29/05/2020 – Rumore. Attività svolta in ambito condominiale

Rumore. Attività svolta in ambito condominiale
Pubblicato: 28 Maggio 2020
Cass. Sez. III n. 13320 del 30 aprile 2020 (UP 13 dic 2019)
 
Perché sussista la contravvenzione di cui all’art. 659 cod. pen. relativamente ad attività che si svolge in ambito condominiale, è necessaria la produzione di rumori idonei ad arrecare disturbo o a turbare la quiete e le occupazioni non solo degli abitanti dell’appartamento sovrastante o sottostante la fonte di propagazione, ma di una più consistente parte degli occupanti il medesimo edificio. La circostanza che solo alcuni dei soggetti potenzialmente lesi dalle emissioni sonore se ne siano lamentati non esclude la configurabilità del reato allorquando sia stata accertata l’idoneità delle stesse ad arrecare disturbo non solamente a un singolo ma a un gruppo indeterminato di persone, quali gli abitanti dell’area circostante il locale, con la conseguente incidenza della condotta sulla tranquillità pubblica e la lesione dell’interesse protetto dalla disposizione, che è costituito, appunto, dalla quiete e dalla tranquillità pubblica.
 
RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 22 febbraio 2019 il Tribunale di Firenze ha dichiarato Marco De Luca e Matteo Biondi responsabili del reato di cui all’art. 659 cod. pen. (loro ascritto per avere, quali legali rappresentanti della S.n.c. M&M, gestore dell’esercizio pubblico denominato Enoteca de’ Macci, svolgente attività commerciale di bar e pub, disturbato il riposo e le occupazioni delle persone; in Firenze, fra il dicembre 2013 e il maggio 2014), condannandoli alla pena di 309,00 euro di ammenda e al risarcimento del danno in favore delle parti civili.

2. Avverso tale sentenza gli imputati hanno proposto congiuntamente ricorso per cassazione, affidato a tre motivi.

2.1. In primo luogo, hanno lamentato, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b) et c), cod. proc. pen., la violazione degli artt. 34 e 36 cod. proc. pen. e dell’art. 162 bis cod. pen. e hanno impugnato le ordinanze dibattimentali rese alle udienze del 23/9/2016 e del 22/2/2019, con riferimento al rigetto della seconda istanza di oblazione da essi proposta, che era stata fondata sul deposito di documentazione attestante l’effettivo impatto acustico della strumentazione sonora e la concessione della pedana, istanza che era stata respinta dal Tribunale in considerazione della mancata dimostrazione della eliminazione delle conseguenze del reato.

Tanto premesso, hanno eccepito l’incompatibilità del giudice a decidere nel merito, per essersi lo stesso già espresso due volte sulla istanza di oblazione, richiamando la giurisprudenza costituzionale sulla incompatibilità del giudice, e, in particolare, la sentenza n. 124 del 1992, sottolineando che con la reiezione della richiesta di oblazione il Tribunale aveva anticipato il proprio convincimento in ordine alla responsabilità degli imputati.

Nel merito di detta istanza hanno ribadito di aver provveduto a eliminare le conseguenze dannose del reato anteriormente alla presentazione della prima istanza di ammissione alla oblazione, tra il 2014 e il 2015, come dimostrato dai documenti prodotti.

2.2. In secondo luogo, hanno lamentato, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b) et e), cod. proc. pen., l’errata applicazione dell’art. 659 cod. pen. e un vizio della motivazione, con riferimento alle deposizioni dei testi Vannozzi, Gavioli, Cenni, Maltinti ed Ermini, per il mancato accertamento della idoneità dei rumori provenienti dall’interno del locale e dagli avventori dell’enoteca a disturbare un numero indeterminato di persone, come richiesto dall’art. 659 cod. pen. (posto a protezione della quiete pubblica e non di un numero determinato di persone), e non solo le parti civili, tutte abitanti dirimpetto al locale gestito dagli imputati, non essendo stati percepiti rumori o schiamazzi dagli occupanti abitazioni distanti, come riferito, in particolare, dal teste Maltinti, residente a poca distanza dall’enoteca.

2.3. Con un terzo motivo hanno lamentato, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b), et e), cod. proc. pen., la violazione degli artt. 40 e 659 cod. pen. e l’illogicità della motivazione, con riferimento alle deposizioni dei testi Vannozzi, Maltinti, Cenni, Poggi, Nesi e a quanto dichiarato dall’imputato Biondi, con riferimento all’addebito di omesso impedimento di schiamazzi all’esterno del locale da parte degli avventori dello stesso, che costituivano il reale elemento disturbante del riposto delle persone abitanti nei pressi, sui quali i gestori del locale non avevano obblighi di vigilanza né potere di intervento per le condotte realizzate all’esterno del locale, essendosi, peraltro, attivati chiedendo l’intervento delle forze di polizia quanto all’esterno del locale la situazione diveniva particolarmente fastidiosa.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso, congiuntamente proposto dagli imputati, è inammissibile.

2. Il primo motivo, con cui è stata eccepita l’incompatibilità del giudice, per essersi lo stesso già pronunciato, per due volte, sulla istanza di oblazione avanzata dagli imputati, ed è stato lamentato l’indebito rigetto di tale istanza, è manifestamente infondato.

2.1. Per quanto riguarda l’eccepita incompatibilità del giudice, per essersi già pronunciato nel merito, avendo lo stesso, con il rigetto delle istanze di oblazione, implicitamente affermato la sussistenza della responsabilità, va osservato che l’eventuale inosservanza delle disposizioni di cui all’art. 34 cod. proc. pen., per il mancato rilievo di una supposta causa di incompatibilità, non è deducibile come motivo di nullità della decisione in sede di gravame, ma può costituire motivo di ricusazione del giudice, ai sensi dell’art. 37, comma 1, lett. a), cod. proc. pen. (cfr. Sez. 1, n. 35216 del 19/04/2018, Illiano, Rv. 273852, che, tra l’altro, in applicazione di tale principio, ha dichiarato irrilevante la questione di legittimità costituzionale dell’art. 34 cod. proc. pen. proposta dall’imputato il quale, nel giudizio di merito, non aveva avanzato alcuna richiesta di ricusazione; conf. Sez. 3, n. 285 del 26/11/1999, dep. 13/01/2000, D’Angelo, Rv. 215352; nonché Sez. 1, n. 108 del 14/01/1993, Primerano, Rv. 193364, che aveva anche chiarito la non riconducibilità delle disposizioni in materia di incompatibilità a quelle attinenti le “condizioni di capacità del giudice”, la cui violazione dà luogo alla nullità di ordine generale prevista dall’art. 178 lett. a) cod. proc. pen., affermando di conseguenza che l’inosservanza delle disposizioni di cui al citato art. 34 cod. proc. pen. non può essere dedotta come motivo di nullità attraverso l’esperimento di mezzi di gravame, ma può soltanto costituire motivo di ricusazione del giudice, ai sensi dell’art. 37, comma primo, lett. a) cod. proc. pen.).

Poiché, nella vicenda in esame, i ricorrenti non hanno proposto istanza di ricusazione, pur essendo pienamente informati della situazione a loro avviso riconducibile a una ipotesi di incompatibilità, la loro doglianza risulta manifestamente infondata, non determinando alcuna nullità il mancato rilievo di una ipotetica causa di incompatibilità, in relazione alla quale la parte che intenda farla valere può solo proporre dichiarazione di ricusazione.

2.2. La doglianza in ordine all’indebito rigetto della richiesta di oblazione, a causa della errata valutazione della condotta degli imputati, che avrebbero provveduto a eliminare le conseguenze dannose della propria condotta anteriormente alla proposizione della opposizione al decreto penale di condanna emesso nei loro confronti, è inammissibile, in quanto riguarda un accertamento di fatto (in ordine alla permanenza di conseguenze del reato), che è stato compiuto in modo logico e di cui è stata fornita spiegazione con motivazione idonea.

Il Tribunale ha, infatti, ritenuto non dimostrata la eliminazione (o riduzione) delle emissioni sonore provenienti dal locale gestito dagli imputati, ritenendo insufficiente quanto emergente dalle valutazioni di impatto acustico e dalla relazione tecnica del locale del 10/4/2014 e del 19/5/2015, con la conseguente insussistenza dei presupposti per l’ammissione all’oblazione: si tratta di motivazione sufficiente, essendo state indicate le ragioni di tale diniego, non sindacabili sul piano del merito nel giudizio di legittimità, trattandosi di apprezzamento implicante valutazioni di fatto non consentite alla Corte di cassazione.

3. Il secondo motivo, mediante il quale è stato lamentato il mancato accertamento della idoneità dei rumori provenienti dagli avventori dell’enoteca a disturbare un numero indeterminato di persone e non solo le parti civili, tutte abitanti dirimpetto al locale gestito dagli imputati, non essendo stati percepiti rumori o schiamazzi dagli occupanti le abitazioni distanti dall’enoteca, è inammissibile, essendo volto a censurare sul piano del merito, tra l’altro attraverso una non consentita rivisitazione  delle deposizioni testimoniali, l’accertamento di tale aspetto compiuto dal Tribunale, in modo logico e fornendone illustrazione con motivazione esauriente e immune da vizi.

Il Tribunale ha, infatti, dato atto che la musica proveniente dal locale gestito dalla società degli imputati e gli schiamazzi prodotti dagli avventori dello stesso, anche quando stazionavano all’esterno del locale, erano idonei a disturbare un numero indeterminato di persone abitanti nei pressi dell’Enoteca de’ Macci, evidenziando che anche all’esterno del locale erano state installate casse di amplificazione musicale e che la musica, il rumore e gli schiamazzi degli avventori erano idonei a disturbare un numero indeterminato di persone abitanti nei pressi dell’enoteca: si tratta si motivazione sufficiente a dare conto della diffusività delle emissioni sonore e della loro idoneità a recare disturbo al riposo di un numero indeterminato di persone, in quanto per la configurabilità della contravvenzione di cui all’art. 659 cod. pen. non sono necessarie né la vastità dell’area interessata dalle emissioni sonore, né il disturbo di un numero rilevante di persone, essendo sufficiente che il disturbo venga arrecato a un gruppo indeterminato di persone e non solo a un singolo, anche se raccolte in un ambito ristretto, come, ad esempio in un condominio (cfr. Sez. 1, n. 45616 del 14/10/2013, Virgillito, Rv. 257345, secondo cui perché sussista la contravvenzione di cui all’art. 659 cod. pen. relativamente ad attività che si svolge in ambito condominiale, è necessaria la produzione di rumori idonei ad arrecare disturbo o a turbare la quiete e le occupazioni non solo degli abitanti dell’appartamento sovrastante o sottostante la fonte di propagazione, ma di una più consistente parte degli occupanti il medesimo edificio; nonché Sez. 1, n. 47298 del 29/11/2011, Iori, Rv. 251406; Sez. 1, n. 18517 del 17/03/2010, Oppong, Rv. 247062; Sez. 1, n. 1406 del 12/12/1997, Costantini, Rv. 209694).

La circostanza che solo alcuni dei soggetti potenzialmente lesi dalle emissioni sonore se ne siano lamentati non esclude la configurabilità del reato allorquando, come nel caso in esame, sia stata accertata l’idoneità delle stesse ad arrecare disturbo non solamente a un singolo ma a un gruppo indeterminato di persone, quali gli abitanti dell’area circostante il locale, con la conseguente incidenza della condotta sulla tranquillità pubblica e la lesione dell’interesse protetto dalla disposizione, che è costituito, appunto, dalla quiete e dalla tranquillità pubblica.

4. Il terzo motivo, oltre che anch’esso volto a conseguire una non consentita rivisitazione degli elementi considerati per affermare la responsabilità degli imputati, in particolare delle deposizioni testimoniali, dalle quali è emerso che gli schiamazzi degli avventori provenivano anche dall’esterno del locale, dove questi stazionavano, è manifestamente infondato, essendo basato sulla affermazione della insussistenza di un obbligo di controllo e di intervento sugli avventori di un locale pubblico all’esterno di questo, la cui sussistenza, invece, è stata più volte affermata.

La giurisprudenza di legittimità ha, infatti, da tempo affermato che la qualità di titolare della gestione di un esercizio pubblico comporta l’assunzione dell’obbligo giuridico di controllare che la frequentazione del locale da parte dei clienti non sfoci in condotte contrastanti con le norme concernenti la polizia di sicurezza (Sez. 1, n. 16686 del 28/03/2003, Massazza, Rv. 224802), attraverso il ricorso ai vari mezzi offerti dall’ordinamento, come l’attuazione dello ius excludendi e il ricorso all’autorità, allo scopo di evitare che la frequenza del locale da parte degli utenti non sfoci in condotte contrastanti con le norme poste a tutela dell’ordine e della tranquillità pubblica (Sez. 1, n. 48122 del 03/12/2008, Baruffaldi, Rv. 242808; conf. Sez. F, n. 34283 del 28/07/2015, Gallo, Rv. 264501), anche quanto questi si trovino nelle immediate vicinanze del locale stesso, e sono, quindi, ancora nella sfera di controllo del gestore.

Nel caso in esame, inoltre, oltre alla mancata attivazione dei gestori allo scopo di evitare la realizzazione di condotte moleste da parte degli avventori, è emerso anche che al di fuori del locale venivano lasciate, quanto meno per un certo periodo e anche dopo la chiusura al pubblico, panche e tavoli, che favorivano l’assembramento degli avventori al di fuori del locale e, con esso, anche condotte idonee, con schiamazzi e vociare, a turbare il riposto delle persone abitanti negli edifici limitrofi.

Ne consegue, dunque, la manifesta infondatezza della doglianza, sussistendo l’obbligo di attivazione di cui i ricorrenti hanno contestato l’esistenza e di cui non hanno, comunque, dedotto né dimostrato l’adeguato assolvimento.

 5. Il ricorso deve, dunque, essere dichiarato inammissibile, stante la genericità, il contenuto non consentito e la manifesta infondatezza di tutte le censure cui è stato affidato.

Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso congiuntamente proposto dai ricorrenti consegue, ex art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento, nonché del versamento di una somma in favore della Cassa delle Ammende, che si determina equitativamente, in ragione dei motivi dedotti, nella misura di euro 2.000,00 per ciascun ricorrente.

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 2.000,00 ciascuno a favore della Cassa delle Ammende.

Così deciso il 13/12/2019

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