28/05/2020 – Aria. Immissioni moleste di vapori e fumi

Aria. Immissioni moleste di vapori e fumi
Pubblicato: 27 Maggio 2020
Cass. Sez. III n. 13324 del 30 aprile 2020 (UP 23 gen 2020)

Ai fini dell’applicabilità dell’art. 674 cod. pen. per le attività produttive occorre distinguere l’ipotesi che siano svolte senza autorizzazione (perché non prevista o perché non richiesta o ottenuta) oppure in conformità alle previste autorizzazioni. Nella prima ipotesi, il contrasto con gli interessi protetti dalla disposizione di legge va valutato secondo criteri di “stretta tollerabilità”, mentre laddove l’attività è esercitata secondo l’autorizzazione e senza superamento dei limiti di questa, si deve fare riferimento alla “normale tollerabilità” delle persone quale si ricava dal contenuto dell’art. 844 cod. civ. Qualora sia riscontrata l’autorizzazione e il rispetto dei limiti di questa, una responsabilità potrà comunque sussistere qualora l’azienda non adotti quegli accorgimenti tecnici ragionevolmente utilizzabili per ulteriormente abbattere l’impatto sulla realtà esterna

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 27/3/2019, la Corte di appello di Roma, in riforma della pronuncia emessa il 17/3/2016 dal locale Tribunale, dichiarava non doversi procedere nei confronti di Angelo Coletti con riguardo alla contestazione di cui all’art. 659 cod. pen., perché estinta per prescrizione, e confermava la condanna quanto alla contravvenzione di cui all’art. 674 cod. pen., rideterminando la pena irrogata; all’imputato, quale titolare di un ristorante, era contestato di aver immesso nell’aria vapori e fumi provenienti dalla cucina in assenza di canna fumaria, causando molestie ai residenti.

2. Propone ricorso per cassazione il Coletti, a mezzo del proprio difensore, deducendo i seguenti motivi:

– inosservanza o erronea applicazione della legge penale; carenza di motivazione con riguardo ad entrambe le fattispecie contestate. La Corte di appello avrebbe confermato la condanna senza accertare il profilo soggettivo della condotta, che, peraltro, dovrebbe esser escluso alla luce del carattere autorizzato dell’attività commerciale dalla quale i fumi provenivano. Il ricorrente, peraltro, si sarebbe sempre adoperato per adeguare l’esercizio alla normativa, quel che avrebbe ulteriormente imposto un rigoroso accertamento della colpevolezza, non ravvisabile nella sentenza impugnata;

– le stesse censure, poi, sono mosse quanto alla condotta di cui all’art. 674 cod. pen. La Corte di merito avrebbe affermato il principio – non condivisibile – secondo il quale la mancanza di canna fumaria comporterebbe ex se l’integrazione del reato, allorquando sia comunque presente un sistema alternativo di smaltimento di fumi e vapori; per contro, la lettera della norma, ed in particolare il riferimento ai “casi non consentiti dalla legge”, imporrebbe la verifica dell’adeguatezza e della regolarità dell’impianto esistente, in uno con la specifica dimostrazione che le emissioni abbiano superato i limiti fissati dalla normativa. Sarebbe stata necessaria, in sintesi, la verifica della regolarità del sistema adottato in concreto, specie in quanto relativo ad un’attività autorizzata ed in regola.

Le parti civili hanno prodotto memoria, con ampia documentazione allegata, chiedendo il rigetto del ricorso.

CONSIDERATO IN DIRITTO

3. Il ricorso risulta manifestamente infondato.

Con riguardo alla prima censura, che investe entrambe le fattispecie di reato, rileva il Collegio che la stessa è proposta in termini del tutto fattuali e con argomenti di puro merito, quindi inammissibili in questa sede. In particolare, l’impugnazione non sostiene di aver rappresentato ai Giudici elementi dai quali trarre l’assenza del profilo soggettivo delle condotte, e di aver poi ricevuto una risposta censurabile ai sensi dell’art. 606 cod. proc. pen., ma – diversamente – che la Corte di appello non avrebbe valutato che il Coletti si sarebbe “sempre adoperato, malgrado tutte le difficoltà riconducibili alla fase di iniziale assestamento, per adeguare l’esercizio di impresa”; quel che avrebbe dovuto imporre una pronuncia di assoluzione, dovendosi escludere la colpevolezza “ogniqualvolta il soggetto agente/imprenditore abbia impiegato un dispendio di energie e di risorse per risolvere le problematiche connesse alle fattispecie incriminatrici.”

4. Una censura, dunque, che attiene al fatto-reato in sé, non alla lettura dello stesso operata dalla pronuncia impugnata. Una censura, ancora, che non tiene conto della motivazione redatta dalla Corte di appello, la quale – con analitico richiamo alle prove testimoniali (anche qualificate, come i tecnici ARPA ed ASL) – ha riconosciuto il profilo oggettivo e soggettivo di entrambe le fattispecie contestate; la cui permanenza, peraltro, è stata ritenuta cessata, quanto all’art. 659 cod. pen., con i lavori di risanamento acustico ambientale per l’abbattimento della rumorosità, eseguiti dal ricorrente in ottemperanza all’ingiunzione del Comune di Roma del 9/10/2012, e, quanto all’art. 674 cod. pen., con le opere di sostituzione del preesistente impianto di depurazione dei fumi della cucina (filtraggio ad acqua) con un diverso sistema (a mezzo di carboni attivi). Un complesso di elementi istruttori, dunque, dai quali la sentenza ha tratto – con argomento congruo e non censurabile – la sussistenza delle fattispecie di reato e del loro necessario profilo psicologico; protrattisi, entrambi, fino a quando il ricorrente non era stato costretto, in esito a plurime lamentale ed a provvedimenti amministrativi, ad adeguare gli impianti del ristorante a norma di legge, così evidenziando la sussistenza fino a quel momento (quantomeno) di un profilo di colpa, necessario e sufficiente per integrare i reati, trattandosi di fattispecie contravvenzionali.

5. Alle stesse conclusioni di manifesta infondatezza, di seguito, giunge il Collegio con riguardo alla seconda censura; in forza della quale, in sintesi, trattandosi di attività autorizzata, il Giudice del merito avrebbe dovuto accertare che le emissioni avessero superato i parametri fissati dalla legge.

6. Questa Corte, con indirizzo più volte affermato e qui da ribadire (tra le ultime, Sez. 3, n. 54209 del 23/10/2018, Tirapelle, Rv. 275298), ha sostenuto che la contravvenzione prevista dall’art. 674 cod. pen., punisce, con le pene stabilite, chiunque getta o versa in luogo di pubblico transito o in un luogo privato ma di comune o altrui uso, cose atte ad offendere o imbrattare o molestare persone, ovvero, nei casi non consentiti dalla legge, provoca emissione di gas, di vapori o di fumo atti a cagionare tali effetti. Trattasi di un unico reato. La fattispecie contravvenzionale descritta dall’art. 674 cod. pen. non prevede due distinte ed autonome ipotesi di reato, ma un reato unico, in quanto la condotta consistente nel provocare emissioni di gas, vapori o fumo rappresenta una species del più ampio genus costituito dal gettare o versare cose atte ad offendere, imbrattare o molestare persone. Sez. 3, Sentenza n. 37495 del 13/07/2011. P.M. in proc. Dradi, Rv. 251287). Le emissioni di cui alla seconda ipotesi (riferita a gas, vapori o fumo) rientrano già nell’ampio significato dell’espressione “gettare cose”, di cui in realtà costituiscono una specie, e sono state espressamente previste dalla norma unicamente per specificare che si tratta di attività disciplinata per legge e per tale motivo ritenuta dal legislatore di un qualche interesse pubblico e generale.

Con riguardo alla seconda parte della norma, che viene in rilievo nel caso in esame, se è pacifica l’integrazione della fattispecie in presenza anche di “molestie olfattive”, promananti da impianto munito di autorizzazione, non di meno, si registrano nella giurisprudenza di legittimità diverse conclusioni in relazione alle condizioni per la ricorrenza del reato, allorchè l’evento di molestia sia conseguente all’attività industriale in presenza/assenza/rispetto delle condizioni dell’autorizzazione.

7. Secondo un primo e più risalente orientamento la configurabilità del reato di getto pericoloso di cose è esclusa in caso di emissioni provenienti da attività autorizzata o disciplinata dalla legge e contenute nei limiti normativi o dall’autorizzazione, in quanto il rispetto dei predetti limiti implica una presunzione di legittimità del comportamento (Sez. 3, n. 37495 del 13/07/2011, P.M. in proc. Dradi, Rv. 251286; Sez. 3, n. 15707 del 09/01/2009, Abbaneo, Rv. 243433). In queste pronunce la Corte ha precisato che all’inciso “nei casi non consentiti dalla legge” deve riconoscersi un valore rigido e decisivo, tale da costituire una sorta di spartiacque tra il versante dell’illecito penale, da un lato, e dell’illecito civile, dall’altro; quel che sostiene anche il presente ricorso.

8. A questo orientamento si oppone altro filone giurisprudenziale, secondo cui il reato di getto pericoloso di cose è integrabile indipendentemente dal superamento dei valori limite di emissione eventualmente stabiliti dalla legge, in quanto anche un’attività’ produttiva di carattere industriale autorizzata può procurare molestie alle persone, per la mancata attuazione dei possibili accorgimenti tecnici. Si è, in particolare precisato che, in tema di getto pericoloso di cose, l’evento di molestia provocato dalle emissioni di gas, fumi o vapori si ha non solo nei casi di emissioni inquinanti in violazione dei limiti di legge, ma anche nel caso di superamento del limite della normale tollerabilità ex art. 844 cod. civ., la cui tutela costituisce la “ratio” della norma incriminatrice (Sez. 3, n. 14467 del 22/11/2016, Venturin, Rv. 269326; Sez. 3, n. 12019 del 10/02/2015, Pippi, Rv. 262710; Sez. 3, n. 45230 del 03/07/2014, Benassi, Rv. 260980).

9. Quanto poi allo specifico tema delle “molestie olfattive”, quando non esiste una normativa statale che prevede disposizioni specifiche e valori limite in materia di odori, la Corte di cassazione ha individuato il criterio della “stretta tollerabilità” quale parametro di legalità dell’emissione, attesa l’inidoneità ad approntare una protezione adeguata all’ambiente ed alla salute umana di quello della “normale tollerabilità”, previsto dall’art. 844 cod. civ. (Sez. 3, n. 2475 del 09/10/2007, Alghisi, Rv. 238447, alla cui ampia e articolata motivazione si rimanda; nello stesso senso cfr. anche Sez. 3, n. 11556 del 21/02/2006, Davito, Rv. 233565; Sez. 3, n. 19898 del 21/04/2005, Pandolfini, Rv. 231651). E ciò in quanto anche un’attività produttiva di carattere industriale autorizzata può procurare molestie alle persone, per la mancata attuazione dei possibili accorgimenti tecnici e dell’osservanza del principio di precauzione che deve informare l’attività produttiva potenzialmente in grado di arrecare disturbo e molestie alla salute delle persone. Secondo questo orientamento, di recente ribadito da Sez. 3, n. 36905 del 18/06/2015, Maroni, Rv. 265188, è configurabile il reato di getto pericoloso di cose in caso di produzione di “molestie olfattive” mediante un impianto munito di autorizzazione per le emissioni in atmosfera, in quanto non esiste una normativa statale che prevede disposizioni specifiche e valori limite in materia di odori, con conseguente individuazione, quale parametro di legalità dell’emissione, del criterio della “stretta tollerabilità”, e non invece, di quello della “normale tollerabilità” previsto dall’art. 844 cod. civ., attesa l’inidoneità di quest’ultimo ad assicurare una protezione adeguata all’ambiente ed alla salute umana.

10. Ritiene, tuttavia il Collegio che non si possa prescindere dal dato normativo dell’art. 674 cod. pen. che espressamente vieta le emissioni di gas, di vapori o di fumo atti a cagionare l’evento di molestia alle persone, “molestia” che, come affermato da una risalente ma condivisibile pronuncia, ricomprende tutte le situazioni di fastidio, disagio, disturbo e comunque di turbamento della tranquillità e della quiete che producono un impatto negativo, anche psichico, sull’esercizio delle normali attività quotidiane di lavoro e di relazione (Sez. 3, n. 38297 del 18/06/2004, Rv. 229618), situazioni che non comprendono il danno o anche il pericolo di danno alla salute e/o all’ambiente, casi nei quali altre sono le fattispecie incriminatrici applicabili.

11. In sintesi, a parere della Corte per le attività produttive occorra distinguere l’ipotesi che siano svolte senza autorizzazione (perché non prevista o perché non richiesta o ottenuta) oppure in conformità alle previste autorizzazioni. Nella prima ipotesi, il contrasto con gli interessi protetti dalla disposizione di legge va valutato secondo criteri di “stretta tollerabilità”, mentre laddove l’attività è esercitata secondo l’autorizzazione e senza superamento dei limiti di questa, si deve fare riferimento alla “normale tollerabilità” delle persone quale si ricava dal contenuto dell’art. 844 cod. civ. Qualora sia riscontrata l’autorizzazione e il rispetto dei limiti di questa, una responsabilità potrà comunque sussistere qualora l’azienda non adottiquegli accorgimenti tecnici ragionevolmente utilizzabili per ulteriormente abbattere l’impatto sulla realtà esterna.

Esattamente quanto riscontrato nella vicenda in esame (quantomeno fino alla realizzazione di quei lavori che, per l’appunto, hanno interrotto la consumazione di entrambe le fattispecie di reato), con argomento – in punto di superamento della normale tollerabilità – che il ricorso non affronta affatto, tantomeno contesta.

12. Il ricorso, pertanto, deve essere dichiarato inammissibile. Alla luce della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in euro 2.000,00. Segue la condanna alla rifusione delle spese sostenute dalle parti civili costituite, che si liquidano in complessivi 4.900,00 euro, oltre accessori di legge.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle ammende, nonché alla rifusione delle spese sostenute dalle parti civili, che di liquidano in complessivi euro 4.900,00 oltre accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 23 gennaio 2020

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