22/01/2020 – La lotta ai furbetti del cartellino? Resta in mutande

La lotta ai furbetti del cartellino? Resta in mutande
L’assoluzione di 16 dipendenti del comune di San Remo coinvolti nel fenomeno di diffuso assenteismo impone alcune riflessioni.

La prima non può non coinvolgere il populismo dell’informazione. Da anni, ormai, arene televisive e inchieste giornalistiche si avventano sulla facile audience del presunto “uomo che morde il cane”.

Dipingere la pubblica amministrazione in modo caricaturale esclusivamente come congrega di incapaci, raccomandati, fannulloni, privilegiati, politicizzati, è un trucco mediatico che funziona sempre. Fa “vendere” ed è consolatorio: in un momento di crisi economica, come in qualsiasi altra situazione, viene sempre fuori in qualche modo il “dagli all’untore”, di volta in volta individuabile in chi svolge un certo lavoro o professa una certa religione o ha un certo colore di pelle o, semplicemente, viene considerato “ingiustamente fortunato”.

Sicuramente la pubblica amministrazione italiana ha moltissimi problemi e difetti. Indubbiamente non mancano dipendenti infedeli che fingono di essere presenti e poi pensano ai fatti loro.

Ma, altrettanto sicuramente dipingere la PA solo come ricettacolo di “fannulloni”, “panzoni” e “furbetti del cartellino” è un ottimo trucco per dirottare il disagio sociale.

Da decenni politiche economiche ed industriali erronee ed insufficienti hanno prodotto un debito pubblico tale da schiacciare ogni prospettiva di crescita sotto il peso degli interessi ed un sistema di produzione asfittico ed incapace di assorbire l’offerta di lavoro. Queste politiche non sono realizzate dalla “burocrazia” e dai dipendenti pubblici: sono frutto di scelte dei governi e delle maggioranze.

La crisi economica dura da moltissimo tempo, senza ancora prospettive di evidenti modifiche.

Fa, quindi, molto comodo distrarre l’attenzione e urlare al “fannullone” e al “furbetto”, dando la sensazione che le politiche siano fallimentari non in quanto tali, ma anche perchè una “burocrazia” incapace e spesso infedele non contribuisce alla crescita.

E non è un caso che è dal 2007 circa, ad un passo dall’esplosione della crisi, che il volume sulla lotta ai “fannulloni” ed ai “furbetti” si sia alzato. E da anni dipingere la PA esclusivamente come quel ricettacolo di malcostume che ne viene fuori dalle inchieste populuste e sommarie è il sistema per acquisire facili consensi: non c’è stato quasi Ministro per la funzione pubblica che non abbia cavalcato la lotta ai fannulloni ed ai furbetti.

Da circa 13 anni si assiste sempre a “strette” e “giri di vite”; i termini per i procedimenti disciplinari (per altro, molto più brevi di tante procedure amministrative, per non parlare dei processi civili e penali) sono stati ridotti da 180 a 120 giorni, per poi giungere alla pretesa del licenziamento in 48 ore e della conclusione del procedimento per falsificazione della presenza in 30 giorni e all’idea del controllo biometrico (subito tramontata).

Un insieme di “grida” manzoniane all’insegna del “dagli all’untore” di tipo sommario, buono per convogliare la rabbia e la bile della “ggente”.

Un insieme di grida che, per altro, non è nemmeno mai servito a consolidare le poltrone: Governi e Ministri della Funzione pubblica si sono continuamente alternati, senza alcuna continuità, nonostante l’immancabile concione contro la “burocrazia” e i “fubetti”, le interviste corrucciate e le iniziative legislative sempre più sommarie ed improbabili.

Iniziative che non hanno mai affrontato le questioni vere. Le quali non consistono nella velocità dei procedimenti disciplinari o nel controllo biometrico delle presenze.

Occorreva definire in maniera chiara i rapporti tra procedimento disciplinare e procedimento penale, chiarendo gli ambiti di autonomia, più che di correlazione. Può perfettamente darsi che un comportamento non sia configurabile come reato, ma essere una lesione grave delle obbligazioni lavorative.

Il Legislatore, invece di cullarsi nella ricerca di soluzioni facili e populiste a problemi difficili, col perseguimento del “licenziamento in 48 ore”, avrebbe dovuto far sì che vi fosse certezza della strada intrapresa. Nel lavoro pubblico è ancora ammessa la reintegra. Allora, pretendere un licenziamento in 48 ore (perchè non in 48 secondi?), senza aver regolato e distinto le responsabilità disciplinari e civili da quelle penali, può portare al paradosso di un licenziamento (all’epoca dei fatti di San Remo erano ancora vigenti i termini di durata della riforma Brunetta, 120 giorni) piuttosto veloce, a rischio di essere vanificato anni ed anni dopo (ne sono passati quasi 5) da sentenze penali di diverso tenore, sulle quali ovviamente gli imputati possono basarsi per pretendere la riapertura del procedimento discpilinare, l’annullamento del licenziamento, la reintegra, gli arretrati, il risarcimento e le scuse.

Qui non si vuole minimamente entrare nel merito della specifica questione connessa a San Remo. Occorre evidenziare che il Legislatore, troppo attento alle grida e al populismo facile dei media alla ricerca del consenso da osteria, ha assunto da troppo tempo iniziative normative del tutto inefficaci ed inutili.

Accanto ad una più corretta definizione dei rapporto tra procedimenti disciplinari e penali, indispensabile per non mandare a monte la ricerca delle responsabilità e non confondere piani diversissimi, sarebbe stato necessario che il legislatore adottasse strumenti per far sì che i dipendenti pubblici più che essere intenti a dimostrare di essere presenti fisicamente, siano messi in condizione di svolgere attività utili e misurabili tra una timbratura e l’altra.

Del caso San Remo la cosa che avrebbe dovuto stupire di più non è l’eventuale sussistenza della responsabilità penale: le garanzie codicistiche e normative, giuste e sacrosante, non debbono mai permettere di fare processi in piazza ed anticipare le sentenze del giudice penale; avrebbe dovuto stupire, e concentrare l’attenzione, la circostanza che per anni comunque centinaia di dipendenti non si sapeva se fossero o meno in servizio: a dimostrazione dell’assenza di un sistema di correlazione tra presenza e lavoro da svolgere, della qualità e della quantità di tale lavoro.

Il problema avrebbe dovuto essere affrontato anche dal punto di vista della ricerca di strumenti per evidenziare i prodotti del lavoro, le mansioni da svolgere, le competenze necessarie, la loro riconduzione a piani lavorativi ed a risultati da raggiungere, la cui misurazione costante è lo strumento principale per motivare e scongiurare presenze solo virtuali.

Un sistema minimamente capace di indicare ai dipendenti della PA (la maggioranza dei quali non è per nulla fatta di fannulloni e furbetti) quali risultati ottenere, con quali metodi, con quale qualità, entro quali quantità, potrebbe estendere alla “burocrazia” che in molti casi gestisce servizi, addirittura un’estensione vastissima del lavoro agile, sconnesso dall’imbullonamento ad una sedia di una scrivania, concentrato, invece, sui risultati, sui rapporti con famiglie ed imprese che talvolta sono maggiormente produttivi in momenti della giornata non canonicamente parte dell’ “orario di servizio”.

Una buona organizzazione del lavoro, la consapevolezza del prodotto da realizzare e dei controlli e misurazioni, in molti campi della PA (si pensi agli assistenti sociali, ai vari servizi di ispettorato, ai centri per l’impiego, agli uffici tecnici e commerciali dei comuni) potrebbero rendere addirittura superflua la “timbratura”, superata da incarichi, budget, piani, risultati, da rendere e valutare.

La ricerca populista della norma ad “effetto”, invece, porta a risultati paradossali e fin qui non ha fatto altro che lasciare in mutande una lotta contro furbetti e fannulloni molto di facciata.

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