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Segretario comunale colpevole – non ha segnalato una norma
 
“Il Collegio ritiene a tal riguardo sostanzialmente corretto il rilievo di parte appellante circa il coinvolgimento del Segretario comunale nella vicenda, atteso il ruolo di garante della legalità dell’azione comunale di quest’ultimo.
In particolare, come rilevato dalla PG, il Segretario comunale, che nel caso di specie svolgeva anche le funzioni di responsabile del servizio tecnico, ha del tutto trascurato di segnalare ai componenti del Consiglio, com’era suo obbligo ai sensi degli artt. 49 e 97 del d.lgs. n. 267/2000, l’esistenza della norma in parola e la conseguente necessità di rivolgersi all’Agenzia delle Entrate. In tal modo egli ha contribuito alla causazione del danno.
Per quanto precede, il Collegio – ai sensi dell’art. 83, comma 2, c.g.c. – ritiene che la quota addebitabile al Segretario comunale sia pari ad euro 12.000,00 (pari al 30% circa del totale).”
 
Sent. 83/2020
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE DEI CONTI
III SEZIONE GIURISDIZIONALE CENTRALE D’APPELLO
composta dai seguenti magistrati
dott. Angelo Canale, Presidente
dott.ssa Chiara Bersani, Consigliere
dott. Giuseppina Maio, Consigliere
dott. Giancarlo Astegiano, Consigliere
dott. Marco Smiroldo, Consigliere relatore
riunita in Camera di consiglio ha pronunciato la seguente
SENTENZA
neI giudizio di appello iscritto al n. 53658 del Ruolo generale, proposto da Gianfranco BIFFI, Gianfranco CATTANEO, Daniele MAZZOLENI, Antonio POSA, Fabio VILLA, Isa CLIVATI, tutti rappresentati e difesi dall’avv. Giorgio Marconcini (fax n. 02-89400967; p.e.c. avv.giorgiomarconcini@milano.pecavvocati.it), elettivamente domiciliati a Roma, via Clemente IX, n. 10 nello studio dell’avv. Lucia Feliciotti
AVVERSO
la sentenza della Sezione giurisdizionale regionale della Corte dei conti per la Lombardia n. 86/2018, depositata il 13.04.2018, non notificata
CONTRO
Procuratore regionale della Corte dei conti per la regione Lombardia.
Visti tutti gli atti ed i documenti di causa.
Uditi nella pubblica udienza del 05.02.2020 il relatore, consigliere Marco Smiroldo, l’avv. Marconcini per gli appellanti e il P.M. in persona del Vice Procuratore Generale Arturo Iadecola.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1.- Con l’impugnata sentenza la Sezione territoriale ha riconosciuto la responsabilità amministrativa degli odierni appellanti – tutti amministratori del Comune di Villa D’Adda – per aver deliberato (del. n. 27 del 30.05.2014) l’acquisto da parte del Comune di un immobile privato (ex proprietà Clapis) in violazione l’art. 12, comma 1 ter del d.l. n. 98/2011, conv. con l. n. 111/2011, che richiede la previa attestazione da parte dell’Agenzia delle Entrate della congruità del prezzo degli immobili acquistati dagli enti territoriali. Gli appellanti si erano, infatti, basati unicamente sulla stima fatta da un funzionario del Servizio tecnico comunale, geom. Rosamaria Guardascione, approvata dalla Giunta comunale con la deliberazione n. 73 del 23 maggio 2014, che aveva attribuito al cespite, per l’appunto, il valore di € 130.000,00.
L’effettivo valore di mercato del bene, come successivamente determinato dall’Agenzia delle Entrate, era, invece, di € 88.000,00, con conseguente danno per il Comune pari alla differenza tra i due importi.
La Sezione, ravvisato il ricorrere della colpa grave degli odierni appellanti, li ha condannati a risarcire il complessivo danno subito dal Comune, pari ad euro 42.000,00, ripartendo il medesimo in parti uguali per una quota di euro 7.000,00 ciascuno.
La domanda nei confronti della Guardascione veniva, invece, respinta sul rilievo che la stessa si era limitata a svolgere un incarico peritale, ma non aveva partecipato al procedimento d’acquisto né, tantomeno, le era imputabile la mancata richiesta della stima dell’Agenzia del Demanio.
2.- Con appello notificato alla Procura regionale per la Lombardia notificato il 12.06.2018 e depositato il 21.06.2018, dopo aver riassunto i fatti di causa e ritrascritto la memoria di costituzione in primo grado (da pag. 3 a pag. 22 dell’appello), gli appellanti hanno impugnato cumulativamente i capi della sentenza che li riguardano, affidando l’accoglimento del proprio gravame a cinque motivi d’appello.
2.1 – Col primo motivo è stata dedotta la illogicità, contraddittorietà, insufficienza della motivazione, per aver il giudice territoriale disatteso – senza adeguata motivazione – la richiesta di CTU avanzata dalle difese, alla quale il PM non si era opposto, in ragione del fatto che la perizia dell’amministrazione finanziaria del 2016 era stata fatta utilizzando la scheda catastale, che non riportava correttamente la reale estensione dell’immobile acquistato.
La difesa ha contestato la valutazione del giudice secondo la quale l’uso della scheda catastale sarebbe stato giustificato dalla demolizione dell’unità immobiliare compravenduta, realtà che, unitamente alla mancanza di comunicazione di elementi in merito da parte del Comune, non giustificherebbe – secondo la difesa – l’impiego della scheda catastale.
Così, la decisione del giudice di prime cure di non disporre la CTU si rivela irragionevole, sia perché l’immobile non era stato del tutto demolito, sia perché la CTU avrebbe certamente chiarito la reale estensione del bene, che non coincide con l’estensione risultante sulla mappa analizzata dall’Agenzia del territorio.
La difesa è quindi tornata a contestare la reale consistenza ed estensione dell’immobile, così come definite nella perizia dell’Amministrazione finanziaria e confermate dalla successiva integrazione alla stessa.
Ciò in quanto la stima dell’immobile individuato nel subalterno 710 della particella 714, è stata effettuata sulla base della situazione rappresentata dalla scheda catastale esistente alla data della stima stessa, mentre il Comune di Villa D’Adda aveva invece definito la consistenza del bene oggetto di compravendita sulla base del rilievo esecutivo depositato dall’Arch. Gelmini 2012/15, il quale presenta, come accade spesso, delle evidenti discrepanze rispetto a quanto risulta dalla scheda catastale.
A comprova dell’esistenza di discrepanze significative tra quanto rilevato sui luoghi e quanto visibile dalle risultanze catastali, la difesa ha richiamato la perizia redatta dall’Arch. Redaelli, che ha posto in rilievo la carenza e lacunosità della perizia fatta sulla carta, senza una rilevazione in loco della reale consistenza dell’immobile.
Inoltre, ha rilevato la difesa, il Comune quando approvò il preliminare di vendita, fece riferimento all’integrale e reale conformazione del bene, comprensivo dell’area pertinenziale – catastalmente graffata alla particella 714 – che non è stata considerata dall’Agenzia nella sua perizia di stima, area che godeva di un diritto di servitù a vantaggio dell’immobile comunale e, quindi, con il suo acquisto il Comune ha ottenuto un concreto ed enorme beneficio, garantendo la piena proprietà dell’area prospiciente la Torre del Borgo.
La difesa ha ritenuto assurdo sostenere, come aveva invece fatto l’Agenzia e quindi il giudice di prime cure, che l’area adibita a parcheggio non fosse pertinenziale all’immobile: se questa non fosse stata acquistata, infatti, sarebbe stato impossibile accedere all’immobile, atteso il permanere della proprietà Clapis sull’area.
La difesa ha quindi messo a confronto la stima dell’arch. Gelmini, che quota la superficie in mq 229,70, e quella dell’Agenzia delle Entrate di mq 175,00: tale discrepanza giustifica il diverso prezzo d’acquisto, in quanto l’Agenzia non ha tenuto conto dell’area pertinenziale e dei benefici che la sua acquisizione ha apportato all’utilizzo del Borgo.
In tale prospettiva, la CTU si rivela – secondo la difesa – essenziale per giungere ad una quantificazione del valore del bene, che non può essere affidato unicamente ad una perizia di parte.
2.2 – Col secondo motivo d’appello è dedotta l’erronea valutazione e interpretazione dei fatti, dei documenti e delle norme di diritto, nonché il difetto di motivazione in ordine alla reale consistenza del bene immobile, rieditando in parte le doglianze che supportano l’accoglimento del primo motivo.
E’ stata contestata, inoltre, la mancata valutazione della storicità del bene, non soltanto perché dimostrata in base alle Relazioni dell’Arch. Gelmini e del prof. Bonaiti, ma anche sulla base dell’esistenza di un provvedimento della Direzione regionale del Ministero dei beni culturali che – in relazione all’immobile compravenduto – auspica che le norme urbanistiche siano volte alla conservazione delle parti di origine storica, affermazione che se non altro implicitamente confermerebbe – secondo gli appellanti – la storicità del bene compravenduto.
Un’ulteriore contestazione, sempre in ordine alla perizia di stima, riguarda gli immobili utilizzati dall’Agenzia delle Entrate come parametro di raffronto, atteso che i comparables non si rivelano omogenei al bene di riferimento, vista l’orografia e morfologia del territorio comunale divisa in tre parti: a fiume – mezza costa in piano/centro – collina. Tale argomentazione si baserebbe su quanto in proposito affermato dall’Arch. Redaelli nella propria perizia in cui ha chiarito che “i comparables utilizzati dall’Agenzia delle Entrate, non risultano omogenei ed utilizzabili per compararli con il bene in oggetto, infatti sono posizionati, uno a Villa d’Adda in zona periferica al limite del confine comunale, il secondo in posizione intermedia fuori dal centro paese, il terzo in costa alta collinare”.
Infine, viene contestato il rilievo dato nella perizia di stima allo stato manutentivo dell’immobile in oggetto.
In particolare, ad avviso del difensore i coefficienti applicati e poi confermati dall’Agenzia non sono corretti visto che viene considerata la caratteristica dello stato manutentivo con correzioni di prezzo eccessive e smisurate rispetto alla situazione reale esistente.
Tale evidenza si ricaverebbe sia dal fatto che l’immobile era stato utilizzato quale abitazione della famiglia Clapis fino all’anno 2009 e, pertanto, non poteva essere considerato in stato fatiscente, e quindi i parametri utilizzati dall’Agenzia non erano aderenti alla realtà dell’immobile, sia dalla circostanza che lo stato di fatto dell’immobile prima degli interventi edilizi e prima dell’acquisto è certificato peraltro dal documento di rilevo dello stato di fatto dell’anno 2012 redatto dal progettista D.L. Arch. Gelmini ed inviato al Comune.
Inoltre, ha osservato la difesa, le uniche due fotografie allegate alla perizia di stima non trovano riscontro alcuno nelle fotografie allegate alla perizia del geom. Guardascione.
Da ciò deriva l’impossibilità di qualificare con certezza l’immobile come scadente e, conseguentemente, l’inattendibilità della perizia dell’Agenzia delle Entrate.
2.3 – Col terzo motivo è stata eccepita la violazione dell’art. 1, comma 1, della l. n. 20/1994, in ragione dell’insindacabilità della valutazione costi – benefici operata dagli odierni appellanti: se il Comune non avesse acquistato la proprietà Clapis l’intero intervento di recupero della Torre del Borgo sarebbe stato inutilizzabile ai portatori di handicap e comunque inaccessibile, perché l’area pertinenziale esterna sarebbe rimasta di proprietà Clapis.
2.4 – Con un quarto motivo è stata eccepita la violazione dell’art. 4 c.g.c. in quanto, negando l’esperimento della CTU, il giudice ha impedito agli odierni appellanti di difendersi.
2.5 – Col quinto motivo è stato dedotto il difetto di motivazione in ordine alla sussistenza di dolo e colpa grave in capo agli amministratori e illogica motivazione della sentenza sul punto.
Al riguardo la difesa ha specificato che la compagine amministrativa del Comune del 2014 era completamente diversa da quella del 2009, quindi non in grado di cogliere le modifiche normative introdotte pochi mesi prima dell’acquisto; inoltre, il Comune non aveva dato alcun incarico ad alcun tecnico, in quanto la perizia depositata nel 2009 era della famiglia Clapis che voleva vendere l’immobile.
Inconsistente, appare alla difesa, il nesso tra la conoscenza della intenzione di demolire l’immobile e la conoscenza della procedura da seguire al fine di dimostrare la colpa grave degli odierni appellanti.
Gli amministratori ignoravano la normativa e su questo – secondo la difesa – vi è senza dubbio una responsabilità in capo al Segretario comunale che all’epoca svolgeva anche il ruolo di responsabile dell’ufficio tecnico che stranamente non è stato neppure citato in primo grado.
La mancanza di colpa grave sarebbe, quindi, dimostrata in quanto:
– è stato dimostrato in fatto che il mancato acquisto dell’immobile oggetto di causa avrebbe causato gravi danni economici all’ente, che non solo avrebbe perso un finanziamento ma sarebbe stato costretto a risarcire la proprietà Clapis per aver occupato, danneggiato e costituito una servitù per impianti su proprietà non del Comune;
– il valore del bene è stato quantificato da una perizia dell’ufficio tecnico comunale al quale certamente gli amministratori si sono in perfetta buona fede affidati;
– l’indilazionabilità e indispensabilità del bene, pacifica sia nelle delibere che nelle determine assunte dai responsabili degli uffici;
– nessun responsabile del Comune di Villa d’Adda ha fatto presente nelle procedure e nelle delibere che era necessario chiedere il parere dell’Agenzia delle Entrate.
Si aggiunga a ciò l’atteggiamento confusionario del legislatore con norme in costante mutamento, tale da rendere impossibile il continuo aggiornamento professionale.
La difesa ha ribadito la sussistenza di una responsabilità al riguardo del Segretario comunale e concluso per l’accoglimento dell’appello e la riforma dell’impugnata sentenza in termini di assoluzione degli odierni appellanti; in subordine, riformare la sentenza disponendo il giudizio di rinvio che sia utile ad espletare la richiesta CTU.
3.- In data 15.01.2020, la Procura generale ha depositato le proprie conclusioni.
Con riferimento al primo, secondo e quarto motivo, la PG ha osservato, in termini generali, che il fatto che il giudice abbia incentrato la propria valutazione sulle relazioni tecniche prodotte dal p.m., senza disporre una diversa valutazione da parte di un c.t.u. da lui nominato, non appare in contrasto con il principio del contraddittorio e con il diritto di difesa della parte privata, come gli appellanti manifestano di ritenere.
L’acquisizione di una c.t.u. appare, allora, giustificarsi non già, sic et simpliciter, in ragione di una (insussistente) mancanza di imparzialità dell’organo tecnico che ha elaborato il documento di valutazione prodotto dal p.m., ma, piuttosto, quando i rilievi critici della parte avversaria abbiano effettivamente evidenziato, in concreto, carenze o errori nel processo valutativo da esso seguito e nelle conclusioni da esso rassegnate.
Nel caso di specie, ciò non è accaduto.
Quanto alle c.d. discrepanze, dal progetto Gelmini e dalla perizia Radaelli (cfr. docc. 2 e 3 fasc. primo grado appellanti), non si evince affatto una simile difformità dalla scheda catastale, né l’appello indica in modo specifico da quali tavole o disegni ivi riportati la stessa emergerebbe.
Come ha rilevato il primo giudice, del resto, una c.t.u. volta ad accertare l’asserita difformità non avrebbe potuto essere espletata, perché l’immobile oggetto di causa, una volta acquistato dal Comune, è stato demolito, per quanto ha acclarato l’Agenzia nel sopralluogo del 25 maggio 2016 (cfr. doc. 5 fasc. PR, pag. 5). Nell’appello si sottolinea che la demolizione è stata solo parziale, ma ciò non toglie che lo stato dei luoghi sussistente al tempo dell’acquisto sia stato modificato.
La natura pertinenziale della parte residua della particella n. 714 è altrettanto indimostrata. Essa non deriva – ha osservato dalla Procura generale – dall’esistenza della “graffatura”, la quale è apposta quando a un immobile corrispondono più particelle e subalterni senza una rendita autonoma, e dunque ha valore meramente fiscale. È il caso di ricordare che, ai sensi e per gli effetti dell’art. 817 ss. c.c., un bene costituisce pertinenza di altro bene quando è destinato in modo durevole al servizio di quest’ultimo. Nella fattispecie, nulla dimostra che sussistesse un siffatto rapporto di tipo esclusivo tra l’immobile de quo e l’area limitrofa, tanto più se si considera che il fabbricato di cui faceva parte l’immobile compravenduto apparteneva a più proprietari (gli eredi Clapis e il Comune, proprietario dell’ultimo piano).
Il geom. Guardascione, comunque, allorché ha determinato il valore del cespite in € 130.000,00, lo ha fatto prendendo in considerazione il solo appartamento di cui al sub. n. 701, senza tenere conto, a tal fine, dell’area limitrofa. È significativo, anzi, il fatto che la parte residua della particella n. 714 sia indicata, nella descrizione dei confini dell’appartamento, come “strada” (cfr. doc. 4 fasc. PR, pag. 1), a dimostrazione che essa non costituiva, né poteva costituire, un’area utilizzabile come parcheggio privato, secondo quel che invece sostengono gli appellanti.
Correttamente, dunque, l’Agenzia delle Entrate, nella propria originaria relazione di stima, ha circoscritto nei medesimi termini l’oggetto del proprio esame.
Con riguardo all’invocato valore storico dell’edificio, deve evidenziarsi come i vari documenti menzionati dagli appellanti – il provvedimento della Direzione regionale per i beni culturali, ma anche il progetto Gelmini e le pubblicazioni (cfr. docc. 6 ss. fasc. primo grado appellanti) – lo attribuiscano, specificamente, soltanto alla Torre del Borgo, cioè al fabbricato antico, ben visibile nelle fotografie allegate alla perizia Guardascione (cfr. doc. 1 fasc. Guardascione), in appoggio al quale era stato costruito il corpo di fabbrica più basso, e più recente, ivi parimenti raffigurato. L’appartamento oggetto di causa comprendeva quest’ultimo corpo di abbrica, a pianta trapezoidale, e una porzione, a pianta pressochè quadrata, della Torre del Borgo, come è ben restituito dalla planimetria catastale allegata alla perizia Guardascione.
Gli appellanti non spiegano, tuttavia, perché, e in che misura, il carattere storico di questa parte del cespite avrebbe inciso sul valore di mercato dell’intero appartamento. In realtà, dal momento che la porzione antica, ove separata dalla restante parte dell’immobile (poi demolita), non aveva alcuna autonomia, il suo valore storico non rendeva affatto più appetibile, e quindi suscettibile di essere venduto a un prezzo più alto, l’appartamento nel suo complesso.
È bene, comunque, precisare che, al di là dell’interesse che la Torre del Borgo (di cui l’appartamento occupava solo una piccola parte) poteva rivestire sotto il profilo culturale, il provvedimento della Direzione regionale per i beni culturali costituisce, come ha rilevato il primo giudice, riprova dell’assenza di vincoli artistici o storici (“questo Ufficio dichiara che l’immobile in oggetto è escluso dalle disposizioni di tutela di cui alla Parte Seconda del codice”). Anche sotto questo profilo, dunque, le informazioni su cui si è basata la stima dell’Agenzia delle Entrate si rivelano corrette.
Sulla lamentata inappropriatezza della scelta dei comparables (immobili che l’Agenzia ha preso quali termini di paragone per la determinazione del prezzo), la Procura generale ha ritenuto che gli immobili in questione erano tutti ubicati, al pari di quello oggetto di valutazione, nella stessa zona OMI B1. Nella stima, inoltre, è stato applicato a ciascuno di essi un coefficiente correlato alla localizzazione di dettaglio. Ne discende che neppure questa censura consente di minare l’attendibilità della stima fatta dall’Ufficio provinciale.
Non merita, infine, accoglimento neanche la doglianza riferita allo stato manutentivo dell’appartamento oggetto di causa. L’Agenzia, infatti, lo ha definito “scadente” (e non già “fatiscente”, come affermano gli appellanti) sulla base della perizia Guardascione e delle fotografie disponibili. Esaminando la perizia in questione e le immagini a essa allegate, emerge un diffuso stato di ammaloramento, peraltro confermato dalla perizia Radaelli, che giustifica senza dubbio la predetta valutazione.
Deve concludersi che la relazione dell’Agenzia delle Entrate non presenta le carenze e le imprecisioni dedotte dagli appellanti. La stima fatta dall’Ufficio deve essere ritenuta, dunque, pienamente attendibile, sicché restano confermate la sussistenza e l’entità del danno erariale, come affermate dal primo giudice sulla scorta di quella valutazione.
Quanto al terzo motivo d’appello, la PG lo ha ritenuto infondato sul rilievo che gli appellanti sono stati ritenuti responsabili non per aver scelto di acquistare il cespite, ma per averlo acquistato senza aver rispettato il procedimento a tal fine previsto, che imponeva l’attestazione di congruità del prezzo da parte dell’Agenzia delle Entrate.
Con riferimento al quinto motivo, la PG ha rilevato come sia pacifico che l’intenzione di intervenire sulla Torre del Borgo e sugli immobili limitrofi sia stata manifestata dal Comune fin dal 2009 – con la deliberazione di Giunta n. 33, citata dagli appellanti nelle deduzioni preprocessuali (cfr. doc. 16 fasc. PR) -, dunque molto prima dell’entrata in vigore della norma trasgredita, applicabile dal 1° gennaio 2014. Fino al 31 dicembre 2013, l’acquisto oneroso di immobili era stato precluso alle pubbliche amministrazioni dall’art. 12, comma 1 quater, del d.l. cit., sicché – secondo la Procura generale – appare condivisibile l’osservazione del primo giudice che la deliberazione dell’acquisto soltanto nel 2014 è indice della conoscenza, da parte dell’organo consiliare, della sopravvenuta entrata in vigore della norma che lo consentiva.
In ogni caso, si tratta di una norma dal tenore inequivoco, che all’epoca della deliberazione era stata pubblicata da oltre un anno (in quanto introdotta dalla l. n. 228/2012), e che i componenti del Consiglio comunale, che si apprestavano ad acquistare un immobile, erano tenuti a conoscere. Per cui l’ignoranza della stessa sarebbe inescusabile e non escluderebbe il rimprovero di colpa grave.
Deve, peraltro, riconoscersi che effettivamente il Segretario comunale dott. Filippo Paradiso, che nel caso di specie svolgeva anche le funzioni di responsabile del servizio tecnico, ha del tutto trascurato di segnalare ai componenti del Consiglio, com’era suo obbligo ai sensi degli artt. 49 e 97 del d.lgs. n. 267/2000, l’esistenza della norma in parola e la conseguente necessità di rivolgersi all’Agenzia delle Entrate. In tal modo egli ha contribuito alla causazione del danno, per cui si invita il Collegio a tenerne conto nella determinazione del risarcimento da porre a carico degli appellanti, ai sensi dell’art. 83, comma 2, c.g.c. Sebbene nell’impugnazione non sia stata formulata espressamente una siffatta richiesta, la stessa deve ritenersi implicitamente ricompresa nella domanda di riforma integrale della sentenza di primo grado.
Ha concluso per la conferma dell’impugnata sentenza salvo che per l’ammontare del risarcimento posto a carico degli appellanti, da rideterminarsi, secondo le valutazioni del Collegio, ai sensi dell’art. 83, comma 2, c.g.c.
4.- Alla pubblica udienza del 05.02.2020, svolta la relazione, l’avv. Marconcini ha confermato ampiamente le difese svolte nell’atto d’appello, ribadito la necessità di una CTU, la diversa dimensione del bene acquistato dimostrata dalla graffatura catastale, ricordato le ragioni dell’insussistenza della gravità della colpa degli appellanti.
Ha concluso chiedendo l’accoglimento dell’appello e comunque la riforma dell’impugnata sentenza tenendo conto del contributo causale del Segretario comunale nella determinazione del danno.
Il rappresentante della Procura generale ha ribadito che non sussistono prove ella divergenza tra i beni oggetto di stima e che la graffatura non è idonea a determinare l’estensione del bene.
Ha confermato la non necessarietà della CTU e concluso per il rigetto dell’appello con conferma dell’impugnata sentenza salvo che per l’ammontare del risarcimento posto a carico degli appellanti, da rideterminarsi, secondo le valutazioni del Collegio, ai sensi dell’art. 83, comma 2, c.g.c.
L’avv. Marconcini ha, in sede di replica, insistito per l’esistenza del vincolo pertinenziale sull’area di parcheggio non considerata in sede di stima dalla Agenzia delle Entrate.
Terminata la discussione la causa è passata in decisione.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1.- Il Collegio ritiene opportuna la trattazione congiunta del primo, secondo e quarto (ancorchè articolato dalla difesa come un aspetto del terzo morivo d’appello) motivo di gravame, attesa l’interconessione logica e funzionale delle argomentazioni che rispettivamente li sostengono.
In particolare, il primo ed il quarto motivo si fondano sulla contestazione della decisione del giudice di prime cure di non disporre la CTU, decisione che secondo la difesa degli appellanti si rivela irragionevole in quanto:
– quella dell’Agenzia del territorio rimane una perizia di parte;
– l’immobile non era stato del tutto demolito, e la CTU avrebbe certamente chiarito la reale estensione del bene, che non coincide con l’estensione risultante sulla mappa analizzata dall’Agenzia del territorio, che si è basata sulla sola scheda catastale, ed avrebbe dimostrato che la valutazione del valore d’acquisto era corretta, con conseguente esclusione di qualsiasi responsabilità a loro carico;
– il non aver disposto una Consulenza tecnica d’Ufficio ha, pertanto, violato l’art. 4 del g.c.g., impedendo lo svolgersi di un giusto processo.
Le predette doglianze sono complessivamente infondate.
In primo luogo, occorre osservare che la perizia di stima depositata in atti dal PM – come rilevato dal giudice dei prime cure – è il documento che per legge (art. 12, comma 1 ter del D.L. n. 98 del 2011), avrebbe dovuto esser acquisito al procedimento proprio per conseguire l’attestazione della ‘congruità del prezzo’: non quindi propriamente una ‘perizia di parte’, ma la valutazione di congruità di un organo dello Stato a ciò indicato dalla legge.
In tal modo, quindi, è stata acquisita al giudizio proprio la valutazione estimativa prevista dal legislatore, non sostituibile in questo caso con una (altra) valutazione contenuta in una diversa perizia.
Infine, nel caso in esame, la perizia che il giudice avrebbe dovuto in tesi disporre sarebbe stata comunque di natura ‘deducente’ e, quindi, non un mezzo di prova, ma strumento di comprensione del giudice al fine di formare il proprio libero convincimento, rientrando nel suo potere discrezionale la valutazione di avvalersene o meno (Cass. n. 72/2011, n. 20814/2004, n. 6641/2002, n. 10938/96; Sez. II, sent. nn. 307 ed 838 del 2016; Sez. III 398 del 2018).
Sul punto occorre rilevare che, alla stregua degli atti di causa, non è dato rilevare uno ‘scostamento’ tra il bene compravenduto ed il bene valutato dalla Agenzia.
E’ da notare, infatti, come la perizia dell’Agenzia abbia valutato il medesimo bene prima stimato dal geom. Guardascione, poi oggetto della delibera n. 27 del 30.05.2014 e, quindi, oggetto del preliminare di vendita, ossia l’immobile identificato al mappale 714, sub, 701, Cat A3, Classe 2, consistenza 8,5 vani, rendita euro 614,48.
A tale stregua, nessuna discrasia tra l’individuazione dei beni oggetto della perizia e quelli acquistati dal Comune e quindi, nessuna necessità di ulteriore perizia tecnica che ‘individuasse’ correttamente il bene compravenduto.
La perizia dell’Agenzia è, comunque, al pari di ogni altro elemento di valutazione, contestabile dalle parti, come lo è stato ampiamente nel corso del giudizio di primo grado ed anche nel presente grado: ciò esclude che si possa configurare una lesione del giusto processo, attesa l’ampia facoltà – si ribadisce concretamente esercitata anche in questo grado – di contestazione delle risultanze della perizia dell’Agenzia.
Per quanto precede i motivi in esame vanno respinti.
Infatti, da un lato la scelta del giudice di prime cure di non disporre una CTU si rivela coerente con il quadro normativo di ammissibilità e rilevanza del mezzo istruttorio, nonchè con il canone di proporzionalità ed adeguatezza nell’uso dei mezzi d’accertamento; dall’altro lato, la possibilità di contestare, provando, i risultati della perizia estimativa dell’Agenzia, esclude la violazione dell’art. 4 del c.g.c.
Col secondo motivo la difesa ha contestato i risultati della perizia dell’Agenzia in ordine:
a.- alla reale consistenza del bene;
b.- alla storicità del bene;
c.- al valore stimato;
d.- allo stato manutentivo dell’immobile.
Il motivo è complessivamente infondato.
Quanto alla reale consistenza del bene con riferimento alla mancata valutazione dell’esistenza di un vincolo pertinenziale su di un’area adiacente, si rileva che – come correttamente indicato dalla PG – l’esistenza di una graffatura sulle mappe catastali non ha alcun rilievo, e soprattutto non estende al bene graffato il regime di proprietà, che deve essere provato.
L’attribuzione della qualità di pertinenza si fonda infatti su un criterio oggettivo e fattuale, ossia sulla destinazione effettiva e concreta della cosa al servizio od ornamento di un’altra in applicazione dell’art. 817 c.c., e su uno soggettivo, consistente nella volontà di dar vita ad un vincolo di accessorietà durevole, senza che rilevi l’intervenuta graffatura catastale, che ha esclusivo rilievo formale, sicché, anche in tale ipotesi, permane a carico del contribuente l’onere di provare la ricorrenza in concreto dei predetti presupposti.
La prova del vincolo pertinenziale nel caso in esame non è stata fornita, atteso che se effettivamente si fosse voluta espressamente trasferire la proprietà anche dell’area pertinenziale, ve ne sarebbe stata traccia sia nella valutazione del tecnico comunale, sia nella deliberazione comunale, sia infine nel preliminare di vendita.
Quanto alla storicità del bene la difesa stessa non può che rilevare che lo stesso non è oggetto di alcun decreto di vincolo; quanto allo stato manutentivo, la perizia contestata ripete la stessa valutazione della geom. Guardascione al riguardo: “l’immobile, costituito di due piani ed una piccola cantina è di datazione incerta e si presenta in cattivo stato di conservazione con intonaci, copertura ed impianti completamente ammalorati ed evidenti efflorescenze di muffe ed umidità. L’immobile, data la sua posizione e la sua destinazione urbanistica, ha un valore commerciale rapportabile al solo interesse pubblico avvalorato dalla presenza di un secondo piano contraddistinto al mappale 714 sub 702 di proprietà dell’Amministrazione Comunale che lo rende difficilmente collocabile commercialmente”.
Quanto, infine, al valore stimato ed alla inappropriatezza della scelta dei comparables (immobili che l’Agenzia ha preso quali termini di paragone per la determinazione del prezzo), si deve osservare – come rilevato dalla PG – che gli immobili in questione sono tutti ubicati, al pari di quello oggetto di valutazione, nella stessa zona OMI B1. Nella stima, inoltre, è stato applicato a ciascuno di essi un coefficiente correlato alla localizzazione di dettaglio.
Ne consegue il rigetto del secondo motivo d’appello.
2.- Col terzo motivo si è contestato il fatto che il giudice non abbia considerato i benefici conseguiti dal comune con l’acquisto dell’immobile in questione.
Sul punto si rileva come il motivo sia infondato in quanto il giudice di prime cure non ha esorbitato dall’ambito della sua giurisdizione andando a valutare l’an dell’acquisto, ma si è limitato a verificare il quomodo, ed in particolare la congruità del valore d’acquisto, valutazione rientrante – ormai per giurisprudenza pacifica – nell’ambito delle attribuzioni giurisdizionali del giudice contabile.
Quanto al valore aggiunto derivato al Comune dall’acquisto, milita in senso contrario a quanto affermato dagli appellanti un passaggio della perizia Guardascione, in particolar ove si specifica che “L’immobile, data la sua posizione e la sua destinazione urbanistica, ha un valore commerciale rapportabile al solo interesse pubblico avvalorato dalla presenza di un secondo piano contraddistinto al mappale 714 sub 702 di proprietà dell’Amministrazione Comunale che lo rende difficilmente collocabile commercialmente”. Parrebbe quindi trattarsi – secondo la perizia approvata anche dagli odierni appellanti – di un immobile privo di valore commerciale, mentre il valore per l’interesse pubblico non è stato neanche misurato in sede di acquisto.
3.- Col quinto motivo è stata contestata la sussistenza della colpa grave sul rilievo che l’art. 12 del dl 98 del 2011 era entrato da poco in vigore rispetto al maggio 2014, epoca dell’acquisto, e che quindi non era a conoscenza degli odierni appellati, ma doveva esserlo sicuramente del Segretario comunale, che invece nulla ha fatto per applicarlo.
Quanto alla sussistenza della gravità della colpa, il Collegio ritiene di dover confermare quanto statuito dal giudice di primo grado.
Ed infatti, fino al 31 dicembre 2013, l’acquisto oneroso di immobili era precluso alle pubbliche amministrazioni dall’art. 12, comma 1-quater, del d.l. cit., così la deliberazione dell’acquisto soltanto nel maggio 2014 è indice della conoscenza, da parte dell’organo consiliare, della sopravvenuta entrata in vigore della norma che lo consentiva.
Il Collegio ritiene a tal riguardo sostanzialmente corretto il rilievo di parte appellante circa il coinvolgimento del Segretario comunale nella vicenda, atteso il ruolo di garante della legalità dell’azione comunale di quest’ultimo.
In particolare, come rilevato dalla PG, il Segretario comunale, che nel caso di specie svolgeva anche le funzioni di responsabile del servizio tecnico, ha del tutto trascurato di segnalare ai componenti del Consiglio, com’era suo obbligo ai sensi degli artt. 49 e 97 del d.lgs. n. 267/2000, l’esistenza della norma in parola e la conseguente necessità di rivolgersi all’Agenzia delle Entrate. In tal modo egli ha contribuito alla causazione del danno.
Per quanto precede, il Collegio – ai sensi dell’art. 83, comma 2, c.g.c. – ritiene che la quota addebitabile al Segretario comunale sia pari ad euro 12.000,00 (pari al 30% circa del totale).
4.- Tanto premesso, il Collegio accoglie parzialmente l’appello in epigrafe e, per l’effetto, ridetermina la quota di danno da addebitare agli odierni appellanti in euro 30.000,00, (danno iniziale euro 42.000,00 – 12.000,00 da riferirsi ex art. 83, c.g.c. alla responsabilità del Segretario comunale = 30.000,00), ripartendo il medesimo nel modo che segue:
Gianfranco BIFFI, euro 5.000,00 più accessori;
Gianfranco CATTANEO, euro 5.000,00 più accessori;
Daniele MAZZOLENI, euro 5.000,00 più accessori;
Antonio POSA, euro 5.000,00 più accessori;
Fabio VILLA, euro 5.000,00 più accessori;
Isa CLIVATI, euro 5.000,00 più accessori.
Le spese seguono la soccombenza e sono di seguito liquidate in dispositivo.
P.Q.M.
la Corte dei conti – III Sezione giurisdizionale centrale d’appello, disattesa ogni contraria istanza, deduzione ed eccezione, definitivamente pronunciando, accoglie parzialmente l’appello in epigrafe e, per l’effetto, ridetermina la quota di danno da addebitare agli odierni appellanti in euro 30.000,00, (danno iniziale euro 42.000,00 – 12.000,00 da riferirsi ex art. 83, c.g.c. alla responsabilità del Segretario comunale), ripartendo il medesimo nel modo che segue:
Gianfranco BIFFI, euro 5.000,00 più accessori;
Gianfranco CATTANEO, euro 5.000,00 più accessori;
Daniele MAZZOLENI, euro 5.000,00 più accessori;
Antonio POSA, euro 5.000,00 più accessori;
Fabio VILLA, euro 5.000,00 più accessori;
Isa CLIVATI, euro 5.000,00 più accessori.
Condanna gli appellanti al pagamento delle spese della presente fase del giudizio (ferme restando quelle stabilite per il primo grado), computate in euro 160,00 (centosessanta/00), con vincolo di solidarietà e ripartendole nei rapporti interni in parti uguali tra loro.
Così deciso, in Roma, nella camera di consiglio del 05.02.2020.
L’ESTENSORE IL PRESIDENTE
F.to Cons. Marco Smiroldo F.to Pres. Angelo Canale
 
Depositato in Segreteria il 18-05-2020
Il Dirigente
F.to Dott. Salvatore Antonio Sardella

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