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Ricognizione giurisprudenziale sugli interventi per cui è richiesto il permesso di costruire – Condomini, il pergolato è assimilato a una tettoia
 
Incide il fatto che la copertura sia realizzata in materiale non facilmente amovibile. Tanto che la struttura acquisisce autonomia funzionale rispetto all’edificio principale. Il comune, pertanto, è legittimato a bloccare i lavori se manca il permesso. Ricognizione giurisprudenziale sugli interventi per cui è richiesta l’autorizzazione a costruire
di Dario Ferrara
 
Il pergolato coperto è, di fatto, una tettoia, quindi non è possibile installarlo senza permesso di costruire. Incide il fatto che la copertura sia realizzata in materiale non facilmente amovibile. Tanto che la struttura acquisisce autonomia funzionale rispetto all’edificio principale. Stando ai criteri del dlgs 222/16, quindi, è precaria solo l’opera che soddisfa esigenze di temporaneità.
Il comune, pertanto, è legittimato a bloccare i lavori per i pergolati. E ciò perché in realtà sono vere e proprie tettoie e dunque serve il permesso di costruire il manufatto. Il tutto anche dopo il maquillage introdotto dal dlgs Scia 2, che pure ha introdotto una deregulation nel settore edilizio: l’opera resta precaria soltanto quando è destinata a soddisfare esigenze temporanee. Né si può invocare la più favorevole disciplina delle pertinenze: si tratta di manufatti di dimensioni rilevanti che assumono un’autonomia funzionale rispetto all’edificio principale. È quanto emerge dalla sentenza 24/2020, pubblicata dalla seconda sezione del Tar Lombardia, secondo cui è legittimo lo stop imposto dall’amministrazione locale al proprietario di casa. Decisive le foto depositate agli atti. Il pergolato, secondo la giurisprudenza del Consiglio di stato, è una struttura realizzata per adornare giardini o terrazze, costituita da un’impalcatura formata da montanti verticali ed elementi orizzontali che collegano i primi a un’altezza tale da consentire il passaggio delle persone. Ma quando alla sommità c’è una struttura difficile da rimuovere il manufatto si trasforma in una tettoia e l’intervento richiede il titolo edilizio maggiore. E il decreto legislativo 222/16 non innova la giurisprudenza amministrativa sul punto. Per stabilire se un’opera è precaria o meno più che il criterio strutturale va applicato quello funzionale: più che verificare se il manufatto risulta stabilmente fissato al suolo, conta stabilire se soddisfa esigenze o no esigenze permanenti nel tempo. E dunque per scampare al permesso di costruire può non risultare sufficiente che la struttura sia smontabile o non infisso al suolo.
Il titolo edilizio risulta necessario ogni volta che le opere alterano in modo stabile lo stato dei luoghi. In base all’articolo 3, comma primo lettera e.5, del testo unico dell’edilizia l’opera è precaria, e può dunque essere esentata dal titolo, soltanto quando l’uso del bene è delimitato nel tempo, oltre che specifico, e tale da soddisfare esigenze eccezionali o comunque contingenti ma mai permanenti. I manufatti soggetti a edilizia libera devono essere smantellati entro novanta giorni da quando termina la necessità dell’uso comunicando al comune l’avvio dei lavori. Nel caso di specie, le due tettoie avevano un lato lungo oltre cinque metri, la terza oltre sei: inutile tentare di spacciarle per pertinenze, che sono opere di «modesta entità e accessorie rispetto a un’opera principale» (per esempio i piccoli manufatti per il contenimento di impianti tecnologici come i contatori); sono escluse le strutture che per dimensioni e funzione non risultano coessenziali all’opera principale rispetto alla quale possono avere una diversa e autonoma utilizzazione economica.
I precedenti. Sono numerose le controversie in materia. Il regolamento comunale consente di autorizzare il pergolato e non vere e proprie verande: il primo, infatti, è un manufatto che ha soltanto natura ornamentale, realizzato con strutture leggere di sostegno a piante rampicanti che danno ombra e riparo; le seconde invece sono chiuse da tutti i lati da superfici vetrate e incrementano dunque la volumetria dell’edificio. È quanto si legge nella sentenza 233/19, pubblicata dalla prima sezione della sede di Pescara del Tar Abruzzo.
Niente da fare per l’istanza ex articolo 36 del testo unico dell’edilizia proposta dai proprietari dell’immobile. Anzitutto perché la sanatoria va chiesta quando l’intervento è finito e non in corso d’opera: la doppia conformità alle regole edilizie e urbanistiche deve sussistere al momento della domanda e della realizzazione del manufatto. E quindi la domanda deve essere presentata solo a cose fatte. In ogni caso il permesso di costruire ex post non potrebbe essere concesso perché la struttura è sì di legno, come un pergolato, ma è chiusa ai lati da infissi e risulta coperta: non rientra allora nella nozione assentibile di «pergola», che è costituita da leggere strutture verticali portanti, in legno o metallo, ed è aperta su tutti i lati. Insomma: l’opera risulta assimilabile a una veranda, che può avere finestre scorrevoli o a libro e che può essere realizzata soltanto con il permesso di costruire perché modifica la sagoma dell’edificio.
Va abbattuta, poi, la tettoia realizzata dal proprietario di casa senza permesso di costruire benché i pannelli laterali siano comunque amovibili. E ciò perché è l’incremento dei volumi che risulta in ogni caso realizzato a imporre di dotarsi del titolo edilizio. L’opera non può inoltre essere riconosciuta come pertinenza in senso urbanistico in modo da evitare la demolizione: si tratta di una nozione più restrittiva di quella applicabile in campo civilistico laddove esclude i manufatti che sono sì posti a servizio di un immobile ma risultano utilizzabili in modo autonomo rispetto a quest’ultimo. È quanto stabilito dalla sentenza 1051/16, pubblicata dalla quarta sezione del Tar Campania.
Deve dunque essere rimossa la superficie di quaranta metri quadrati sorretta da pali in legno e pareti laterali in muratura sull’immobile: in base al regolamento edilizio del comune, infatti, non può essere tecnicamente definita «tettoia» perché risulta chiusa da pareti laterali, per quanto non fisse. Come accade per esempio per la veranda, non basta la Dia-Scia per tutti gli interventi che alterano la sagoma di un’abitazione determinando l’incremento di volume e una variazione architettonica. Ancora: un bene che è pertinenza per il diritto civile può non esserlo sul piano urbanistico perché sul secondo fronte per evitare il permesso di costruire è necessario dimostrare che il manufatto risponda a una precisa esigenza dell’immobile cui accede. Il requisito non ricorre quando l’opera incriminata occupa aree e volumi diversi.
Il comune, infine, può negare la sanatoria alla tettoia quando i condomini non sono d’accordo. Alla faccia delle distinzioni fra aspetti pubblicistici e civilistici negli interventi edilizi, che pure trova ancora ampio consenso nella giurisprudenza amministrativa. E ciò perché l’ente locale non può assentire un’opera che si sospetta realizzata in una parte comune del fabbricato senza compiere una mancanza che rischia di viziare l’intero procedimento, dal punto di vista dell’istruttoria ma anche della motivazione. Lo chiarisce la sentenza 1472/16, pubblicata dalla seconda sezione del Tar Sicilia.
È vero: più volte, e anche in epoca recente, i giudici amministrativi hanno spiegato che in materia di rilascio dei titoli per costruire il comune deve badare solo alle questioni edilizie perché quelle civilistiche devono essere fatte valere davanti alla giustizia ordinaria. Ma è quando si verificano punti di contatto fra le due materie che l’amministrazione locale deve intervenire, verificando per esempio se il richiedente è in possesso di un idoneo titolo di godimento sull’immobile interessato dal progetto di trasformazione urbanistica. E dunque deve ritenersi che in caso di mancato assenso degli altri condomini l’ente possa negare la concessione in sanatoria chiesta ai sensi dell’articolo 39 della legge 724/94 laddove si ritiene che l’abuso interessi parti comuni del fabbricato. Non conta che penda in Cassazione il giudizio sulla proprietà dell’area incriminata laddove manca la prova che la sentenza di appello sia stata sospesa.

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