenza in commento, sono stati reputati idonei al predetto scopo il Comitato unitario per il controllo analogo e il Comitato tecnico di controllo per ciascuna Divisione, che devono essere considerati quali organi della società composti da rappresentanti degli enti locali partecipanti al capitale sociale, previsti dagli statuti societari e regolamentati da atti negoziali (regolamenti di funzionamento) deliberati dalla società stessa.

Il Consiglio di Stato ha precisato altresì che la possibilità di costituire degli organi speciali non è inficiata dal divieto, posto dall’art. 11, comma 9, lett. d) d.lgs. n. 175 del 2016, per gli statuti delle società a controllo pubblico di “istituire organi diversi da quelli previsti dalle norme generali in tema di società”.

Tale divieto è, invero, previsto in relazione alle “società a controllo pubblico” disciplinate appunto dall’art. 11, e non è però ripetuto nell’art. 16 dedicato proprio alle società in house, la cui disciplina appare, pertanto, speciale e derogatoria.

1.2.Presenza nel capitale speciale di enti non affidanti

La seconda questione trattata dalla sentenza n. 6460/2020 con riferimento al controllo analogo riguardava la legittimità di un affidamento diretto nella peculiare situazione in cui al capitale della società affidataria partecipino, oltre ai c.d. ‘soci affidanti’ (che esercitano il controllo analogo sulla società e che possono conseguentemente operare affidamenti diretti in suo favore) anche ‘soci non affidanti’ di mero conferimento di capitale (che non esercitano il controllo analogo e non possono quindi operare affidamenti diretti).

La presenza di tali soci nel capitale della società in house ha fatto dubitare il  Consiglio di Stato della legittimità dell’affidamento, tanto da rimettere alla Corte di Giustizia dell’Unione europea, nel corso del giudizio – con ordinanza n. 293/2019 – la questione se il diritto dell’Unione europea (e in particolare l’articolo 12, paragrafo 3 della Direttiva 2014/24/UE in tema di affidamenti in house in regìme di controllo analogo congiunto fra più amministrazioni) osti a una disciplina nazionale (come quella dell’articolo 4, comma 1, del decreto legislativo n. 175 del 2016) che impedisce a un’amministrazione pubblica di acquisire in un organismo pluriparecipato da altre amministrazioni una quota di partecipazione (comunque inidonea a garantire controllo o potere di veto) laddove tale amministrazione intende comunque acquisire in futuro una posizione di controllo congiunto e quindi la possibilità di procedere ad affidamenti diretti in favore dell’Organismo pluripartecipato.

Con sentenza 6 febbraio 2020 cause C-89/19 e C-91/19 il giudice comunitario ha risolto la questione affermando che: “l’articolo 12, paragrafo 3, della direttiva 2014/24 deve essere interpretato nel senso che non osta ad una normativa nazionale che impedisce ad un’amministrazione aggiudicatrice di acquisire partecipazioni al capitale di un ente partecipato da altre amministrazioni aggiudicatrici, qualora tali partecipazioni siano inidonee a garantire il controllo o un potere di veto e qualora detta amministrazione aggiudicatrice intenda acquisire successivamente una posizione di controllo congiunto e di conseguenza la possibilità di procedere ad affidamenti diretti di appalti a favore di tale ente, il cui capitale è detenuto da più amministrazioni aggiudicatrici”.

La Corte, analizzando la fattispecie dal punto di vista del rispetto delle regole dell’evidenza pubblica, ha sottolineato l’importanza che i soci pubblici affidanti siano in condizione di esercitare il controllo analogo congiunto, rimettendo però al diritto nazionale la questione se consentire la detenzione di partecipazioni prive dei poteri di controllo.

Il Consiglio di Stato, sulla base di tali premesse, ha ritenuto, dunque, la questione relativa alla presenza di soggetti che detengono partecipazioni senza esercitare poteri di controllo (anche eventualmente in violazione dell’art. 4, comma 2, lett. a) d.lgs. n. 175 del 2016) del tutto irrilevante ai fini della legittimità dell’affidamento diretto del servizio di igiene urbana disposto dal Comune a favore della società in house.

1.3.Previsioni statutarie idonee a consentire controllo analogo dei soci

Ai fini della verifica della sussistenza per i soci affidanti dell’effettivo esercizio del controllo analogo congiunto, il Consiglio di Stato ha analizzato, inoltre, le disposizioni dello statuto della società in house sulla composizione, il funzionamento e i poteri degli organi societari, ed in particolare del Comitato unitario per il controllo analogo, del Comitato tecnico di controllo e dell’Assemblea sociale.

In particolare, sono state considerate idonee a realizzare il controllo analogo sulla società da parte dei soci pubblici le seguenti disposizioni previste nello statuto della società in house:

– limitazione dei poteri deliberativi dell’assemblea dei soci attraverso le prerogative degli organi speciali mediante i quali è esercitato il controllo analogo;

– attribuzione al Comitato Unitario per il controllo analogo, cui partecipano tutti i Comuni affidanti con proprio rappresentate, del potere di designare i membri del consiglio di amministrazione e del collegio sindacale;

– attribuzione al Comitato unitario per il controllo analogo del potere di annullamento e di revoca degli atti del consiglio di amministrazione per il caso in cui lo stesso sia in contrasto con gli interessi pubblici della collettività e del territorio cui si riferisce il servizio;

– riconoscimento del potere di veto al socio affidante dissenziente nei confronti degli atti del consiglio di amministrazione;

– previsione dell’esercizio del recesso del socio in caso di una violazione continuativa delle direttive e degli indirizzi impartiti da parte del consiglio di amministrazione;

– riconoscimento del diritto di informativa e di accesso agli atti.

Anche i patti parasociali sono stati considerati un valido strumento di esercizio di controllo analogo per la possibilità di coordinamento e raccordo tra le diverse posizioni dei soci aderenti e di orientamento delle decisioni assembleari.

Requisito dell’attività prevalente

La sentenza qui analizzata ha altresì affrontato la questione della sussistenza dell’ulteriore condizione necessaria per qualificare la società controllata come società in house: il requisito dello svolgimento dell’attività prevalente con il socio controllante.

In merito all’accertamento, in concreto, se un’impresa svolge la parte più importante della propria attività con l’ente pubblico che la detiene, l’art. 5, c. 1 del d.lgs 50/2016 e l’art. 16, c. 3 del d.lgs 175/2016 hanno previsto che tale requisito ricorre quando oltre l’80% delle attività della società controllata sono effettuate nello svolgimento dei compiti ad essa affidati dall’ente controllante o da altre società od organismi controllati dal medesimo ente controllante.

Ai sensi del comma 7 dell’art. 5 del d.lgs. n. 50 del 2016 per determinare la percentuale di attività in argomento si prende in considerazione il fatturato totale medio, o un’idonea misura alternativa basata sull’attività, quale i costi sostenuti dalla persona giuridica o amministrazione aggiudicatrice o ente aggiudicatore nel settore dei servizi, forniture e lavori per i tre anni precedenti l’aggiudicazione dell’appalto o della concessione.

Il comma 8 della medesima disposizione prevede che se, a causa della data di costituzione o di inizio dell’attività della persona giuridica, ovvero a causa della riorganizzazione della sua attività, il fatturato o la misura alternativa basata sull’attività, quali i costi, non è disponibile per i tre anni precedenti e non è più pertinente, è sufficiente dimostrare segnatamente in base a proiezioni dell’attività, che la misura dell’attività è credibile.

Nella fattispecie sottoposta al giudizio del Consiglio di Stato, la società affidataria aveva realizzato un processo di riorganizzazione aziendale, e l’affidamento era dunque intervenuto sulla base della valutazione di misure “alternative” che consentivano prevedibilmente e plausibilmente di effettuare una valutazione prognostica favorevole sul perseguimento, peraltro, a breve termine, del limite di fatturato imposto dalla norma.

Anche tale requisito è risultato, dunque, nel caso esaminato, soddisfatto.

Motivazione dell’affidamento

Infine, la sentenza in commento ha trattato la questione dell’onere motivazionale dell’affidamento in house.

L’articolo 192, comma 2 del d.lgs. n. 50 del 2016 prevede che, ai fini dell’affidamento in house di un contratto avente ad oggetto servizi disponibili sul mercato in regime di concorrenza, le stazioni appaltanti devono effettuare preventivamente la valutazione sulla congruità economica dell’offerta dei soggetti in house, avuto riguardo all’oggetto e al valore della prestazione e “dando conto nella motivazione del provvedimento di affidamento delle ragioni del mancato ricorso al mercato, nonché dei benefici per la collettività della forma di gestione prescelta, anche con riferimento agli obiettivi di universalità e socialità, di efficienza, di economicità e di qualità del servizio, nonché di ottimale impiego delle risorse pubbliche”.

Nel corso del giudizio concluso con la sentenza in commento, il Consiglio di Stato ha richiesto (con ordinanza 293/2016) alla Corte di Giustizia di vagliare la conformità al diritto euro – unitario, e, segnatamente al principio di libera amministrazione delle autorità pubbliche e al principio di sostanziale equivalenza tra le diverse modalità di affidamento e di gestione dei servizi di interesse della amministrazioni pubbliche, delle disposizioni che collocano gli affidamenti in house su di un piano subordinato ed eccezionale rispetto agli affidamenti tramite gara in quanto consentiti a condizione che sia dimostrato il fallimento del mercato rilevante e, comunque, previa esposizione di una specifica motivazione circa i benefici per la collettività connessi all’affidamento in house.

La Corte di Giustizia, nella sentenza 6 febbraio 2020 cause C-89/19 e C-91/19, precisato che la direttiva 2014/14 riconosce il principio della libera organizzazione della prestazione dei servizi, per il quale le autorità nazionali possono decidere liberamente quale sia il modo migliore per gestire la prestazione dei servizi al fine di garantire un elevato livello di qualità, sicurezza e accessibilità, così come la parità di trattamento e la promozione dell’accesso universale e dei diritti dell’utenza nei servizi pubblici (par. 36 che richiama la sentenza 3 ottobre 2019 causa C-285/18 Irgita), ha aggiunto che tale libertà non è, però, illimitata, in quanto va esercitata nel rispetto delle regole fondamentali del TFUE – Trattato sul funzionamento dell’Unione europea e, in particolare, della libera circolazione delle merci, della libertà di stabilimento e della libera prestazione dei servizi (oltre che dei principi che ne derivano come la parità di trattamento, il divieto di discriminazione, il mutuo riconoscimento, la proporzionalità e la trasparenza, par. 37).

La conclusione cui giunge la Corte è, dunque, che gli Stati membri sono autorizzati a subordinare la conclusione di una “operazione interna” per la prestazione di un servizio (tra cui, appunto, l’affidamento in house) “all’impossibilità di indire una gara d’appalto e, in ogni caso, alla dimostrazione da parte dell’amministrazione aggiudicatrice, dei vantaggi per la collettività specificatamente connessi al ricorso all’operazione interna”.

Riconosciuta, dunque, la compatibilità della norma in questione con il diritto comunitario, il Consiglio di Stato, nella sentenza n. 6460/2020, si è preoccupato di procedere ad una puntuale interpretazione della norma, ricordando quanto già precisato in precedenti pronunce del medesimo consesso (sentenze 16 novembre 2018, n. 6456; 31 luglio 2019, n. 5444; 3 marzo 2020, n. 1564; parere 29 marzo 2017, n. 774 della sez. consultiva atti normativi) e altresì della Corte Costituzionale (sentenza 27 maggio 2020, n. 100), e giungendo ad affermare che anche nell’attuale quadro normativo il ricorso all’affidamento in house del sevizio è in posizione subalterna all’affidamento del servizio stesso mediante gara pubblica per essere imposto all’amministrazione aggiudicatrice che a quello intenda ricorre un onere motivazionale rafforzato, quale si ricava dal combinato disposto dell’art. 192, comma 2, d.lgs. n. 50 del 2018 e dall’art. 34, comma 20, d.l. n. 179 del 2012.

Detto onere motivazionale consiste nell’esporre le ragioni di preferenza per l’affidamento in house rispetto al ricorso all’evidenza pubblica in punto di convenienza economica, di efficienza e qualità del servizio, così esplicitando le ragioni dell’esclusione del ricorso al mercato, e, di seguito, i benefici per la collettività, di modo che ne sia possibile il sindacato in termini di ragionevolezza, logicità e travisamento dei fatti.

Alla luce di queste considerazioni il Consiglio di Stato ha ritenuto valide e sufficienti le seguenti ragioni che, nel caso esaminato, erano state poste a fondamento della scelta dell’affidamento in house del servizio:

– il prezzo proposto dalla società in house era nettamente inferiore a quello rinvenibile sul mercato per prestazioni similari;

 – l’affidamento in house si inseriva nella strategia complessiva della società in house rivolta a rafforzare la propria struttura organizzativa e industriale mediante una rete impiantistica sempre più sviluppata e operante su vari territori con importanti ritorni in termini di efficienza e di valore della quota di partecipazione del Comune nel capitale sociale;

– le modalità tecnico – operative di prestazione del servizio proposte nel progetto tecnico – economico a corredo dell’offerta della società consentivano di assicurare al territorio ottime condizioni di igiene, decoro e di immagine;

– il superamento delle litigiosità con le società private contraenti a seguito di procedura di evidenza pubblica già verificatesi sull’interpretazione delle clausole contrattuali e sull’esecuzione del contratto di appalto;

– la possibilità per il Comune, nella veste di socio affidante in seno agli organi societari, di imporsi nelle scelte della società affidataria con conseguente adeguamento del servizio ad eventuali mutamenti del contesto urbanistico – territoriale senza che sia necessario procedere a modifiche contrattuali, e controllo costante di tutte le fasi esecutive, della sua preparazione e della sua rendicontazione.

L’in house providing si pone sempre più come un modello di gestione dei servizi pubblici ben delineato nei suoi contorni essenziali e questo grazie anche al periodo di tregua da interventi normativi che sta attraversando negli ultimi anni.

Anche la giurisprudenza interviene sul tema con pronunce che vanno a confermare i tratti essenziali dell’istituto ed a precisarne alcuni aspetti pratici ed operativi.

La sentenza in rassegna si pone in effetti in questo assetto andando a scandagliare alcuni aspetti specifici e ponendo un ulteriore tassello al consolidamento dell’istituto a tutto vantaggio dell’attività operativa e gestionale delle pubbliche amministrazioni.

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