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Esecuzione del giudicato ed effettività della tutela nella più recente evoluzione giurisprudenziale[1]
 
Volevo, innanzitutto, ringraziare il Presidente del Consiglio di Stato, il Segretario Generale, il coordinatore dell’Ufficio studi e tutti coloro che hanno contribuito all’organizzazione di questo interessantissimo incontro di studi al quale ho avuto l’onore di essere invitata a partecipare.
Il tema che mi è stato assegnato: “Esecuzione del giudicato ed effettività della tutela nella più recente evoluzione giurisprudenziale” bene si colloca nell’ambito di questa terza sezione del convegno, dedicata all’evoluzione delle forme di tutela offerte dal giudice amministrativo con particolare riferimento alla metamorfosi del sistema di protezione verso un modello dinamico che rinviene il suo fondamento nel canone costituzionale della pienezza e dell’effettività.
La modifica della società ha, invero, portato a richieste di risposte individuali in relazione ad esigenze contingenti e specifiche, che il sistema di tutela giurisdizionale deve essere in grado di soddisfare concretamente.
Come diceva stamattina il Presidente Maruotti nella sua relazione, l’empirismo ha una notevole rilevanza nell’attività della giurisprudenza.
Il Consiglio di Stato ha diverse volte evidenziato, nelle sue pronunce, l’importanza di realizzare un sindacato tendente a un modello comune al livello europeo, in cui il principio di effettività della tutela giurisdizionale sia coniugato con la specificità delle controversie.
Scriveva già Mario Nigro nella sua relazione per il convegno di Varenna del 1981 dedicato al giudizio di ottemperanza: “il giudizio di ottemperanza alle sentenze amministrative è divenuto il punto di maggiore vitalità ed attualità dell’intera giustizia amministrativa”.
In effetti, la centralità e la rilevanza del giudizio di ottemperanza in chiave di tutela pienamente satisfattoria della pretesa sostanziale si coglie davvero analizzando l’evoluzione della giurisprudenza amministrativa, che con aperture sempre più marcate ha intrapreso percorsi innovativi, pervenendo a posizioni di notevole importanza.
Il giudizio di ottemperanza ha, invero, la specifica funzione di assicurare la verifica dell’esatta attuazione, da parte dell’Amministrazione, degli obblighi che derivano dalla sentenza di cui si chiede l’esecuzione, al fine di attribuire il concreto bene della vita alla parte vittoriosa in sede di cognizione.
Tale controllo presuppone l’individuazione degli specifici obblighi conformativi che derivano dal giudicato, e, dunque, può concludersi con il riscontro dell’adempimento da parte dell’Amministrazione, o, invece, della totale inerzia della stessa, o ancora, in via intermedia, dell’attuazione incompleta, inesatta o elusiva del giudicato.
Dall’analisi dei più recenti orientamenti della giurisprudenza amministrativa possono individuarsi, fra i tanti, alcuni profili di particolare rilievo, come, ad esempio, il tema che concerne il rapporto tra giudizio di ottemperanza e giudizio di impugnazione, per il caso di provvedimenti sopravvenuti, anche con riferimento al tema dell’elusione del giudicato.
Il rapporto tra giudizio di ottemperanza e giudizio di impugnazione è strettamente connesso all’elasticità e all’incompletezza del comando impartito all’amministrazione con la sentenza.
Spesso, per ottemperare al giudicato, è necessaria l’emanazione di ulteriori provvedimenti il cui contenuto concreto è lasciato alla discrezionalità dell’amministrazione, seppur limitata dal precetto giurisdizionale, e che possono soddisfare o meno la pretesa sostanziale del ricorrente. E’, innanzitutto, necessario accertare se i provvedimenti sopravvenuti si innestino nell’ambito dell’azione amministrativa di ottemperanza alla sentenza o siano da attribuire alla sfera lasciata libera dal giudicato, conseguendone diversi effetti in ordine alle modalità di azione giurisdizionale. Nel primo caso si procederà con l’azione di ottemperanza, mentre nel secondo caso con il giudizio di impugnazione.
Il provvedimento sopravvenuto ed emanato in dichiarata esecuzione del giudicato dev’essere impugnato, nel termine di decadenza, con il ricorso ordinario, che attivi, cioè, un nuovo giudizio di cognizione, quando se ne deduce l’illegittimità per la violazione di regole di azione estranee al decisum della sentenza da eseguire, mentre l’atto asseritamente emesso in violazione o in esecuzione del giudicato dev’essere impugnato con il ricorso per ottemperanza nel termine di prescrizione dell’actio iudicati, in quanto nullo ai sensi dell’art. 21-septies l. n. 241 del 1990 e 114, comma 4, lett. b), del c.p.a. (Cons. St., sez. V, 23 maggio 2011, n. 3078), salve le regole sulla conversione del rito, in presenza dei relativi presupposti (Cons. Stato, Ad. Plen., 15 gennaio 2013, n. 2)” (cfr. Cons. Stato, sez. III, 22 giugno 2016, n. 2769).
Nell’incertezza sulla natura del provvedimento (se, cioè, emanato nell’ambito dell’attività di ottemperanza o, invece, della sfera di azione amministrativa rimasta libera dal giudicato), è comunque preferibile esperire il giudizio di ottemperanza, che è un giudizio esteso al merito, in grado, dunque, di assicurare nel modo migliore il principio di effettività della tutela giurisdizionale.
 “Nei confronti di atti amministrativi adottati in seguito a una sentenza di annullamento, è consentito proporre in un unico ricorso, diretto al giudice dell’ottemperanza, domande tipologicamente distinte, le une proprie di un giudizio di cognizione e le altre di un giudizio di ottemperanza; il giudice dell’ ottemperanza, se respinge le domande di nullità o inefficacia degli atti, ove il ricorso sia stato proposto nel rispetto dei termini per l’azione di annullamento, dispone la conversione dell’azione per la riassunzione del giudizio avanti al giudice competente per la cognizione” (Cons. Stato, Ad. plen., 15 gennaio 2013, n. 2).
Una volta accertato che si tratta di azione amministrativa posta in essere in funzione dell’esecuzione della sentenza, è compito del giudice dell’ottemperanza verificare se eventualmente si sia al cospetto di una violazione del giudicato o di un’elusione dello stesso, nel caso in cui l’Amministrazione si sia limitata a dare ossequio puramente formale e non sostanziale al precetto giurisdizionale.
E’ noto, infatti, che in seguito all’entrata in vigore dell’art. 21-septies della legge n. 241 del 1990 si è giunti alla disciplina da parte dell’ordinamento positivo della tanto sperata unificazione degli effetti della violazione e dell’elusione del giudicato, che la giurisprudenza e la dottrina avevano già da tempo prospettato, con relativa semplificazione delle problematiche agli stessi connesse.
Invero, la sanzione della nullità è la più grave fra quelle previste dall’ordinamento.
Ciò dimostra che non eseguire una sentenza è qualcosa che viola il nostro sistema di principi fondamentali, anche di ordine costituzionale. Chiunque la eluda attraverso l’inerzia, o mediante l’emanazione di un provvedimento abnorme, sta ponendo in essere la violazione dell’ordinamento stesso dello Stato.
Violazione ed elusione sono, ormai, la stessa cosa: si rientra sempre nell’ambito del giudizio di ottemperanza. Impostazione confermata dalla disciplina di tale giudizio contenuta nel Codice del processo amministrativo.
Il giudice dell’ottemperanza che rilevi la violazione o l’elusione del giudicato, non dovrà limitarsi a dichiarare la nullità dell’atto, ma dovrà garantire l’esatta esecuzione del giudicato. 
In realtà appare chiaro che il giudice dell’ottemperanza pone in essere un’attività di regolazione del rapporto sostanziale.
«Nel caso in cui l’amministrazione adotti un qualche provvedimento in violazione od elusione del contenuto del giudicato amministrativo, non può sostenersi fondatamente che il giudice dell’ottemperanza, che rileva la violazione o l’elusione, e provvede di conseguenza, invade la sfera riservata al potere discrezionale della Pubblica Amministrazione, atteso che, in ossequio al principio di effettività della tutela giuridica, il giudizio di ottemperanza, al fine di soddisfare a pieno l’interesse sostanziale del soggetto ricorrente, non può arrestarsi dinanzi ad adempimenti parziali o incompleti o a condotte addirittura elusive del contenuto della decisione del giudice amministrativo.
E’ appena il caso di rilevare che caratteristica principale del giudice di ottemperanza è di decidere anche nel merito e l’esistenza di poteri di decisione nel merito consente al giudice di adottare provvedimenti in luogo dell’amministrazione inadempiente, cioè di sostituirsi coattivamente al soggetto obbligato ad adempiere» (Cass. civ., S. U., 19 agosto 2009, n. 18375).
Costituisce eccezione a tale regola l’ottemperanza delle sentenze concernenti i provvedimenti del CSM.
L’art. 2, d.l. 24 giugno 2014, n. 90, recante Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari (in Gazz. Uff. 24 giugno 2014, n. 144), convertito con modificazioni dalla l. 11 agosto 2014, n. 114, ha, invero, modificato l’art. 17, l. 24 marzo 1958, n. 195, recante Norme sulla costituzione e sul funzionamento del Consiglio superiore (in Gazz. Uff. 27 marzo 1958, n. 75), nel senso di escludere l’applicazione delle lett. a) e c) del comma 4 dell’art. 114 ai ricorsi per l’esecuzione del giudicato formatosi su giudizi relativi ai provvedimenti di incarichi direttivi e semidirettivi a magistrati ordinari.
Il comma 2 dell’art. 17, in seguito alle modifiche, così recita:
La tutela giurisdizionale davanti al giudice amministrativo è disciplinata dal codice del processo amministrativo. Per la tutela giurisdizionale nei confronti dei provvedimenti concernenti il conferimento degli incarichi direttivi e semidirettivi si segue, per quanto applicabile, il rito abbreviato disciplinato dall’articolo 119 del codice del processo amministrativo di cui al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104. Nel caso di azione di ottemperanza, il giudice amministrativo, qualora sia accolto il ricorso, ordina l’ottemperanza ed assegna al Consiglio superiore un termine per provvedere. Non si applicano le lettere a) e c) del comma 4 dell’articolo 114 del codice del processo amministrativo di cui al decreto legislativo n. 104 del 2010”.
Ai sensi dell’art. 114, comma 4, lett. a) e c), cod. proc. amm.: Il giudice, in caso di accoglimento del ricorso:

a) ordina l’ottemperanza, prescrivendo le relative modalità, anche mediante la determinazione del contenuto del provvedimento amministrativo o l’emanazione dello stesso in luogo dell’amministrazione;

c) nel caso di ottemperanza di sentenze non passate in giudicato o di altri provvedimenti, determina le modalità esecutive, considerando inefficaci gli atti emessi in violazione o elusione e provvede di conseguenza, tenendo conto degli effetti che ne derivano.

Dunque, tale norma introduce un’eccezione alla regola per la quale il giudice può sostituirsi all’amministrazione dettando le modalità esecutive e persino adottando il provvedimento satisfattivo della pretesa sostanziale dell’avente diritto, derivandone l’affievolimento, in tal caso, della piena esplicazione del principio di effettività della tutela giurisdizionale.
Dall’esame delle più recenti sentenze sul tema risulta, peraltro, che il Giudice amministrativo è più propenso rispetto al passato a sottolineare le eventuali incongruenze del giudizio valutativo del CSM, e a sua volta il CSM è più disponibile ad eseguire le pronunce del Giudice amministrativo.
Una propensione, dunque, verso la tutela della giustizia sostanziale.
Con specifico riferimento al tema dell’elusione del giudicato, di notevole rilievo appare l’approdo cui è pervenuta la più recente giurisprudenza, con particolare riferimento ai settori in cui emerge la spiccata natura discrezionale dell’azione amministrativa, come quello dei concorsi pubblici universitari.
Invero, nonostante in astratto il rapporto tra la sfera di azione della giurisdizione amministrativa e quello dell’esercizio delle potestà amministrative debba restare distinto, in omaggio al principio di separazione dei poteri del Montesquieu, la funzione sempre più satisfattoria del processo amministrativo rende inevitabile che la relazione tre le due funzioni diventi sempre più di integrazione l’una con l’altra, al fine del reale perseguimento del principio di effettività della tutela giurisdizionale.
Come bene ha messo in evidenza il Presidente Patroni Griffi nella sua relazione di apertura, esiste un confine mobile tra cognizione e ottemperanza: molte valutazioni e strumenti di tutela prima ritenuti esclusivi dell’ottemperanza vengono ora ricondotti alla fase della cognizione.
Grazie alla piena conoscenza del fatto resa possibile dai più idonei strumenti operativi (C.T.U. e verificazione) l’esplicazione della discrezionalità tecnica viene resa pienamente conoscibile e sindacabile già in sede di legittimità, rendendo labile la formale distinzione tra giurisdizione di legittimità e giurisdizione di merito.
Come scriveva Giuseppe Chiovenda: “il processo deve dare al titolare di una situazione soggettiva tutto quello e proprio quello che il diritto sostanziale riconosce”.
Questo, anche mediante specifiche tecniche di attuazione dei diritti nel processo amministrativo, come è stato rilevato in un suo scritto dal professor Marco Mazzamuto.
Il giudizio di ottemperanza, dunque, va visto come strumento operativo di tutela sostanziale sempre in evoluzione: diceva Mario Nigro, come è stato autorevolmente ricordato stamattina, che la giustizia amministrativa è un prodotto storico. Si evolve in relazione alla stessa evoluzione della società.
E’ lo stesso principio espresso negli artt. 6 e 13 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, negli artt. 24, 103 e 113 della nostra Costituzione repubblicana, nell’art. 19 del Trattato di funzionamento dell’Unione europea, e nell’art. 47 della Carta di Nizza.
Anche il Codice del processo amministrativo, all’art. 1, prevede che: “la giurisdizione amministrativa assicura una tutela piena ed effettiva secondo i principi della Costituzione e del diritto europeo”. E del diritto internazionale, aggiungo io.
 “In una procedura di valutazione comparativa, l’annullamento della valutazione da parte del giudice amministrativo non preclude in via di principio la riedizione del potere amministrativo, ma la nuova valutazione non può porre in discussione l’accertamento del giudice circa la sussistenza dei presupposti relativi alla pretesa del ricorrente e comunque deve dimostrarsi il frutto della constatazione della erroneità del giudizio precedente” (Cons. Stato, Ad. plen., 15 gennaio 2013, n. 2).
 “La consumazione della discrezionalità amministrativa può dipendere, oltre che da consolidati meccanismi di diritto sostanziale (ad esempio; auto-vincoli posti dalla stessa amministrazione) o di diritto processuale (ad esempio, combinazione di ordinanze propulsive e motivi aggiunti, preclusioni istruttorie, principio dell’onere della prova), anche della insanabile “frattura” del rapporto di fiducia tra Amministrazione e cittadino, derivante da un agire reiteratamente capzioso, equivoco, contraddittorio, lesivo quindi del canone di buona amministrazione e dell’affidamento riposto di privati sulla correttezza dei pubblici poteri. In presenza di una evenienza siffatta, resta precluso all’amministrazione di potere tornare a decidere sfavorevolmente nei confronti dell’amministrato anche in relazione ai profili non ancora esaminati” (Cons. Stato, sez. VI, 25 febbraio 2019, n. 1321, che esprime l’orientamento della più recente giurisprudenza amministrativa).
E’ stato da alcuni provocatoriamente affermato che il giudicato copre il dedotto e il deducibile. E’ forse preferibile affermare che il giudicato copre non solo le ragioni giuridiche fatte valere espressamente dal ricorrente, ma anche quelle che, pur non espressamente dedotte, costituiscono precedenti logici essenziali e indefettibili della decisione, il cosiddetto giudicato implicito.
Nel caso in cui il giudice eserciti i poteri previsti dall’articolo 34, lettera e) del Codice del processo amministrativo e, dopo aver annullato un precedente giudizio negativo, ne disponga la rinnovazione anche utilizzando una Commissione in diversa composizione, egli deve specificare in maniera espressa se la rinnovazione dell’attività valutativa debba essere totale o parziale.
In ipotesi di generici ordini di rivalutazione ovvero di effettuare una nuova valutazione, i relativi poteri della commissione restano comunque limitati al tratto di azione amministrativa per il quale è stata ritenuta la illegittimità, restando fermi i profili positivi di giudizio eventualmente formulati in precedenza, sui quali il giudice non è intervenuto.
Nel caso in cui, invece, l’ordine di rivalutazione sia espressamente esteso al giudizio valutativo nella sua interezza, la commissione giudicatrice in diversa composizione può rivedere e modificare anche profili positivi di giudizio in precedenza espressi dalla originaria commissione.
Purtuttavia, il rispetto dei principi di buon andamento e di imparzialità dell’azione amministrativa e di tutela dell’affidamento del candidato non possono estendere ad libitum l’esercizio di tale potere di discrezionalità tecnica.
Al riguardo, invero, si impone un obbligo di esaustiva e stringente motivazione, la quale dia atto di tali precedenti valutazioni positive ed analiticamente ne confuti le risultanze, evidenziandone le ragioni di non condivisione: sotto tale aspetto, la ulteriore valutazione della commissione, contrastante con quella corrispondente della precedente commissione, è sostanzialmente basata sui suoi poteri di autotutela e pertanto deve basarsi su specifiche ragioni da cui emerga l’inadeguatezza delle conclusioni cui è giunta in parte qua la precedente commissione” (CdS, VI, n. 354 del 2018).
Altro tema rilevante è quello che riguarda i vari momenti del giudizio di ottemperanza: non è sempre un giudizio unitario, ma in esso si celano, in realtà, il più delle volte, tanti sottogiudizi legati alle specificità del caso, come emerge dalla disciplina contenuta agli artt. 112-114 del codice del processo amministrativo, risultandone, spesso, difficoltosa la comprensione di come i vari momenti del giudizio si innestino gli uni sugli altri.
Quando finisce il giudizio di ottemperanza? La sentenza pone realmente fine al processo? Esiste un momento definitivo del giudizio di ottemperanza?
Tali quesiti si pongono spontanei esaminando il caso oggetto della decisione del Consiglio di Stato in Adunanza plenaria n. 11 del 2016, il cosiddetto caso Pizzarotti, un articolato contenzioso, caratterizzato dalla stratificazione di sentenze del giudice amministrativo, atti dell’Amministrazione e attività esecutiva del commissario ad acta che si sono avvicendati nell’arco di tredici anni, concernente la partecipazione dell’impresa Pizzarotti S.p.a., nel 2003, ad una procedura indetta dal Comune di Bari finalizzata ad una ricerca di mercato di eventuali offerte per la realizzazione della cittadella giudiziaria di Bari, gara che si concludeva con una deliberazione della Giunta Comunale che accertava la rispondenza della proposta della società stessa alle richieste del bando, individuandola come preferibile rispetto alle altre offerte in quella sede formulate, alla quale, tuttavia,  seguiva la successiva inerzia dell’Amministrazione nel porre in essere l’attività necessaria alla realizzazione del progetto. La Pizzarotti instaurava, dunque, un giudizio avverso il silenzio, chiedendo che venissero portate a termine le procedure amministrative all’uopo necessarie, che si concludeva formalmente in senso positivo per la società, ma che, sostanzialmente, non permetteva alla stessa di ottenere il bene della vita a cui mirava.
Da tale vicenda emerge, invero, la problematica del giudicato a formazione progressiva, nonché della possibilità dello ius superveniens (o di una sentenza della Corte di giustizia) di incidere sullo stesso.
Il giudicato amministrativo interviene su di una realtà dinamica, in movimento, e che continua ad evolversi pure in seguito all’emanazione della sentenza.
La concreta soddisfazione dell’interesse sostanziale del ricorrente è, dunque, condizionata, cioè subordinata, alla mancata sopravvenienza di circostanze di fatto o di diritto che limitino o rendano impossibile l’ottemperanza perché con la stessa incompatibili. In tali casi potrà residuare la possibilità del solo diritto al risarcimento del danno, che non è mai la stessa cosa rispetto al bene della vita.
La dinamicità e la relativa flessibilità che spesso caratterizza il giudicato amministrativo nel costante dialogo che esso instaura con il successivo esercizio del potere amministrativo permettono al giudice dell’ottemperanza – nell’ambito di quell’attività in cui si sostanzia l’istituto del giudicato a formazione progressiva – non solo di completare il giudicato con nuove statuizioni “integrative”, ma anche di specificarne la portata e gli effetti al fine di impedire il consolidamento di effetti irreversibili contrari al diritto sovranazionale.
La preminente esigenza di conformità al diritto comunitario rileva anche in sede di ottemperanza, essendo dovere del giudice dell’ottemperanza interpretare la sentenza portata ad esecuzione e delinearne la portata dispositiva e conformativa evitando di desumere da essa regole contrastanti con il diritto comunitario.
Il giudicato amministrativo non può incidere sui tratti liberi dell’azione amministrativa lasciati impregiudicati dallo stesso giudicato e, in primo luogo, sui poteri non esercitati e fondati su presupposti fattuali e normativi diversi e successivi rispetto a quest’ultimo.
L’esecuzione del giudicato può trovare limiti solo nelle sopravvenienze di fatto e di diritto antecedenti alla notificazione della sentenza divenuta irrevocabile, con la conseguenza che la sopravvenienza è strutturalmente irrilevante sulle situazioni giuridiche istantanee, mentre incide su quelle durevoli nel solo tratto dell’interesse che si svolge successivamente al giudicato, determinando non un conflitto, ma una successione cronologica di regole che disciplinano la situazione giuridica anche per le situazioni istantanee, però, la retroattività dell’esecuzione del giudicato trova, peraltro, un limite intrinseco e ineliminabile (che è logico e pratico, ancor prima che giuridico), nel sopravvenuto mutamento della realtà — fattuale o giuridica — tale da non consentire l’integrale ripristino dello status quo ante (come esplicitato dai risalenti brocardi factum infectum fieri nequit e ad impossibilia nemo tenetur) che semmai, ove ne ricorrano le condizioni, può integrare il presupposto esplicito della previsione del risarcimento del danno, per impossibile esecuzione del giudicato, sancita dall’art. 112, comma 3, c.p.a. (Cons. Stato, Ad. plen., 9 giugno 2016, n. 11).
Ma anche nel caso delle sopravvenienze il giudice dell’ottemperanza ha dimostrato di saper trovare la più adatta modalità esecutiva per assicurare la tutela sostanziale.
È sempre possibile in sede di cd. “ottemperanza di chiarimenti” modificare la statuizione relativa alla penalità di mora contenuta in una precedente sentenza d’ottemperanza, ove siano comprovate sopravvenienze fattuali o giuridiche che dimostrino, in concreto, la manifesta iniquità in tutto o in parte della sua applicazione. Salvo il caso delle sopravvenienze, non è in via generale possibile la revisione  ex tunc  dei criteri di determinazione della astreinte dettati in una precedente sentenza d’ottemperanza, sì da incidere sui crediti a titolo di penalità già maturati dalla parte beneficiata. Tuttavia, ove il giudice dell’ottemperanza non abbia esplicitamente fissato, a causa dell’indeterminata progressività del criterio dettato, il tetto massimo della penalità, e la vicenda successiva alla determinazione abbia fatto emergere, a causa proprio della mancanza del tetto, la manifesta iniquità, quest’ultimo può essere individuato in sede di chiarimenti, con principale riferimento, fra i parametri indicati nell’ art. 614- bis  c.p.c., al danno da ritardo nell’esecuzione del giudicato” (Cons. Stato, Ad. plen., 9 maggio 2019, n. 7, con specifico riferimento alla modifica delle penalità di mora (astreintes) divenute inique).
Sul rapporto tra giudizio di ottemperanza e sopravvenienze, possono ricordarsi, fra le più significative, anche le seguenti decisioni:
Cons. Stato, sez. V, n. 6582/2018: “è dubitabile che l’odierna ricorrente possa allo stato vantare un obiettivo interesse alla proposizione del ricorso, in quanto non potrebbe comunque ottenere direttamente in concessione il servizio di trasporto di cui trattasi, la relativa titolarità (e, dunque, i contrapposti interessi) facendo ormai capo ai Consorzi di appartenenza a far data dal 1° gennaio 2008. Da tale data, del resto, l’assegnazione delle concessioni dei servizi di trasporto pubblico può effettuarsi esclusivamente attraverso gara pubblica, con conseguente impossibilità giuridica di ri-attivare (come già detto, ora per allora) un procedimento non più contemplato dalla normativa vigente.
Per l’effetto, anche in ragione del generale principio per cui, ai fini dell’ottemperanza, il giudice amministrativo “deve anche apprezzare le eventuali sopravvenienze di fatto e/o di diritto per stabilire in concreto se il ripristino della situazione soggettiva come definitivamente accertata in sede di cognizione, sia compatibile con lo stato di fatto e/o diritto prodottosi medio tempore” (ex multis, Cons. Stato, VI, 17 gennaio 2011 n. 244; VI, 18 agosto 2010, n. 5869), deve ritenersi che – alla luce della normativa sopravvenuta e degli assetti organizzativi di settore nelle more venutisi a creare – la sentenza della Sezione 27 novembre 2015, n. 5386, non sia più eseguibile in forma specifica, mediante la riedizione, ora per allora, dell’originaria procedura di assegnazione diretta alla ricorrente del servizio della linea in contestazione”.
Cons. Stato, sez. IV, n. 1300 del 2017: “del tutto legittimamente il Commissario ha proceduto alla nuova valutazione comparativa tra i due profili professionali ed alla valorizzazione della riportata condanna disciplinare (del vincitore nel giudizio), esattamente posta in relazione alla natura dell’incarico da assegnare, alle responsabilità funzionali che ne derivano e all’onore, al prestigio ed al decoro dell’ordinamento giudiziario nel suo complesso”.
Cass, SU, n. 1836/2016: “La sentenza del Consiglio di Stato che ordini alla P.A. in sede di ottemperanza di provvedere “ora per allora” malgrado l’impossibilità di svolgere un’istruttoria retroattiva deve essere cassata per violazione dei limiti esterni della giurisdizione amministrativa, attesa la totale carenza dei presupposti di emanazione di un legittimo provvedimento di ottemperanza. (Fattispecie relativa al piano di numerazione automatica dei canali televisivi, del quale si era ordinata la rinnovazione “ora per allora” nonostante l’ultimazione “medio tempore” del passaggio dal sistema analogico al digitale)”.
 
Concludendo, dunque, il giudizio di ottemperanza costituisce di certo un rilevante strumento per assicurare l’effettività della tutela giurisdizionale.
La giurisprudenza sta contribuendo sempre di più a rafforzarne l’efficacia, al fine di permettere che il ricorrente vittorioso in giudizio consegua effettivamente la pretesa sostanziale a cui aspira, conferendo portata sempre più satisfattoria al processo.
Anche il giudizio di ottemperanza, peraltro, deve fare i conti con il trascorrere del tempo e con le conseguenze allo stesso connesse, a cui il nostro destino è, inesorabilmente, subordinato.
Vi ringrazio per l’attenzione.
 
 Elena Quadri
Consigliere di Stato
 
 

[1] Relazione svolta al Convegno “Itinerari della Giustizia amministrativa e del suo giudice Itinerari della Giustizia amministrativa e del suo giudice. Per i 130 anni dall’istituzione della Quarta Sezione del Consiglio di Stato”, presso il Consiglio di Stato.
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