28/02/2020- Consumo sul posto nei negozi e somministrazione nei pubblici esercizi: gli ultimi sviluppi del dibattito giurisprudenziale

Consumo sul posto nei negozi e somministrazione nei pubblici esercizi: gli ultimi sviluppi del dibattito giurisprudenziale
di Michele Deodati – Responsabile SUAP Unione Appennino bolognese e Vicesegretario comunale
 
Consumo sul posto negli esercizi di vicinato o somministrazione in pubblici esercizi? Continua a trascinarsi nelle aule dei Tribunali amministrativi l’annosa questione circa la difficoltà di distinguere il consumo sul posto negli esercizi di vicinato dalla tradizionale attività di somministrazione di alimenti e bevande propria dei pubblici esercizi come bar e ristoranti, anch’essa peraltro definita “vendita per il consumo sul posto” fin dai tempi della vecchia L. nazionale n. 287/1991.
Nel caso che ha recentemente occupato il T.A.R. del Lazio, che si è espresso con la sentenza n. 1116 del 27 gennaio 2020, una società commerciale titolare di un esercizio di gastronomia calda e di vicinato, a seguito di accertamenti della Polizia locale, è stata ritenuta esercitare attività di somministrazione al pubblico di alimenti e bevande in ragione della presenza di tavoli con sedute abbinabili, le quali ai sensi della risoluzione del Ministero dello sviluppo economico non sarebbero utilizzabili. Di conseguenza, è stato emesso un provvedimento interdittivo avente ad oggetto un ordine di cessazione dell’attività di somministrazione di alimenti e bevande abusivamente intrapresa.
La particolarità di questa pronuncia sta nell’esito favorevole alla società ricorrente, che ha ottenuto l’annullamento del provvedimento interdittivo impugnato. Vedremo perché.
L’evoluzione del quadro normativo di riferimento nella Giurisprudenza: le tappe secondo il T.A.R. Lazio, Sentenza n. 1116/2020
Il Giudice romano non ha perso l’occasione per ripercorrere le tappe del tormentato percorso che fino ad oggi, su c.d. “tormentone degli arredi”, ha trovato ancora il T.A.R. Lazio e il Consiglio di Stato su posizioni diametralmente opposte.
Si parte dalla definizione normativa di somministrazione di alimenti e bevande, contenuta nell’art. 1L. n. 287/1991, che fa riferimento a locali all’uopo attrezzati. Connaturale a tale attività è l’assistenza al servizio di somministrazione della quale prova concreta (ma non unica) è data dalla presenza di personale di sala che serve gli utenti ai tavoli;
– il consumo sul posto negli esercizi di vicinato si affaccia per la prima volta nel D.Lgs. n. 114/1998 che, per l’appunto, consente tale modalità di consumo immediato sul posto dei medesimi prodotti venduti, subordinandolo alla condizione che “siano esclusi il servizio di somministrazione e le attrezzature ad esso direttamente finalizzati”. In modo indiretto ma inequivoco, si introduce una distinzione tra arredi ed allestimenti funzionali alla somministrazione tradizionale, e cioè appannaggio dei pubblici esercizi, e quelli utilizzabili nel caso di consumo sul posto negli esercizi di vicinato;
– con l’avvento del decreto Bersani2 (art. 3, comma 1, lett. f-bis, D.L. n. 223/2006) le attività commerciali, come individuate dal D.Lgs. n. 114/1998 sono svolte senza: f-bis: il divieto o l’ottenimento di autorizzazioni preventive per il consumo immediato dei prodotti di gastronomia presso l’esercizio di vicinato, utilizzando i locali e gli arredi dell’azienda con l’esclusione del servizio assistito di somministrazione e con l’osservanza delle prescrizioni igienico-sanitarie. La norma si riferisce alla facoltà accordata agli esercizi di vicinato alimentare di consumare sul posto i prodotti di gastronomia (e non quelli di propria produzione) con esclusione del servizio assistito di somministrazione;
– l’innovazione apportata dal decreto Bersani2 ha introdotto il richiamo espresso all’utilizzo dei locali e degli arredi dell’azienda ed eliminato il riferimento alle attrezzature finalizzate alla somministrazione (presente invece nel D.Lgs. n. 114/1998), lasciando invariata l’esclusione del servizio assistito di somministrazione. Tutto ciò – secondo il Giudice romano della Sentenza n. 1116/2020 – ha posto il problema di individuare in cosa potessero consistere questi arredi. Visto che tale locuzione non era presente nel testo normativo che disciplinava la materia prima dell’avvento del secondo decreto Bersani, si è ipotizzato che gli arredi potessero coincidere con quelli in uso presso i locali della somministrazione, nella specie, tavoli e sedie. Sennonché, a restringere gli spazi interpretativi e applicativi ci ha pensato il MISE, che nelle sue numerose Risoluzioni ha elaborato una funambolica ricostruzione secondo la quale “la possibilità di contemporanea presenza di tavoli e sedie associati o associabili, fatta salva solo la necessità di un’interpretazione ragionevole di tale vincolo, che non consente di escludere, ad esempio, la presenza di un limitato numero di panchine o altre sedute non abbinabili ad eventuali piani di appoggio”. Com’è noto, questa tesi è stata apertamente osteggiata dall’AGCM, che soffermandosi sul punto centrale della questione, e cioè l’individuazione del criterio-guida per distinguere la somministrazione di alimenti e bevande dalla vendita con consumo sul posto, anziché identificarlo, come fa il MISE, nelle dotazioni strutturali (arredi), lo circoscrive alla presenza o meno del servizio assistito, sulla falsariga di quanto definito nel testo della legge Bersani2. Secondo l’Autorità, non sussistono ragioni oggettive per mantenere una discriminazione anticoncorrenziale di tale portata tra operatori, peraltro in contrasto con il quadro normativo in tema di liberalizzazioni delle attività economiche e in grado di limitare ingiustificatamente le possibilità di scelta del consumatore, anche alla luce delle più recenti evoluzioni delle abitudini di acquisto;
– sempre secondo l’opinione offerta dal Giudice romano di primo grado, mentre la tesi patrocinata dal MISE, in sintonia con i precedenti della Sezione, impone un giudizio valutativo in concreto, accompagnato all’esigenza di un accertamento caso per caso, la diversa interpretazione sostenuta dall’Agcom, imperniata su di una valutazione a priori sulla presenza o meno del servizio assistito, a detta del T.A.R. genera proprio per questo gli effetti che si prefigge di contrastare, comportando una discriminazione anticoncorrenziale tra gli operatori degli esercizi di vicinato (che beneficerebbero della possibilità di svolgere, di fatto, attività di somministrazione senza munirsi di alcun titolo autorizzativo) e gli altri operatori della ristorazione, che invece necessitano di un titolo abilitativo ancorato a più gravosi requisiti e presupposti. E qui si fa l’esempio di cosa accade in ambiti urbani come quello di Roma Capitale, in cui l’attività viene ad essere interdetta nelle zone ricadenti in ambiti di tutela ove non è consentito il rilascio di nuove autorizzazioni per pubblici esercizi. Altra critica mossa dal Tribunale riguarda la difficoltà di verificare la presenza del cameriere a servire, circostanza facilmente eludibile fintanto che l’operatore non venga colto sul fatto;
– si invoca anche il sostegno della lingua italiana, laddove si cerca la definizione di “arredo” contemplata nel dizionario Devoto-Oli: “ogni mobile o suppellettile complementare all’uso di una casa o di un pubblico locale, secondo criteri di funzionalità o di gusto”. Un locale dunque, pur avendo i medesimi arredi (divani, mobili, quadri, lampadari ecc), può essere utilizzato sia per l’attività di somministrazione che per il consumo sul posto. Per il Tribunale, il punto nodale risiede nel rapporto di complementarietà e non di necessarietà che consente di qualificare un dato mobile quale componente dell’arredo di una casa o di un locale pubblico. Ben diversi dagli elementi di arredo sono però i mobili necessari, insostituibili e non complementari, per svolgere una data attività professionale: mobili che nel caso di specie sono le attrezzature necessarie (e non solo funzionali) all’attività di ristorazione. A tale constatazione segue che il locale “all’uopo attrezzato” (come dice l’art. 1L. n. 287/1991) è un locale in cui sono presenti i mobili tipici della somministrazione. Sostenere, come ha fatto il Consiglio di Stato, che il servizio senza cameriere non è mai assistito, si traduce in una asserzione che appare smentita da una valutazione equilibrata dei fatti riscontrabili, non potendosi dubitare che rinvenire in un ambiente tavoli da quattro o da sei con sedie abbinate, coperti da tovaglie in stoffa, e con piatti, stoviglie, bicchieri, acqua e vino sistemati sul tavolo sia indice serio e concreto per sostenere che in quell’ambiente si svolge (anche se il cliente deve recarsi al banco per prendersi la pietanza) un’attività di somministrazione e non il mero consumo sul posto dei prodotti venduti. Dunque, per il Giudice romano la nozione di servizio assistito non comprende solo la presenza del cameriere, ma anche l’insieme degli arredi e delle suppellettili, come appena descritti, necessariamente funzionali alla somministrazione e non ad essa meramente complementari.
A ulteriore sostegno dei propri assunti, il Tribunale invoca il decreto Bersani2, che non afferma sia da ritenersi assistito il solo servizio di ristorazione condotto con presenza di personale di sala (camerieri e/o altri dipendenti che ti portano il prodotto al tavolo); così come non modifica il concetto di somministrazione ritraibile dall’art. 1L. n. 287/1991 (ove si fa riferimento a locali “all’uopo attrezzati”) e si sofferma solo sugli “arredi”, legittimando di conseguenza l’interprete ad apprezzare le differenze insite nei due tipi di consumo traendo argomento dalla presenza delle attrezzature proprie, necessarie e non complementari, al servizio di ristorazione.
Il T.A.R. non manca di rilevare come tale esegesi sia anche in linea con il sistema delle liberalizzazioni che regge l’esercizio dell’attività di impresa, da non intendersi in modo assoluto, ma pur sempre temperato dalla necessità di tutelare motivi imperativi di interesse generale, per quanto nel rispetto dei principi di proporzionalità e non discriminazione.
Il Collegio si sofferma poi su un punto centrale, come si vedrà, che riguarda la diversità di regime amministrativo sussistente tra esercizi di vicinato e pubblici esercizi. Si chiarisce che se entrambe le tipologie di esercizi fossero assoggettate a Scia, ed ai medesimi requisiti sanitari e di sorvegliabilità, la distinzione non avrebbe ragion d’essere; ma così non è. Inoltre, in caso di aree del territorio comunale assoggettate a maggior tutela, e cioè quando l’attività dei pubblici esercizi viene sottoposta ad autorizzazione espressa e non a Scia, sopravvivono ancora contingenti e divieti di apertura, per quanto in relazione ad interessi generali non di matrice economica, che comporterebbero ulteriore e aggiuntiva fonte di ingiustificata disparità a vantaggio dei negozi e a scapito dei pubblici esercizi.
L’opposta interpretazione del Consiglio di Stato: la Sentenza n. 2280/2019 e successive applicazioni
Con la Sentenza n. 2280/2019, il Consiglio di Stato ha fissato il principio generale per il quale negli esercizi di vicinato legittimati alla vendita dei prodotti appartenenti al settore merceologico alimentare, è ammesso il consumo sul posto di prodotti di gastronomia purché in assenza del servizio “assistito” di somministrazione. Il “servizio assistito” di cui al citato art. 3, comma 1, lett. f-bis), D.L. n. 223/2006, è stato interpretato in senso più strettamente letterale, identificandolo quindi nell’offerta da parte del gestore di un servizio ai tavoli ad opera di personale impiegato nel locale. Il principio è stato applicato pedissequamente anche in successive, come nella Sentenza 8011/2019, secondo cui, ciò che invece emerge dall’errata ricostruzione del Giudice di primo grado, è una lettura di “servizio assistito” intesa in senso “funzionale”, e cioè come organizzazione dell’offerta da parte del gestore rivolta, nel suo complesso – e, dunque, anche in ragione delle modalità di strutturazione del locale – a favorire la consumazione sul posto dei prodotti di gastronomia. Per l’interpretazione accolta di “servizio assistito” – prosegue la sentenza del Consiglio di Stato n. 8011/2019 – è del tutto irrilevante la predisposizione degli arredi all’interno del locale, poiché, in assenza di personale ai tavoli, non è impedito che il mero consumo in loco del prodotto acquistato possa avvenire servendosi materialmente di suppellettili ed arredi, anche dedicati, presenti nell’esercizio commerciale, ossia in primis tavoli e sedie, ma a rigore anche tovaglioli o stoviglie, la cui generale messa a disposizione per uso autonomo e diretto di per sé non integra un servizio di assistenza al tavolo, ben potendo essere utilizzati anche dagli acquirenti che decidano di non fermarsi nel locale. Per cui, il mero consumo in loco del prodotto acquistato, sia pure servendosi materialmente di suppellettili ed arredi – anche dedicati – presenti nell’esercizio commerciale, non comporta un superamento dei limiti di esercizio dell’attività di vicinato.
Altro fronte di discussione: Gli “indici rivelatori” della somministrazione
Se da un lato il Consiglio di Stato ha respinto la ricostruzione offerta dal Giudice di primo grado in base ad un criterio di “non univocità” degli elementi enucleati in sede di verifica sostanziale circa le modalità di esercizio dell’attività, il T.A.R. Lazio si è sforzato di definire un elenco di “indici rilevatori” della presenza della presenza di un vero e proprio pubblico esercizio non autorizzato, così riassumibili:
a) la disposizione delle sedute e dei tavoli munite di apparecchiature per il consumo dei pasti con stoviglie e bevande;
b) la presenza di un rilevante numero di tavoli e sedie apparecchiati con stoviglie lavabili e menù che pubblicizzano prodotti al piatto con carta dei vini per la somministrazione;
c) la presenza di una macchina per il caffè, erogatori di birra alla spina;
d) un contesto connotato da un banco-bar attrezzato con relativo addetto, arredi funzionali alla somministrazione distribuiti sull’intera superficie utile del locale, modalità di offerta/esposizione delle bottiglie di alcoli, analcolici, superalcolici, uso di bottiglie con appositi dosatori a beccuccio per il tipo di mescita al banco, esposizione prezzi cocktails e prodotti da bar in genere, modalità di consumo delle bevande da parte degli avventori mediante banco lungo con sgabelli.
Il conflitto tra il Consiglio di Stato e il T.A.R. del Lazio si è esteso anche all’aspetto relativo agli indici rivelatori dell’attività di somministrazione. Se il Tribunale tende a voler classificare a priori una serie di elementi da utilizzare alla strega di presunzioni giuridiche (Sentenze n. 11516/2018 e nn. 4625195 e 5231/2019), il Collegio d’appello ha affermato anche in sede cautelare (ordinanze nn. 2572, 5579; n. 8255/2018; nn. 578 e 1297/2019), che per configurare la somministrazione in pubblico esercizio non basta l’utilizzo di tavoli, sedute, calici per le bevande, servizio assistito con mescita del vino, menù e consumo cibi in loco anche in rapporto alla superficie del locale destinata allo scopo.
Il T.A.R. Lazio critica il Consiglio di Stato: 1) tipologie di attività diverse comportano abilitazioni diverse
Il Tribunale romano, nella Sentenza n. 1116/2020, non ha mancato di criticare l’impostazione sostenuta dal Collegio d’appello nel già citato precedente n. 2280/2019. La fattispecie su cui il Supremo Collegio si è determinato aveva riguardo, al pari di altre affrontate in sede cautelare, ad un soggetto giuridico titolare di licenza di vicinato e di distinto titolo di laboratorio di gastronomia calda e fredda, e dunque abilitato dalla relativa Scia alla preparazione di pietanze tramite processi di cottura. Le materie prime utilizzate sono prodotti da forno, salumi, formaggi, prodotti ittici, carne, ortaggi, salse gastronomiche. Il Tribunale ritiene che il Collegio d’appello non distingua correttamente tra la vendita ed il consumo sul posto dei prodotti di propria produzione (che il Legislatore ha riservato agli artigiani alimentari iscritti all’Albo statale ovvero a quello regionale; nonché ai panificatori di cui dell’art. 4, comma 2-bis dello stesso decreto Bersani2) e la vendita ed il consumo sul posto dei prodotti di gastronomia, che è consentito agli esercenti di vicinato alimentare dall’art. 3, comma 1, lett. f-bis) dello stesso D.L. n. 223/2006. In definitiva, in base alla legge quadro artigianato e alla legislazione sul commercio, il Giudice amministrativo romano, come già si leggeva nella Sentenza del T.A.R. Lazio n. 9789/2019 e anche in ragione della normativa regionale applicabile al caso concreto, che è quella laziale, è giunto alla conclusione che:
– l’artigiano alimentare iscritto all’Albo svolge attività non soggetta alla disciplina sul commercio ma regolamentata da apposite disposizioni legislative (statali e regionali) che gli consentono, senza munirsi di alcun titolo commerciale (Scia, Dia, autorizzazione, ecc.) di effettuare l’attività di VENDITA, nei locali di lavorazione, o in quelli adiacenti, dei beni di produzione PROPRIA. La medesima disciplina gli permette il CONSUMO sul posto, immediato, dei medesimi beni utilizzando i locali e gli arredi dell’azienda con l’esclusione del servizio assistito di somministrazione e con l’osservanza delle prescrizioni igienico-sanitarie, in materia di inquinamento acustico e di sicurezza alimentare. Non può, anche se iscritto all’Albo, vendere o consentire il consumo sul posto di beni alimentari (gastronomia compresa) che non siano di propria produzione. Nessuna norma gli permette tanto, proprio perché all’artigiano non si applica la normativa sul commercio (lo dice espressamente il D.Lgs. n. 114/1998). Per superare tale limite deve munirsi di una licenza di vicinato alimentare (oggi Scia);
– l’artigiano alimentare non iscritto all’Albo altro non è che un soggetto che svolge attività di produzione e trasformazione alimentare per la quale necessita di una Scia di laboratorio di gastronomia. Detta Scia non permette assolutamente il consumo sul posto di prodotti di propria produzione ed è, ben diversamente, il titolo necessario per avviare un’attività di produzione e trasformazione alimentare (e non per vendere i relativi prodotti e men che mai per farli consumare);
l’esercente attività di laboratorio NON iscritto all’Albo, ma detentore di una licenza di vicinato alimentare è soggetto, giuridicamente, equiparato a detto esercente di vicinato e la cui attività, conseguentemente, è sottoposta alla disciplina commerciale. Può vendere prodotti alimentari (compresi, ai soli fini di asporto, quelli prodotti e trasformati in sede) ma il decreto Bersani gli permette di far consumare sul posto i soli prodotti di gastronomia. Non può far consumare sul posto i prodotti alimentari di PROPRIA produzione. Nessuna norma lo abilita a tanto e la violazione di detto precetto – utilizzando i locali e gli arredi dell’azienda e pur con l’esclusione del servizio assistito di somministrazione – si traduce in una attività di somministrazione non consentita in quanto non detentore di una licenza di cui alla lett. a) dell’ art. 5L. n. 287/1991;
– l’esercente di vicinato alimentare, oltre a poter vendere tutti i prodotti alimentari che vuole, può far consumare sul posto solo i prodotti di gastronomia. Non è a lui consentito, in alcun modo, il CONSUMO sul posto dei prodotti che eventualmente produce a livello artigianale avvalendosi della Scia di laboratorio; ed anche qui la violazione del precetto – utilizzando i locali e gli arredi dell’azienda e pur con l’esclusione del servizio assistito – genera un servizio di somministrazione che, in assenza della relativa abilitazione (e dunque di luna licenza di tipo a) sopra richiamata), deve ritenersi abusivamente condotto.
Definizione di “prodotti di gastronomia”: cosa si può cucinare in un ristorante e cosa si può preparare in un negozio
Ma quali sono i “prodotti di gastronomia” cui fa cenno il decreto Bersani2 e che possono essere venduti dal commerciante anche per il consumo sul posto presso l’esercizio di vicinato, utilizzando i locali e gli arredi dell’azienda con l’esclusione del servizio assistito di somministrazione e con l’osservanza delle prescrizioni igienico-sanitarie? Viene in soccorso la Sentenza della Corte di Cass. civ., sez. I, 5 maggio 2006, n. 10393, secondo la quale la distinzione tra attività di ristorazione e attività di somministrazione di prodotti di gastronomia, posta dall’art. 5L. 25 agosto 1991, n. 287, pur non sicura e quindi fonte di continue incertezze sul piano applicativo, viene ricondotta all’accertamento che la cottura o la manipolazione dei cibi sia effettuata, o non, all’interno dei locali dedicati all’attività dell’esercizio pubblico, attraverso la predisposizione di idonea attrezzatura. Solo in questo caso si è di fronte ad una vera e propria attività di ristorazione. Se invece le pietanze sono predisposte in locali diversi o la manipolazione in loco sia costituita da operazioni di composizione dei piatti con materie prime che non debbono subire trasformazioni (cottura) o per le quali sia sufficiente il semplice riscaldamento prima del servizio al cliente, deve ritenersi integrata l’ipotesi della somministrazione di prodotti di gastronomia. Nella nozione di gastronomia si possono dunque comprendere tutti gli alimenti che siano stati altrove confezionati e che vengano offerti, pronti al consumo, previa quella semplice operazione di riscaldamento (a piastra od a forno) che è l’unica consentita in quel genere di esercizi, nel mentre dalla tipologia dei prodotti in questione dovranno certamente esulare tutte le ipotesi di cibi che siano cucinati nel locale, e non rileva se preventivamente od a richiesta del cliente, posto che la presenza di una organizzazione per la preparazione dei pasti (locali, macchinari, personale) è propria e peculiare dell’esercizio di ristorazione.
Va comunque fatta una precisazione: la pronuncia della Suprema Corte distingue cosa si può cucinare nei ristoranti, che secondo la L. nazionale n. 287/1991 sono le tipologie “A”, da quello che si può preparare negli esercizi di tipo “B”, cioè i bar. Quest’ultima tipologia di prodotti è presa a paragone per chiarire cosa si può far consumare nei negozi di alimentari. Dunque, vediamo riconosciuta l’assimilazione tra pubblici esercizi di tipo “B” (bar), e negozi di vicinato, nei quali si possono preparare prodotti alimentari previo riscaldamento con esclusione della cottura. Questa conclusione contraddice in parte quanto sopra affermato dal T.A.R. nello sforzo di distinguere nettamente negozi di alimentari da pubblici esercizi, tipologie che in base alla lettura offerta sembrano quanto mai approssimarsi, e che nella realtà sono ormai soggette ad un’ibridazione talmente forte che richiederebbero una parificazione a livello di titolo abilitativo, come si spiegherà meglio in conclusione.
Il T.A.R. Lazio critica il Consiglio di Stato: 2) ampiezza della locuzione “servizio al tavolo”
Altro profilo di critica sollevato dal Tribunale romano all’impostazione seguita dal Consiglio di Stato, riguarda il postulato secondo il quale l’assenza “di un vero e proprio servizio al tavolo” circoscrive, in ogni caso e cioè indipendentemente dalla modalità praticata, l’attività di cui trattasi al “consumo sul posto” impedendole di classificarla quale servizio di somministrazione.
Ma il Tribunale intende rimarcare le differenze di disciplina che incontrano vendita di alimenti in negozio e somministrazione in pubblico esercizio, facendo leva su argomenti nuovi rispetto a quelli già avanzati in altri precedenti e respinti dal Collegio d’appello. Sulla base dei seguenti elementi tratti dal contesto normativo, finisce in realtà per parlare d’altro rispetto alla critica mossa al concetto di “servizio al tavolo”:
– requisiti morali più stringenti per l’attività di somministrazione, come previsti dall’art. 71D.Lgs. n. 59/2010; l’attività è preclusa a chi ha riportato, con sentenza passata in giudicato, una condanna per reati contro la moralità pubblica e il buon costume, per delitti commessi in stato di ubriachezza o in stato di intossicazione da stupefacenti; per reati concernenti la prevenzione dell’alcolismo, le sostanze stupefacenti o psicotrope, il gioco d’azzardo, le scommesse clandestine, nonché per reati relativi ad infrazioni alle norme sui giochi;
– obbligo per i soli pubblici esercizi di garantire il rispetto delle norme di sorvegli abilità contenute nel D.M. n. 564/1992;
– norme per i soli pubblici esercizi sull’obbligo di servizi igienici contenute nel D.M. n. 236/1989 sulle barriere architettoniche;
– restrizioni, sempre per i soli pubblici esercizi, dovute alla pianificazione delle attività, che in città come Roma può anche arrivare a vietare certi tipi di attività, come per l’appunto la somministrazione, in determinate aree del centro. L’avvio di un’attività di vendita alimentare è spesso l’éscamotage utilizzato per aggirare tali divieti.
A ben guardare, stante l’attuale evoluzione del mercato, in ragione di nuove abitudini di acquisto e consumo che portano la clientela a preferire il consumo sul posto in qualsivoglia attività o locale di tipo alimentare, i distinguo che il Tribunale si sforza di recuperare dal tessuto normativo devono essere meglio precisati, avanzando alcune ipotesi e proposte:
– le differenze circa i requisiti di onorabilità, costituiscono una disparità di trattamento proprio a causa del descritto fenomeno di ibridazione che stanno conoscendo negozi di alimentari e pubblici esercizi;
– sul fronte della sorvegliabilità, benché vada fatta una riflessione sull’attualità dell’istituto a distanza di così tanti anni dall’introduzione di questo principio nell’ordinamento, si potrebbe al limite estendere la sua applicabilità a tutte le attività che offrono servizi di consumo sul posto, sempre che questo sia elemento ancora effettivamente incidente sul tema della sicurezza e dell’ordine pubblico;
– il richiamo al D.M. n. 236/1989 va precisato; tale norma si guarda bene dall’introdurre un obbligo generalizzato per i pubblici esercizi di dotarsi di un servizio igienico per il pubblico, altrimenti dovrebbero chiudere 2/3 delle strutture esistenti. In realtà l’obbligo vale solo per i dipendenti (D.P.R. n. 827/1980). Il decreto prevede invece che l’adeguamento scatti in caso di ristrutturazione. Infatti, il punto 5.7 dice che negli edifici, unità immobiliari o ambientali aperti al pubblico esistenti, che non vengano sottoposti a ristrutturazione e che non siano in tutto o in parte rispondenti ai criteri per l’accessibilità contenuti nel presente decreto, ma nei quali esista la possibilità di fruizione mediante personale di aiuto anche per le persone a ridotta o impedita capacità motoria, deve essere posto in prossimità dell’ingresso un apposito pulsante di chiamata al quale deve essere affiancato il simbolo internazionale di accessibilità;
– per le differenze legate al diverso regime di pianificazione, occorre considerare che le restrizioni all’apertura non dovrebbero fondarsi sul requisito giuridico-formale dei tipo di intervento attivato (Scia per apertura esercizio di vicinato o Scia per apertura di un pubblico esercizio). Sarebbe meglio applicare un criterio fattuale, per cui in certe aree, tutte le attività di tipo alimentare con possibilità di consumo sul posto (ad esempio perché hanno lo spazio potenziale per posizionare tavoli e sedie) sono soggette ai divieti e alle restrizioni della pianificazione locale.
Restano comunque condivisibili le osservazioni svolte dal Tribunale rispetto alla necessità di distinguere tra attività artigianale e commerciale, ma questi sono requisiti soggettivi dell’impresa e non oggettivi dell’attività.
Un criterio di distinzione: le tipologie di prodotti
In un contesto così intricato, un criterio-guida forse più efficace è quello basato sulla tipologia di prodotti che ciascun operatore alimentarista può pensare di vendere e/o far consumare in ragione del tipo di attività svolta. Il problema, evidenzia il Giudice, non si è quasi mai posto per distinguere ristoranti e negozi, perché come si è visto, solo nei primi si può somministrare per il consumo sul posto i prodotti manipolati con cottura mediante apposita strumentazione. Inoltre, su altro piano, il criterio è anche utile per definire cosa può offrire il commerciante rispetto all’artigiano. Le criticità sono emerse quando il commerciante, assistito dallo schermo di una ulteriore notifica sanitaria per produzione laboratoriale, ha preteso di poter far consumare sul posto anche le specialità da lui prodotte, realizzando così, di fatto, un servizio del tutto assimilabile alla ristorazione tradizionale.
Del resto, come già detto, anche il criterio della tipologia di prodotti ha un limite: se aiuta a distinguere il commerciante dall’artigiano e dal ristoratore, di fatto lo assimila al titolare di un bar, che come il commerciante non produce ma acquista beni alimentari da altri e si limita a farcirli (ad es. panino) o a riscaldarli (ad es. pizza) senza cuocerli. Se poi consideriamo che ormai anche il MISE ha ceduto e accetta l’uso di calici di vetro e stoviglie durevoli (Ris. 28 novembre 2016, n. 372321), a patto di disporre di una lavastoviglie, allora l’assimilazione è pressoché completa. Tocca al Legislatore prenderne atto. Il meccanismo, dicevamo, si è andato incrinando quando il commerciante non si è accontentato di questa modalità, ma ha preteso di dotarsi di una notifica per produzione laboratoriale fuori albo e con consumo sul posto di tali prodotti.
Me è importante rilevare che sul tema del “tormentone degli arredi”, il T.A.R. ha infine ceduto, affermato che il solo riscontro di tavoli e sedie abbinati da parte di un titolare di Scia di laboratorio e di vicinato alimentare non è indice inequivoco della presenza di un servizio di somministrazione. Nulla, difatti, autorizza a ritenere che i prodotti di laboratorio vengono, oltre che legittimamente venduti per asporto, anche (illegittimamente) consumati sul posto; peraltro nulla esclude che detto titolare sia anche un artigiano iscritto all’Albo. Così facendo, e in questo sta la novità, nonostante le ritrosie iniziali, il Giudice di primo grado è finito per accettare la sostanziale assimilazione tra le tipologie di arredo, che anche per i negozi possono coincidere con tavoli e sedie tradizionalmente in uso nella ristorazione.
Una possibile via d’uscita: la “Scia unica alimentare” e le differenze tra commercio e artigianato
Per quanto la ricostruzione minuziosa del Tribunale si apprezzabile per lo sforzo di trovare uno spiraglio risolutivo in una materia alquanto complicata, resta il fatto che sul piano pratico, le Amministrazioni sono in forte difficoltà quando si tratta di stabilire se sono di fronte ad un’attività legittima o abusiva. Infatti, troppi sono i distinguo e le sfumature perché l’attività di accertamento sia indirizzabile univocamente. Come uscirne? E’ dunque evidente che per risolvere una volta per tutte questa diatriba burocratica foriera di infiniti contenziosi, il Legislatore dovrebbe assumersi la responsabilità di finire il lavoro iniziato a suo tempo dal decreto Bersani2, che malgrado le tante resistenze, ha di fatto aperto la strada alla somministrazione di alimenti e bevande (il cui significato è comunque e sempre, per l’appunto, “consumo sul posto”) anche negli esercizi commerciali.
Meglio prevedere, in luogo della Scia per l’esercizio della vendita alimentare in esercizio di vicinato, distinta dalla Scia per la somministrazione di alimenti e bevande in pubblico esercizio, una generica Scia per l’avvio di un’attività alimentare. Che poi si venda, si somministri o si facciano entrambe le cose, dipenderà dai requisiti igenico-sanitari e strutturali del locale, dalle dotazioni strutturali e strumentali, oltre che dal flusso di lavoro evidenziato nel manuale di autocontrollo.
Che questa sia la strada giusta lo conferma indirettamente l’affermazione contenuta nella recente sentenza del T.A.R. Lazio n. 9789/2019, ribadita anche, come visto più sopra, nella Sentenza n. 1116/2020: “…se entrambe le tipologie di esercizi fossero assoggettate a Scia, ed ai medesimi requisiti sanitari e di sorvegliabilità, la distinzione non avrebbe ragion d’essere; ma così non è.” A parte la circostanza per cui in effetti è la Scia il regime applicabile ad entrambe le attività, salvo zone di tutela, il punto è proprio nella supposta diversità di disciplina, che in realtà non ha ragione di essere rimarcata tanto in sede di titolo abilitativo per l’accesso al mercato, quanto nell’ambito dei requisiti igienici, che non possono essere stabiliti in modo aprioristico-formale ma solo in base ad elementi sostanziali e oggettivi che variano in ragione del flusso di lavoro, degli elementi strutturali, del tipo di preparazioni, ecc., il cui riscontro operativo è rinvenibile nel Manuale di autocontrollo. Nel senso indicato, la razionalizzazione dei regimi amministrativi contenuta nel decreto Scia2 (D.Lgs. n. 222 del 2016), in cui il Legislatore si è limitato a riproporre l’impianto normativo preesistente basato su ripartizioni rigide tra commercio e somministrazione, si è rivelata un’occasione perduta.
Va tuttavia rimarcato che tale proposta non si estende fino ad auspicare commistioni tra commercio e artigianato. A ben vedere, qui il criterio di distinzione è di tipo soggettivo, e cioè riguarda il tipo di impresa. Come ha grandemente dimostrato il Tribunale romano, permangono chiare differenze tra l’una e l’altra categoria, ben evidenziate nella normativa sull’artigianato e in quella sul commercio.

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