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Giurisdizione amministrativa e democrazia deliberativa
 
Sommario: 1. Le difficoltà del discorso. – 2. Le origini della democrazia deliberativa. – 3. Democrazia deliberativa ed arena pubblica. – 4. Le differenti prospettive e l’’indefinizione’ della democrazia deliberativa. – 5. La democrazia deliberativa come teoria normativa. – 6. Istituti di diritto positivo di democrazia deliberativa e tutele giurisdizionali. – 7. Democrazia deliberativa e democrazia partecipativa. – 8. Partecipazione e giurisdizione. – 9. Democrazia deliberativa e funzione giurisdizionale: un rapporto problematico. – 10. Democrazia deliberativa e giurisdizione: l’esperienza francese. – 11. Una lettura deliberativa della funzione giurisdizionale. – 12. Democrazia deliberativa e giurisdizione amministrativa. – 13. Il dibattito pubblico. – 14. L’accesso generalizzato. – 15. Il referendum regionale. – 16. Regolazione dei mercati e legalità procedurale. – 17. Una lettura della “deliberativa” del processo giurisdizionale: l’istruttoria e il sindacato di attendibilità del giudice nelle valutazioni delle autorità indipendenti. – 18. Il valore della partecipazione procedimentale ed il ruolo del processo. – 19. Il contraddittorio come metodo delle decisioni pubbliche.  
 
1. Un discorso su democrazia deliberativa e tutela giurisdizionale (ed in particolare, sulla tutela giurisdizionale amministrativa) presenta una serie di difficoltà che non possono essere sottaciute e che devono, anzi, essere preliminarmente affrontate, allo scopo di fornire la chiave per una corretta (e, se possibile, proficua) relazione fra le due realtà in discussione.
Queste difficoltà non derivano, almeno a livello di prima approssimazione, dalle questioni riguardanti la funzione giurisdizionale in genere (anche se il progressivo mutamento dell’esperienza della giurisdizione non è privo di conseguenze) e neppure da quelle riguardanti la tutela giurisdizionale amministrativa, anche se quest’ultima presenta aspetti peculiari , ove posta in relazione con i modelli di democrazia; esse, invece, sono legate proprio al dibattito sulla democrazia deliberativa, alle sue esigenze ed ai suoi scopi, alla natura polisemica della stessa espressione in discorso, alle diverse -e talvolta contrastanti- letture che le scienze filosofiche, storiche, politologiche e giuridiche hanno, nel tempo, fornito del relativo concetto, ed in ultima analisi, alla scarsità delle forme concrete di attuazione. Si deve, anzi, rilevare, che questa disattenzione per le forme attuative dell’idealtipo costituito dalla democrazia deliberativa ha, talvolta, fatto dubitare dell’opportunità dell’approfondimento delle relative questioni da parte del giurista. Si tratta di un esito che, come vedremo, non può essere condiviso proprio perché il “metodo giuridico” non può costituire un limite che finisce con il separare il diritto dalle scienze sociali.
2. E’ stato felicemente osservato che le oggettivazioni del lemma “democrazia” ci raccontano le età e le stagioni della nostra storia, da quelle più recenti a quelle più risalenti (Bifulco, d.d. e d.p.).
Questa affermazione vale anche per l’oggetto del nostro studio, in cui l’aggettivo “deliberativa”, con l’esplicita sottolineatura del valore del procedimento decisionale, sembra sottendere una prospettiva polemica nei confronti delle forme più tradizionali di democrazia, come quella rappresentativa, ed additare possibili nuove tappe per il faticoso viaggio della democrazia.
E’ noto che con la locuzione “democrazia deliberativa” si intende far riferimento ad un modello, ritenuto dotato di un plusvalore democratico, imperniato sul confronto ragionato di opinioni; modello, questo, caratterizzato da una discussione pubblica contrassegnata dallo scambio di informazioni ed argomenti (principio deliberativo) e dalla partecipazione di tutti coloro che possono essere potenzialmente interessati alla decisione (principio di massima inclusione).
Come è stato osservato, il modello della democrazia deliberativa si sviluppa a partire dagli anni ’60, nell’ambito di quella che, con termine generale, è stata definita crisi della democrazia, ma che in +realtà comprende fenomeni assai diversi, quali la crisi della rappresentanza politica, gli effetti perversi dei processi di globalizzazione, l’affermazione del primato del mercato, il ruolo crescente delle elites nel processo di decisione pubblica, la professionalizzazione degli apparati pubblici con la conseguente sottrazione delle questioni da essi trattate all’opinione dei cittadini. In questo contesto, la crisi della democrazia rappresentativa -basata sulla mediazione e sul negoziato, e non sul dibattito attorno ai problemi- costituisce il punto di coagulo di rotture e difficoltà diverse, che si risolvono in una sorta di perdita di significato della sovranità popolare; correlativamente, la via della democrazia deliberativa acquista il valore (polemico) di una medicina volta a ricostituire il senso ed il valore della sovranità popolare; una medicina basata non sulla negoziazione o sulla delega della decisione ai partiti, ma su una informazione completa e su una discussione franca, capace di generare il consenso e di consentire che le decisioni più importanti non risultino appannaggio di elites politiche ed anche tecniche.
Si comprende, pertanto, come la democrazia deliberativa si collochi in un contesto fortemente critico della democrazia rappresentativa, ritenuta non più capace di ricondurre ad unità le contraddizioni ed i conflitti presenti nella società contemporanea, con il conseguente discredito del luogo dove essa trova il proprio spazio naturale -le assemblee legislative- ed i soggetti -i partiti- che all’interno di esse operano e determinano le scelte.
3. La democrazia deliberativa tende così a dare una risposta alla complessità sociale e ad eliminare le ragioni di conflitto e di disaccordo che in tale complessità si manifesta, anche per le asimmetrie informative dei diversi soggetti interessati. Si spiega così il fatto che nella democrazia deliberativa si realizza l’apporto di scienze diverse -storia, sociologia, politologia, filosofia e solo successivamente diritto- e come le relative figure appaiano dotate di una certa vaghezza ed indeterminazione, diretta conseguenza dell’attenzione al metodo ed ai valori con esso connessi e della disattenzione per la definizione formale di figure destinata ad operare non in un ambito giuridico-istituzionale, ma nell’arena pubblica, intesa come contesto informale, luogo democratico, accessibile a tutti dove è possibile comunicare pubblicamente e discutere di beni e regole di interesse collettivo (Habermas).
E’ in questo luogo democratico che è possibile tentare di superare il conflitto e realizzare il consenso -addirittura unanime- non attraverso il richiamo ad un unico interesse generale, ma attraverso una prospettiva eminentemente procedurale, capace di attribuire una speciale legittimazione, anche etica, alla decisione assunta.
Le teoriche connesse con la democrazia deliberativa realizzano, così, uno spostamento del focus dal polo istituzionale-statale a quello sociale (la società civile, protagonista della sfera pubblica), che diviene lo spazio in cui i principi che la governano -inclusione e deliberazione- trovano attuazione, attraverso le iniziative di cittadini, associazioni e gruppi sociali. Nella prospettiva tradizionale -che è quella di Habermas- società civile e istituzioni, spazio pubblico e spazio istituzionale, si muovono in una logica di separazione, a doppio binario: i procedimenti deliberativi non riguardano, pertanto, lo spazio istituzionale.
4. Una situazione del genere spiega, altresì, agevolmente perché, dietro il lemma democrazia deliberativa, si celino e si raccolgano approcci culturali diversi, talvolta anche contraddittori.
E’ stato, infatti, esattamente osservato che fra i teorici deliberativisti si manifestano prospettive assai differenti in relazione al valore riconosciuto alla procedura deliberativa ed alla “sede” nell’ambito della quale questa deve avere luogo.
In particolare, con riferimento al primo profilo, vanno segnalate le posizioni di coloro che attribuiscono allo scambio dialogico funzioni eminentemente epistemologiche, cariche anche di pretese veritative, nonché quelle di coloro che ritengono che lo scambio dialogico consenta di giungere alla creazione di consenso su basi ragionevoli anche nel contesto di società caratterizzate dal pluralismo.
Secondo una diversa prospettiva, la democrazia deliberativista ha un valore eminentemente legato                                   alla contestazione delle elites, dal momento che esso semplicemente consisterebbe in una serie di meccanismi con cui arrivare autonomamente alla deliberazione cosciente di proprie opinioni, senza doversi affidare ciecamente all’attività di una èlite decisionale (A. Guttmann – D. Thompson).
Con riferimento alla “sede” dei meccanismi deliberativi si afferma, da parte di alcuni, la loro “esportabilità” ad altre forme di democrazia, come quella rappresentata, ed è stata posta in luce l’importanza dello scambio dialogico quale premessa necessaria per la formazione consapevole dell’opinione e della volontà del corpo elettorale (Fisher, Ackerman).
Si comprende, così, come, a fronte di questa diversità di impostazioni e di vedute, si sia parlato di una vera e propria “indefinizione” delle teorie deliberative e del loro ambito di applicazione. Assai diverse sono, infatti, le risposte dei deliberativisti al quesito se le loro teorie possano trovare applicazione anche con riferimento agli istituti di democrazia rappresentativa. E così, se Habermas, pur postulando meccanismi di collegamento tra sfere pubbliche formali e sfere informali, colloca gli istituti di questa nell’ambito di quest’ultima sfera, Sunstein, pur evidenziando i rischi di radicalizzazione della democrazia deliberativa, ritiene che la sfida che essa pone vada accettata, in quanto capace di dar voce a gruppi che rimarrebbero esclusi, e sottolinea il ruolo specifico delle istituzioni pubbliche nella progettazione di forme eminentemente giuridiche in grado di evitare gli effetti perversi della radicalizzazione.
5. L’indeterminatezza dell’ambito di applicazione della democrazia deliberativa pone quindi un problema significativo, con riferimento ai suoi rapporti con la tutela giurisdizionale in genere e con quella amministrativa in particolare, ponendosi in dubbio la stessa esportabilità dei relativi modelli e dei relativi istituti al di fuori dell’arena pubblica informale.
A fronte di tale difficoltà, un approccio utile -e confermato dalla realtà fattuale- è offerto da quella prospettiva che vede nella democrazia deliberativa un insieme di teorie normative, che costituiscono principi regolativi che in parte aspirano a tradursi in applicazioni concrete che contribuiscono a misurare la qualità dei processi decisionali pubblici (Bifulco). La democrazia deliberativa diviene, così, un “metodo” della decisione “pubblica” -come tale esportabile al di fuori del proprio ambito naturale di applicazione- a e non un modello alternativo alla democrazia rappresentativa. Le difficoltà che incontrano, nella loro concreta realizzazione sia il principio deliberativo che il principio di massima inclusione, spingono così, a riconoscere il ruolo delle istituzioni politiche e delle costituzioni nella formazione del processo di deliberazione (Elster, Bifulco).
In questa prospettiva, appare possibile una comunicazione tra la democrazia deliberativa e le sue figure e gli istituti tradizionali della democrazia rappresentativa, una interpretazione “deliberativa” della Costituzione (destinata ad indicare e a custodire i “diritti” che devono essere garantiti all’interno delle procedure deliberative e -per i deliberativisti ad orientamento epistemico- i valori che le procedure deliberative sono volte a conseguire (ed una lettura “deliberativa” dei tre tradizionali poteri dello Stato (Bifulco), tra cui anche quello giurisdizionale.
6. Che le cose vadano nel senso sopra esposto risulta, d’altra parte, confermato dall’esame della legislazione positiva che registra ormai la presenza, in diversi paesi dell’Unione europea, di diversi istituti di democrazia deliberativa. Per quanto riguarda il quadro sovranazionale, può farsi riferimento alla Raccomandazione del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa sulla partecipazione dei cittadini alla vita pubblica a livello locale (2001), all’art. 11 del Trattato di Lisbona che individua quattro ambiti di partecipazione, e ad alcune direttive della Comunità europea, come la direttiva CE/2003/87 per lo scambio di quote di emissione dei gas ad effetto serra, che prevede una procedura statale complessa a doppia consultazione. Forme assai significative si hanno poi, in Francia, dove la legislazione in materia ambientale ha introdotto istituti come l’inchiesta pubblica -prima utilizzata solo nei procedimenti espropriativi- ed il dibattito pubblico.
Nel nostro paese a livello di legislazione statale, forme di democrazia deliberativa sono state introdotte in materia ambientale (artt. 14, 24, 24 bis e 122 d.lgs. 162/2006) mentre l’art. 22 del vigente codice dei contratti pubblici prevede ormai oltre a forme di consultazione, il dibattito pubblico ispirato a forme di democrazia deliberativa.
Quanto alla legislazione regionale, pare sufficiente ricordare che, sia pure in modo non sempre chiaro, diversi statuti regionali prevedono forme partecipative (si ricorda, in particolare lo Statuto della Regione Toscana che prefigura un modello organizzativo (la Conferenza permanente delle autonomie sociali) ed uno funzionale che riguarda procedimenti  aperti allorchè si debbano adottare decisioni di livello legislativo o amministrativo; quanto alla legislazione regionale, possono essere ricordate le leggi n. 8/2008 della Regione Emilia Romagna, che aggiunge alla l. n. 34/1999 un titolo sull’istruttoria pubblica, la legge della Regione Umbria n. 14/2010 (“Disciplina degli istituti di partecipazione alle funzioni delle istituzioni regionali”) la legge della Regione Toscana n. 46 del 2013 (“Dibattito pubblico regionale e promozione della partecipazione all’elaborazione delle politiche regionali e locali”), la legge della Regione Puglia n. 28/2017 sulla partecipazione.
Le indicazioni sopra esposte registrano, pertanto, con chiarezza il trasferimento di figure della democrazia partecipativa dall’arena informale a quella istituzionale, ed evidenziano così come i relativi procedimenti, come ogni procedimento nell’ordinamento nazionale, siano possibili di sottoposizione al sindacato giurisdizionale.
Le riflessioni sin qui esposte sono pertanto utili a superare una prima difficoltà, nei rapporti fra democrazia deliberativa e giurisdizione, evidenziando come un rapporto di tal genere è possibile, e deve ritenersi concretamente esistente, quanto meno con riferimento al controllo giurisdizionale dei procedimenti di democrazia deliberativa previsti dalle leggi.
Si deve, peraltro, osservare che molte delle discipline positive sopra ricordate fanno riferimento alla partecipazione, e cioè ad un istituto che, oltre ad essere espressamente menzionato in Costituzione, ha largamente ispirato la legislazione amministrativa, oltre che con disposizioni contenute in procedimenti speciali, con la disciplina generale di cui alla legge 7 agosto 1990 n. 241. La presenza degli istituti di partecipazione nell’ordinamento è considerato il principale strumento di attuazione di quella che viene definita “democrazia amministrativa”, e di definizione dello Statuto dei diritti del cittadino nei confronti del potere pubblico. Si pone così una duplice questione: una concernente il rapporto fra democrazia deliberativa e democrazia partecipativa, e l’altro riguardante la possibile relazione tra le forme di democrazia deliberativa-partecipativa con il controllo giurisdizionale, in particolare del giudice amministrativo.
7. Una distinzione netta fra democrazia deliberativa e democrazia partecipativa non è facile e non sempre è possibile tracciare una netta linea di demarcazione fra esperienze appartenenti al medesimo contesto culturale. Si afferma, tuttavia, che alla democrazia partecipativa andrebbero ricondotte, in linea di principio, le forme storiche con cui i cittadini prendono parte al processo decisionale in maniera informata, mentre la democrazia deliberativa si risolverebbe in un ideale normativo, elaborato in via astratta, che, sottoponendo il processo decisionale ad alcuni principi, finirebbe per condizionare la validità stessa della decisione pubblica (Bifulco). La differenza starebbe, pertanto, sul piano dell’efficacia (Vipiana), dal momento che, mentre la democrazia partecipativa il coinvolgimento degli interessati produrrebbe una mera influenza nella decisione finale, nella democrazia deliberativa, i soggetti coinvolti orienterebbero la decisione finale, che sarebbe assunta nel tendenziale rispetto del processo deliberativo.
Una distinzione del genere appare, tuttavia, incerta e problematica, come è dimostrato dal fatto che anche chi propone con forza tale distinzione (Bifulco) afferma che la democrazia deliberativa può svolgersi attraverso le forme della democrazia partecipativa. Ed infatti, se, come si afferma, le pratiche partecipative rappresentano applicazioni della democrazia deliberativa, appare evidente che le due forme vanno ricondotte al medesimo contenuto concettuale, anche se la cornice teorica della seconda non si esaurisce nella prima. La circostanza, infatti che la democrazia deliberativa costituisca una pretesa normativa di carattere generale non esclude, ed anzi conferma, che alla stessa radice concettuale debbano essere ricordate le concrete esperienze conosciute dagli ordinamenti, per lo più rientranti nell’esercizio del potere amministrativo. Può, pertanto, essere condivisa l’opinione secondo cui tra la democrazia deliberativa e quella partecipativa sussisterebbe un rapporto di genere a specie, ma con l’avvertenza che proprio questo rapporto riconduce entrambe al medesimo nucleo concettuale, volto a prendere in considerazione le forme (istituzionalizzate e non) dell’interazione fra istituzione e società.
Può pertanto essere condiviso quell’approccio (Allegretti) che vede in esse due forme di democrazia “destinate ad incrociarsi e così a guadagnare reciprocamente”, così giustificando una considerazione tendenzialmente unitaria, come fa chi vede nella democrazia deliberativa declinazioni del rapporto tra partecipazione e democrazia (Cassese), o chi addirittura ritiene di suggerire una formula di sintesi, come quella di democrazia partecipata (Patroni Griffi), tratta dalla formula del procedimento amministrativo partecipato. Gli istituti di democrazia partecipata costituiscono forme storiche, di realizzazione negli ordinamenti, di democrazia deliberativa; e non a caso chi ha studiato le forme di democrazia deliberativa e le sue attuazioni concrete (Vipiana), fa riferimento a istituti come il dibattito pubblico, che vengono indicati in sede comparata, come forme di democrazia partecipativa (Cassese).
Può allora ritenersi che la democrazia partecipativa o deliberativa ha abbandonato la dimensione meramente fattuale dell’arena pubblica informale, per penetrare ed informare di seʽ gli ordinamenti, con particolare riguardo a quello amministrativo, realizzando in modo più o meno intenso alcune esigenze della logica deliberativa. Ciò che conta, in questa prospettiva, è che il nucleo concettuale e valoriale della partecipazione ha investito ormai l’ordinamento realizzando forme che, talvolta sembrano raggiungere finalità riconducibili all’idealtipo della democrazia deliberativa. Sotto questo profilo, può forse essere utilizzato quell’approccio (Antonelli) che distingue le tradizionali forme di partecipazione del cittadino, fondate sulla disciplina dettata dalla legge n. 241, da quelle, invece definite “atipiche”, previste dalla legislazione regionale e dalle discipline statali sull’ambiente e sui contratti pubblici, che sembrano realizzare con maggior intensità esigenze comuni con il procedimento deliberativo in senso stretto.
8. L’ingresso nell’ordinamento di forme di democrazia partecipativa-deliberativa postula quanto meno per quelle che attengono all’esercizio del potere pubblico, uno strutturale collegamento con la tutela giurisdizionale in genere, e con quella del giudice amministrativo in particolare.
Ed infatti, se, ormai, a seguito della legge n. 241/1990 e delle discipline positive che introducono forme speciali di procedimento, tutta l’attività amministrativa è procedimentalizzata, e se ogni manifestazione del potere amministrativo è sottoposto alla tutela giurisdizionale (art. 113, primo comma, Cost.) appare evidente  che quest’ultima investe anche quelle decisioni assunte utilizzando moduli e figure che costituiscono applicazione o realizzazione dei principi di democrazia deliberativa.
In realtà, il rapporto fra le forme di partecipazione procedimentale e le forme di tutela giurisdizionale è più profondo e risalente. Nella partecipazione, come prevista dalla legge n. 241 confluiscono sia istanze proprie del modello austriaco di procedimento, di natura spiccatamente garantista, sia echi del modello statunitense, ispirato ad esigenze di rappresentazione degli interessi o di “partecipazione politica”, come qualcuno (Torchia) preferisce affermare.
E’ stato esattamente osservato (Cassese) che la partecipazione si colloca sul crinale tra amministrazione,  giustizia e democrazia. Val quanto dire che -proprio per realizzare una democrazia di maggior qualità- attraverso l’istanza garantista del procedimento la tutela viene anticipata alla fase procedimentale, e che la non adeguata considerazione di un interesse rappresentato da un privato cui l’ordinamento attribuisce non una mera facoltà, ma un interesse differenziato alla partecipazione può trovare una occasione di riesame nella sede giurisdizionale.
9. Le osservazioni sin qui svolte evidenziano che una democrazia deliberativa considerata come modello ideale da incarnarsi nelle tradizionali forme della democrazia rappresentativa ben può porsi in relazione con le tradizionali funzioni dello Stato, ed in particolare con quella giurisdizionale.
E’ stato infatti posto in luce che, proprio per la difficoltà di confinare le pretese della democrazia deliberativa all’interno della sola sfera pubblica o della società civile, le stesse entrano necessariamente in contatto con gli ambiti regolati dalla Costituzione, e quindi, in via di stretta consequenzialità, con le tradizionali funzioni dello Stato. Le costituzioni, infatti, incrociano la democrazia deliberativa sia nella versione epistemica, sia in quella “mista”, contribuendo a fissare il quadro dei principi che devono governare e delimitare il processo deliberativo nel suo rapporto con le istituzioni. In questo modo, il tipo di democrazia di cui si discute incrocia anche le principali funzioni statali, tratteggiate dalla Carta costituzionale, consentendo una lettura “deliberativa” dei tradizionali poteri dello Stato; esito, questo, che può apparire sorprendente soltanto a chi trascuri la naturale attenzione che le forme di democrazia procedurale riservano alle istituzioni, chiamate, in un certo momento storico, a fornire ad un tempo garanzia al processo deliberativo e concretezza alla sua realizzazione. Le difficoltà che il principio di inclusione e il principio deliberativo incontrano nella propria realizzazione spingono le teorie deliberative a riconoscere il ruolo delle istituzioni (Bifulco): un ruolo ordinante e strutturante dello stesso processo deliberativo.
Ciò non significa, peraltro, che il rapporto tra democrazia deliberativa e funzione giurisdizionale sia facile. Se, infatti, è nell’azione esecutiva -e nelle forme concrete di attuazione ed implementazione delle politiche pubbliche che trovano  realizzazione le forme della democrazia deliberativa, ciò non avviene con riferimento alla giurisdizione, almeno con la funzione giurisdizionale in generale.
Il rapporto fra democrazia deliberativa e giurisdizione appare, anzi, ad una prima lettura, irto di contraddizioni. Da una parte, la funzione giurisdizionale, in quanto caratterizzata dall’assunzione di decisioni dopo una procedura in contraddittorio, dovrebbe essere considerata, in qualche modo, naturalmente deliberativa; dall’altra la democrazia deliberativa, in molte delle sue elaborazioni culturali, sembra evidenziare una sorta di sospetto, se non di vera e propria ostilità nei confronti del potere giudiziario e del suo operato. E’ stato, infatti, posto in luce in dottrina (Sunstein) che in una democrazia deliberativa ed alla stregua di una interpretazione deliberativa del testo costituzionale il potere giudiziario dovrebbe essere riservato un ruolo obiettivamente secondario, rispetto a quello, fondamentale, che svolgono i cittadini attraverso i processi di partecipazione e lo scambio informato. In questa prospettiva, è stato osservato che le Corti non possono essere considerate il luogo privilegiato del processo deliberativo: ciò equivarrebbe, infatti, a confinare quest’ultimo in un ambito ristretto e limitato, secondo una logica opposta a quella che intende estenderla a tutto il processo democratico.
L’atteggiamento critico non risparmia le Corti costituzionali, nonostante ad esse venga spesso, secondo autorevoli prospettazioni, riconosciuta natura deliberativa, ponendosi i giudici costituzionali, in quanto facenti uso della ragione pubblica, chiamati a valutare il punto di contatto fra deliberazione e rappresentanza, come i custodi della democrazia deliberativa (Rawls). A questo approccio viene, infatti, rimproverato un carattere eminentemente elitario, laddove il processo deliberativo deve essere esteso all’intero processo politico pubblico (Gutmann e Thompson).
Soprattutto negli Stati Uniti, i cultori della democrazia deliberativa esercitano una critica serrata nei confronti del costituzionalismo, laddove si ritenga che le funzioni della deliberazione e della difesa dei diritti sono state sostanzialmente consegnate alla Corte suprema e ad essa soltanto (Gutmann e Thompson).
E’ stato, così, osservato che non sono pochi i teorici della democrazia deliberativa che guardano con cautela ad un potere, come quello giurisdizionale, che può mettere nel nulla i risultati di processi decisionali uniformati ai principi della deliberazione (Bifulco, Nino); mentre anche da parte dei giuristi che più hanno studiato le forme della democrazia partecipativa, è stato formulato l’auspicio di un certo self restraint dei giudici rispetto alle regole di tale democrazia.
In una prospettiva diversa, consapevole del ruolo fondamentale svolto dalle Corti nella democrazia moderna, è stata, invece, auspicata, una lettura “deliberativa” della funzione giurisdizionale, con una sottolineatura del ripensamento del rapporto tra questa e la funzione legislativa, e con una configurazione del potere giudiziario come strumento della sovranità popolare (Bifulco). Alla radice di questo modo di pensare c’è, poi, la crisi della legge, come strumento regolativo ed il ruolo crescente della governance giudiziaria, costituita da un complesso di Corti che tendono sempre di più a sostituire alla vaghezza delle previsioni legislative le indicazioni dell’interpretazione giurisprudenziale, ed a costituire un sistema di certezze relative attraverso l’esercizio delle funzioni di nomofilachia.
Il rapporto tra i principi della democrazia deliberativa con la funzione giurisdizionale quale concretamente si dipana nell’operato delle Corti appare, quindi, sotto molti aspetti, problematico, dal momento che, come è stato osservato, da un punto di vista teorico la democrazia deliberativa tende a restringere il ruolo di un potere che potrebbe entrare in contrasto con i suoi presupposti, quali quello della massima condivisione.
10. La presenza di tali difficoltà -e di un possibile cortocircuito tra potere giudiziario e democrazia deliberativa- è resa evidente dalla considerazione di alcune esperienze straniere. In uno studio recente di diritto comparato Sabino Cassese ha sottolineato come l’esame di alcuni casi evidenzi il modo diverso di porsi dei giudici nei confronti dell’amministrazione. In Francia e nel Regno Unito le Corti riconoscono, infatti, una immunità da sindacato in particolare aree, come quelle procedurali, mentre ciò non avviene negli Stati Uniti.
Particolarmente significativa è l’esperienza francese, che ha riferimento ad istituti di democrazia partecipativa-deliberativa, il dèbat public e l’ènquête publique, previsti dal codice del’ambiente. Ciò che colpisce, infatti è che, mentre la decisione di aprire o non aprire il dibattito può essere oggetto di impugnazione, non sono invece impugnabili le ulteriori decisioni che può assumere la Commissione chiamata a definire il dibattito pubblico (Conseil d’Etat, 14 june 2002, n. 215154; 5 avril 2004 n. 254775). Come afferma significativamente Cassese, “il legislatore e il giudice hanno isolato l’amministrazione per impedire che il privato, una volta fatta sentire la sua voce in una procedura imparziale …. riapra lo stesso ordine di questioni dianzi al giudice amministrativo”.
Uno strumento di democrazia deliberativa-partecipativa è, così, utilizzato per impedire l’ingresso alla tutela giurisdizionale.
Il legislatore francese ha organizzato lo svolgimento dell’attività amministrativa in forma paragiurisdizionale, garantendo l’indipendenza del soggetto incaricato di dirigere il dibattimento e l’imparzialità di questo; ma, introdotta la democrazia nell’amministrazione, la legge sottrae l’esercizio della democrazia amministrativa al controllo dei giudici (Cassese).
11. Con tutto questo, non può negarsi che l’attività giurisdizionale sia comunque suscettibile di una lettura deliberativistica, e che debbano essere riconosciuti importanti momenti  di collegamento tra la democrazia deliberativa e la funzione giurisdizionale. In primo luogo, infatti, se la democrazia deliberativa è innanzi tutto di tipo procedurale, non può essere sottovalutato il ruolo determinante del giudice come controllore del procedimento e come garante dei diritti fondamentali che caratterizzano la democrazia deliberativa, sia nella sua versione più eminentemente procedurale che in una versione di tipo epistemico. Si tratta, infatti, di assicurare, attraverso la tutela giurisdizionale, che i canali della rappresentanza e della deliberazione non rimangano preclusi o ostruiti, e che sia dato adeguato, concreto riconoscimento a quei principi di carattere sociale propri delle procedure deliberative.
In secondo luogo, se il metodo deliberativo è caratterizzato da un dibattito informato sui fatti, da uno scambio di informazioni ed argomenti, non può essere considerata estranea a tale metodo una funzione, come quella giurisdizionale, caratterizzata in modo eminente dal principio del contraddittorio, dalla pienezza dell’istruttoria e dal principio di parità delle armi, dell’indipendenza del soggetto che è chiamato ad assumere la decisione finale.
Principio del contraddittorio, istruttoria, principio della parità delle armi, indipendenza del giudice, avvicinano l’esercizio della funzione giurisdizionale alle modalità della democrazia deliberativa e costruiscono la decisione giudiziaria come quella presa all’esito di un “giusto” processo deliberativo.
In terzo luogo, la circostanza che le sentenze siano pronunciate “in nome del popolo” incoraggia a considerare l’esercizio della funzione giurisdizionale come una modalità di esercizio della sovranità popolare.
Le osservazioni sopra esposte inducono pertanto a ritenere che la pronuncia del giudice può alla fine essere considerata come assunta all’esito di un “giusto” processo deliberativo. Proprio la considerazione della giustizia amministrativa appare particolarmente utile per confermare, almeno nel nostro ordinamento, tale esito.
12. E’ stato esattamente osservato (Bifulco) che le teorie della democrazia deliberativa tendono a tradursi in forme concrete ed a trovare, quindi, attuazione nell’esercizio del potere amministrativo, attraverso le forme della democrazia partecipativa che realizzano modi diversi di interazione fra istituzioni e società. La piena procedimentalizzazione dell’attività amministrativa favorisce in modo significativo questo esito, contribuendo a realizzare, nel contempo, una democratizzazione dell’amministrazione ed un incremento di legittimazione della decisione amministrativa assunta.
Ora, la giurisdizione amministrativa è, appunto, giurisdizione su tutti gli atti della pubblica amministrazione (art. 113, primo comma, Cost.), su tutte le forme di esercizio del potere amministrativo (art. 7, c. 1, c.p.a.), su ogni procedimento posto in essere dalle pubbliche amministrazioni e sul silenzio da esse mantenuto su qualunque istanza del cittadino, ed in ultima analisi su qualunque manifestazione del potere riguardante provvedimenti, atti, accordi o comportamenti riconducibili anche mediatamente all’esercizio del potere pubblico (art. 7, c.1, c.p.a). Quella amministrativa, d’altra parte, non è più da tempo, una giurisdizione sull’atto, ma è divenuta una giurisdizione sul rapporto, su di un rapporto che si instaura, normalmente, attraverso un procedimento o una richiesta di esso, e persino nonostante la mancanza di esso, potendo, dopo la inutile conclusione del procedimento, la parte interessata chiedere l’accertamento dell’obbligo dell’amministrazione di provvedere (art. 31, c. 1, c.p.a.).
Si tratta di una giurisdizione che attua i principi di parità delle parti, del contraddittorio e del giusto processo (art. 2, c. 1, .p.a.), con una cognizione da tempo estesa al fatto.
Val quanto dire che la giurisdizione amministrativa non solo è leggibile, nella sua struttura, in qualche modo alla luce del paradigma deliberativo, ma costituisce il luogo privilegiato di verifica e controllo di quelle istanze deliberative che si traducono in forme concrete di democrazia partecipativa (e non solo di queste: si pensi, ad esempio, al sindacato sulle indizioni di referendum consultivi previsti dalla legislazione regionale). In questa ottica acquistano particolare rilievo la giurisprudenza sul procedimento amministrativo, quando è volta ad assicurare i diritti di chi può considerarsi titolare di una posizione differenziata rispetto al procedimento e non soltanto interessato ad esso, la giurisprudenza sulle forme speciali ed atipiche di partecipazione procedimentale e la giurisprudenza sull’istruttoria, specie quando questa può portare a decisioni assunte con un surplus di informazione. La democrazia deliberativa può, infine, svolgere un ruolo decisivo, attraverso la qualità del procedimento, nell’incremento della qualità concreta del principio di legalità.
13. Come si è visto, la figura del dibattito politico, dopo essere stata prevista dalla legislazione regionale, ha trovato ingresso anche nella legislazione nazionale attraverso previsioni contenute nell’art. 22 del d.lgs. n. 50 del 2016. In particolare, mentre il comma 1, dispone che, quanto ai progetti di fattibilità relativi alle grandi opere infrastrutturali, siano pubblicate da parte delle amministrazioni aggiudicatrici e degli enti aggiudicatori “gli esiti della consultazione pubblica, comprensivi dei resoconti degli incontri e dei dibattiti con i portatori di interesse”, il successivo comma 2 indica espressamente la procedura di dibattito pubblico, rimettendo ad un apposito decreto del Presidente del Consiglio dei ministri la determinazione dei criteri per l’individuazione delle opere per le quali è obbligatorio il ricorso alla pronuncia medesima, le modalità di svolgimento ed il termine di questo, nonché le modalità di monitoraggio sull’applicazione dell’istituto. A quanto richiesto dall’art. 22 del d.lgs. n. 50 del 2016 si è provveduto con il d.p.c. 10 maggio 2018 n. 76, dedicato al dibattito pubblico inteso “qual processo di informazione, partecipazione e confronto pubblico sull’opportunità, sulle soluzioni progettuali di opere, su progetti o interventi di cui all’allegato 1”.
Il decreto disciplina l’ambito di applicazione dell’istituto (art. 1); provvede alla istituzione, presso il Ministero delle infrastrutture, della Commissione nazionale per il dibattito pubblico, con compiti di monitoraggio del corretto svolgimento della procedura, di predisposizione di raccomandazioni di carattere generale, di garanzia dell’idoneità e della tempestività della pubblicità e di informazione sulla procedura, di organizzazione delle attività di monitoraggio e di pubblicità a livello territoriale, di referto al Governo e alle Camere, con cadenza biennale sulle risultanze dell’attività di monitoraggio; disciplina la procedura del dibattito pubblico, indicando le modalità di indizione (art. 5) e i compiti del coordinatore (art. 6), quelli dell’amministrazione aggiudicatrice o dell’ente aggiudicatore (art. 7) le modalità di svolgimento (art. 8) e conclusione (art. 9). Ai sensi, infatti, dell’art. 22, c. 4 del d.lgs. n. 50 del 2016, gli esiti del dibattito pubblico e le osservazioni raccolte sono valutate in sede di predisposizione del progetto definitivo e sono discusse in sede di conferma dei servizi relativi all’opera sottoposta al procedimento.
La disciplina del dibattito pubblico è troppo recente (specie quella, decisiva, contenuta nel d.p.c.m n. 76 del 2018); già dall’esame di essa è possibile ricavare che il legislatore ha introdotto un istituto assai diverso da quello analogo francese, posto che quest’ultimo è volto ad evitare che il dibattito prosegua in sede giurisdizionale. Al contrario, il modello italiano rende evidente che quella giurisdizionale, eventualmente investita dell’impugnazione del progetto definitivo dell’opera o degli esiti della conferenza di servizi, diviene il luogo proprio di controllo dello svolgimento della procedura deliberativa, sia con riferimento alla tipologia di opera, sia in relazione all’indicazione ed al rilievo delle questioni aperte, sia riguardo all’esatto svolgimento degli obblighi del coordinatore e delle amministrazioni aggiudicatrici, sia infine alla rilevanza degli esiti del dibattito pubblico in riferimento al progetto definitivamente approvato.
La giustizia amministrativa fornisce, così, tutela ai protagonisti del dibattito pubblico ed evidenzia il rilievo che comunque ai suo esiti deve essere riconosciuto con riferimento all’approvazione del progetto definitivo.
Con riferimento, invece, al dibattito pubblico previsto dalle leggi regionali, è intervenuta la Corte costituzionale per indicarne i limiti e nel contempo le caratteristiche che ne fanno un istituto fondamentale di democrazia amministrativa.
Con sentenza 14 dicembre 2018 n. 235 la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 7, c. 5 della l. n. 28 del 2017 della Regione Puglia, nella parte in cui prevede che il dibattito pubblico regionale si estende alle opere statali, in quanto costituisce duplicazione di quello previsto dall’art. 22 del d.lgs. n. 50 del 2016, con conseguente aggravio procedimentale, con la stessa pronuncia la Corte ha, tuttavia, precisato che il dibattito pubblico configura, analogamente all’inchiesta pubblica di cui all’art. 24 bis del d.lgs. n. 152 del 2006, una tappa fondamentale nel cammino della cultura della partecipazione, rappresentata da un procedimento amministrativo che ha, tra i suoi passaggi fondamentali, il confronto tra l’amministrazione che propone l’opera e i soggetti, pubblici e privati, coinvolti nei suoi effetti, idoneo a disinnescare il conflitto potenzialmente implicito in qualsiasi intervento che abbia impatto significativo sul territorio.
14. Se sul dibattito pubblico, come previsto dall’art. 22 del d.lgs. n. 50 del 2016, non si è ancora formata giurisprudenza, altrettanto non può dirsi per quegli istituti riguardanti non il procedimento ma l’accesso e la promozione del dibattito pubblico. Il riferimento è all’accesso civico generalizzato, introdotto dal d.lgs. n. 97 del 2016 che, secondo la giurisprudenza amministrativa, trova la sua ratio proprio nella dichiarata finalità di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la partecipazione al dibattito pubblico (TAR Lombardia, Milano, 11 ottobre 2017 n. 1951). La finalità dell’istituto è infatti quella di consentire forme diffuse di controllo (TAR Abruzzo, Pescara, 22 novembre 2018 n. 347) e non un bisogno conoscitivo esclusivamente privato; esso, quindi, si differenzia strutturalmente dall’accesso previsto dalla legge n. 241 del 1990, la quale esclude, appunto l’esercizio del relativo diritto per sottoporre a controllo l’amministrazione (TAR Lazio, 2 luglio 2018 n. 7926); per converso, lo stesso accesso generalizzato, pur costituendo uno strumento di partecipazione degli interessati all’attività amministrativa e di promozione del dibattito pubblico, non può essere utilizzato in modo disfunzionale rispetto alle sue finalità ed essere trasformato in una causa di intralcio al buon funzionamento dell’amministrazione, sicchè la valutazione dell’utilizzo dell’istituto secondo buona fede va fatta caso per caso (TAR Lombardia, Milano, 11 ottobre 2017 n. 1951). Sull’accesso civico è di recente intervenuto il Consiglio di Stato (Sez. III, 6 marzo 2019 n. 1546), che ha confermato che l’istituto risponde ai principi di trasparenza e di imparzialità e di partecipazione dei cittadini alla gestione della cosa pubblica, dal momento che attraverso di esso è possibile realizzare una migliore partecipazione al dibattito pubblico. In questa ottica l’accesso civico generalizzato diviene strumento, ai sensi degli artt. 1, 2 e 118 Cost., volto a favorire la spontanea cooperazione dei cittadini con le istituzioni pubbliche attraverso la partecipazione alle decisioni ed alle azioni che riguardano la cura dei beni comuni (Cons. Stato, n. 1546 del 2019, cit.).
15. Interessante appare, altresì, la giurisprudenza del giudice amministrativo e della Corte costituzionale su quello strumento di democrazia deliberativa che può essere considerato il referendum regionale. In proposito, il giudice amministrativo ha negato la sussistenza della propria giurisdizione con riferimento alla possibilità di sindacare la deliberazione di inammissibilità, essendosi osservato che i proprietari sono titolari di una posizione soggettiva che, in quanto collegata al fondamentale diritto degli elettori di dar corso alla procedura, non può esser decisa ne’ degradata dagli organi chiamati ad intervenire nel procedimento, e che è quindi descritta come di diritto (pubblico) soggettivo, con la conseguente giurisdizione del giudice ordinario (TAR Abruzzo, 4 settembre 1990 n. 421; conforme, TAR Toscana, 7 dicembre 1981 n.982). Altre volte, invece, il giudice amministrativo non  ha declinato la giurisdizione ed affermato la manifesta infondatezza della norma dello Statuto regionale che demanda la decisione sull’ammissibilità ad un organo politico, in quanto la qualificazione come amministrativa dell’attività di verifica dell’ammissibilità del referendum ne comporta l’assoggettamento al sindacato dei giudici (TAR Lombardia, 9 dicembre 1982 n. 1171).
I limiti del referendum consultivo regionale sono stati, invece, precisati dalla Corte costituzionale. E’ stato, così, affermata l’illegittimità costituzionale, per violazione degli artt. 5, 114, 138 e 139 Cost., della legge della Regione Veneto 19 giugno 2014 n. 16, che prevede l’indizione di un referendum consultivo sull’indipendenza del Veneto.
Ad avviso della Corte, i principi di pluralismo sociale ed istituzionale non possono essere estremizzati fino alla frammentazione dell’ordinamento e non possono essere invocate a giustificazione di iniziative anche solo consultive, su prospettive di secessione, e cioè su questioni che riguardano scelte fondamentali di livello costituzionale e che suggeriscono sovvertimenti istituzionali incompatibili con i principi di indivisibilità della Repubblica (Corte cost., 25 giugno 2015, n. 118).
In passato, peraltro, la stessa Corte aveva dichiarato illegittimo il provvedimento di indizione di un referendum consultivo del Presidente della Regione Sardegna circa la presenza di basi militari straniere nel territorio della Regione, e ciò perché si trattava di quesiti attinenti alla politica internazionale ed alla difesa militare, quindi relativi ad interessi nazionali di carattere unitario (Corte cost., 18 maggio 1989 n. 256).
16. Un posto certamente di rilievo, con riferimento alla tutela giurisdizionale, deve essere riconosciuto alla consultazione nella regolazione dei mercati. L’attività regolatoria, infatti, per essere incisiva, deve poter contare su di una capillare piattaforma conoscitiva, avente ad oggetto i dati tecnici e di funzionamento del mercato; a tal fine occorrono non solo ampi poteri di acquisizione e di indagine, ma anche strumenti procedimentali in gradi di assicurare un ampio ventaglio di informazioni.
In questo contesto, l’attitudine del modello regolatorio a garantire un contraddittorio paritario è stata ritenuta condizione indefettibile per salvaguardare il carattere democratico della governance economica. Anche la partecipazione si caratterizza in modo peculiare nei processi regolatori, dal momento che in seno ad essi non si tratterebbe tanto di procedere alla comparazione di interessi pubblici e privati sulla scorta dei principi definiti dal legislatore, quanto piuttosto, di procedere alla formazione di un interesse compositivo, volto al bilanciamento  di  bisogni contrapposti. Si è così, radicata nell’esperienza italiana la prassi, propria del modello statunitense, del notice and comment consistente nella previa comunicazione agli operatori del progetto di regolazione, consentendo agli interessati di far pervenire il proprio contributo informativo e valutativo anche attraverso audizioni. La specialità del procedimento e la particolare rilevanza del principio del contraddittorio hanno condotto all’affermazione giurisprudenziale secondo la quale ai procedimenti regolatori delle autorità indipendenti non si applicano le regole generali dell’azione amministrativa che escludono dall’ambito di applicazione delle norme sulla partecipazione l’attività diretta all’emanazione di atti amministrativi generali (Cons. Stato, VI, 11 aprile 2006 n. 2007).
Per altro verso, va ricordato che, come è stato detto, esiste un rapporto “spinoso” tra regolazione e legislazione (M. Ramajoli): la regolazione è disciplina che procede per via di assestamenti successivi, assecondando un processo economico tendenzialmente anarchico, e che incarna un modello di “giuridicità camaleontica ….. chiamata a servire i mutevoli bisogni del mercato” (M. R. Ferrarese).
Le autorità di regolazione operano, infatti, in forza di un dettato normativo laconico, fondato su prognosi incerte e rinvii in bianco all’esercizio futuro del potere, caratterizzato da clausole generali da concretizzare (Cons. Stato, VI, 17 ottobre 2005 n. 5827).
In una situazione del genere, che vede la logica della regolazione invocare un costante intervento giurisdizionale di determinazione dei presupposti e dei limiti del potere, si è progressivamente affermata l’idea di compensare la dequotazione del principio di legalità in senso sostanziale con un rafforzamento significativo della legalità procedurale, con la conseguente affermazione che l’esercizio di poteri regolatori da parte di autorità poste al di fuori della tradizionale tripartizione dei poteri e dal circuito di responsabilità delineato dall’art. 95 Cost., sia giustificato e comparato e grazie all’esistenza del procedimento partecipativo, inteso come strumento sostitutivo della dialettica propria degli organismi rappresentativi (Cons. Stato, VI, 20 aprile 2006 n. 2206). Il principio di legalità impone, infatti, di norma, non solo l’indicazione del fine pubblico da perseguire, ma anche la predeterminazione, in funzione di garanzia, del contenuto e delle condizioni dell’esercizio dell’attività regolamentare ordinariamente esercitata dallo Stato ai sensi dell’art. 17 della l. n. 400 del 1988.
Nel caso degli atti di regolazione delle Autorità la legge non indica, tuttavia, nei dettagli, il relativo contenuto ne descrive le condizioni e i limiti di esercizio dell’attività. La parziale deroga al principio di legalità in senso sostanziale si giustifica, nel caso delle Autorità indipendenti, in ragione dell’esigenza di assicurare il perseguimento dei fini che la stessa legge predetermina: il particolare tecnicismo del settore impone, infatti alle autorità il compito di adeguare costantemente le regole all’evoluzione del sistema (Cons. Stato, VI, 20 marzo 2015 n. 1532).
La prospettiva indicata dalla giurisprudenza amministrativa è stata condivisa dalla Corte costituzionale, che, con la sentenza n. 69 del 2017 ha fatto propria la declinazione procedurale del principio di legalità, dal momento che la difficoltà di predeterminare con leggi i presupposti delle funzioni amministrative, comporterebbe un inevitabile pregiudizio alle esigenze sottese alla riserva di legge, se non fossero quanto meno previste forme di partecipazione degli operatori di settore al procedimento di formazione degli atti.
Questa posizione della giurisprudenza del giudice amministrativo (ed adesso anche della Corte Costituzionale) è criticata dalla dottrina, che dubita del fatto che la garanzia procedimentale possa compensare l’indeterminatezza dei contenuti sostanziali della legge (M. Ramajoli). Lo speciale ruolo che il rispetto della legalità in senso procedimentale riveste con riferimento all’esercizio dell’attività di regolarizzazione è stato sottolineato dalla giurisprudenza, che ha, appunto, affermato che tale attività non ammette lo svolgimento ex post di un giudizio controfattuale (o di prognosi postuma) che una doverosa partecipazione avrebbe potuto produrre ove fosse stata correttamente ammessa. E’ stato, infatti, affermato che un approccio del genere può essere compatibile con il principio di strumentalità delle forme che accompagna il dibattito sulle omissioni processuali nei procedimenti “tipici”, ma non può essere trasferito al diverso settore dell’esercizio dell’attività di regolazione delle Autorità indipendenti, dal momento che nell’ambito di essa la corretta instaurazione dell’interlocuzione procedimentale   costituisce una delle condizioni di conformità a costituzione del modello regolatorio prima ancora che di conformità alla legge (Cons. Stato, VI, 20 marzo 2015 n. 1532).
17. Un lettura “deliberativa” del processo giurisdizionale amministrativo non può prescindere da una considerazione del valore dell’istruttoria. Ed infatti, se della democrazia deliberativa un ruolo fondamentale è svolto dalla modalità deliberativa e cioè dallo scambio di informazioni ed argomenti, un ruolo di primo piano deve essere riconosciuto a quella modalità deliberativa del processo giurisdizionale costituito dallo scambio di elementi informativi e valutativi che si realizza attraverso l’istruttoria svolta in contraddittorio.
Una considerazione del genere spiega perché le ragioni dell’istruttoria, ed in particolare, l’evoluzione della giurisprudenza sulla consulenza tecnica d’ufficio, hanno condotto alla configurazione di un sindacato sempre più penetrante sugli atti delle Autorità indipendenti, sia che queste svolgessero compiti di natura regolatoria, sia che invece procedessero secondo schemi più tradizionali, come l’Autorità garante della concorrenza e del mercato.
Per ciò che riguarda i mezzi di prova ammissibili nel sindacato giurisdizionale sulle autorità indipendenti, va ricordato che, a partire dal 2002 è stato affermato il pieno accesso del giudice al fatto ed è stato messo in luce l’importanza dello strumento della consulenza tecnica, prima limitata alla giurisdizione esclusiva, e poi estesa anche alla giurisdizione di legittimità, che ha messo nel nulla le limitazioni processuali invocate per giustificare le limitazioni del sindacato del giudice  
Nell’esercizio di tale sindacato è stato quindi ritenuto ammissibile l’utilizzo della consulenza o della verificazione; attraverso lo strumento della consulenza può infatti essere delegato al CTU l’accertamento di un presupposto di fatto, ovvero richiesto un ausilio finalizzato ad ampliare la conoscenza del giudice con apporti tecnici specialistici ben precisati, appartenenti a campi del sapere caratterizzati da obiettiva difficoltà (Cons. Stato, Sez. IV, n. 5287/2001). La Corte di Lussemburgo, d’altra parte, ha ritenuto ammissibile il ricorso allo strumento della C.T.U. nell’ambito dei giudizi in materia di concorrenza (Corte giust. CE, C- 89/95, 31.3.93, Woodfulp-Pasta di Legno), anche se ha fatto ricorso ad esso con cautela.
E’ stata, così, disposta CTU, in una controversia riguardante un provvedimento per il recupero di somme percepite da una impresa a titolo di prezzo incentivante per la cessione di energia elettrica, per verificare sia l’attendibilità dei criteri di calcolo, sia la correttezza del calcolo eseguito dall’AEEG per la determinazione della quantità di energia assorbita dai servizi ausiliari (Cons. Stato, ord. 7 marzo 2016, n. 899).
E così, la tendenza ad esercitare un sindacato pieno, con accesso diretto al fatto, e con riferimento all’attendibilità dei parametri tecnici utilizzati, è stata accompagnata, sul piano istruttorio, dal ricorso a mezzi quali la consulenza tecnica e la verificazione. Il giudice amministrativo è pervenuto, così, all’affermazione che il sindacato sulla discrezionalità tecnica è pieno e penetrante, e che esso si svolge tanto quanto con riguardo ai vizi propri dell’eccesso di potere, quanto attraverso la verifica dell’attendibilità delle operazioni tecniche compiute, fermo restando il limite della relatività delle valutazioni scientifiche e della scienza economica, sicchè al giudice è consentito censurare la sola valutazione che si ponga al di fuori dell’ambito dell’opinabilità, di modo che il relativo giudizio non divenga sostitutivo di una valutazione parimenti opinabile (Cons. Stato, VI, 6 maggio 2014 n. 2302); l’apprezzamento dei fatti ed i profili tecnici sottostanti al provvedimento dell’autorità sono, quindi, censurabili, quando risulti superato il margine di opinabilità delle scelte (Cons. Stato, VI, 12 giugno 2015 n. 2888). In senso sostanzialmente conforme si è pronunciata la Corte regolatrice (Cass., sez. un., 17 marzo 2008 n. 7063; 20 gennaio 2014 n. 1013).
Deve, peraltro, essere ricordato che, negli ultimi tempi, la giurisprudenza del giudice amministrativo sembra auspicare il passaggio da un sindacato di attendibilità delle valutazioni tecniche ad un sindacato di maggiore attendibilità (Cons. Stato, VI, 19 gennaio 2016, n. 165). Il giudice dovrebbe, allora, verificare se la scelta compiuta dal’autorità risulti la più attendibile tra quelle prospettate nel contraddittorio delle parti, con la conseguente possibilità di ritenere che la valutazione dell’Autorità, sebbene attendibile, non meriti conferma, in quanto meno attendibile da quella prospettata dall’impresa. E’ difficile non vedere, in questa evoluzione giurisprudenziale, un portato diretto dal metodo deliberativo, che mette a confronto le informazioni assunte e gli argomenti prospettati dagli interessati.
18. In una  lettura “deliberativa” del processo amministrativo, non può, infine, essere trascurata la disciplina della partecipazione procedimentale, posto che, come si è visto, la democrazia partecipativa è forma concreta delle istanze deliberativiste. Acquistano, in questa prospettiva, rilevanza quelle pronunce che sottolineano che il principio di democraticità deve, nel procedimento amministrativo, essere assicurato in modo sostanziale e non formale (TAR Lombardia, Milano, 2 aprile 2014 n. 864), avendo le garanzie partecipative funzione sostanziale (Cons. Stato, IV, 27 ottobre 2016 n. 4508), ovvero volte a precisare la vera natura della legge generale sul procedimento, non opera di codificazione, ma di individuazione di principi fondamentali cui la normazione, di rango primario e secondario deve uniformarsi (Cons. Stato, VI, 2 marzo 2010 n. 1215).
Partecipazione al procedimento non significa peraltro, legittimazione processuale; partecipazione  procedimentale e processo amministrativo, si fondano su presupposti differenti, persistendo la necessità, per adire il giudice, ancorchè si sia preso parte al procedimento, della titolarità di una posizione giuridica soggettiva, della legittimazione e dell’interesse ad agire, condizioni dell’azione che non discendono dalla effettuata partecipazione (Cons. Stato, IV, 3 agosto 2011 n. 4644). E’ stata, così, negata la legittimazione ad impugnare ad soggetto abilitato a partecipare al procedimento di adozione dello strumento urbanistico attraverso lo strumento delle osservazioni. Il controllo giurisdizionale del procedimento è così, riservato a chi, nell’ambito di questo, sia titolare di una posizione giuridica soggettiva, e non al semplice partecipante. L’esistenza di una situazione giuridica soggettiva pone, così, un limite alla capacità del procedimento e delle sue ragioni di riservarsi nel processo.
19. Le osservazioni sopra esposte evidenziano, così, che, al di laʽ delle difficoltà, è possibile configurare una relazione significativa tra democrazia deliberativa e giurisdizione, ed in particolare con la giurisdizione amministrativa.
L’esercizio della funzione giurisdizionale può risolversi, in primo luogo, in una garanzia ulteriore della democrazia deliberativa, le cui forme storiche caratterizzano in modo significativo l’esercizio della funzione amministrativa. In secondo luogo, non può essere negata l’importanza di una lettura “deliberativa” delle forme processuali, considerata l’importanza che, nel tempo, ha assunto la “processualizzazione” della funzione amministrativa. Sotto questo profilo, come è stato esattamente osservato, il valore della “giustizia” attraverso il “contraddittorio” come metodo di decisione proprio sia della funzione amministrativa che di quella giurisdizionale potrebbe essere riguardato come il seme di una sorta di palingenesi del pubblico potere (Buffoni), nel quadro di uno “statuto costituzionale del contraddittorio” come valore permanente di tutte le decisioni pubbliche. Non a caso, d’altra parte, si è parlato evocativamente di democrazia deliberativa come realtà intrinsecamente processuale (Ferrara).  
ALESSANDRO PAJNO
 già Presidente del Consiglio di Stato
 pubblicato il 27 giugno 2020
 

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