08/04/2020 – Oltre i profili costituzionali dei divieti di spostamento in tempi di Coronavirus

Oltre i profili costituzionali dei divieti di spostamento in tempi di Coronavirus
martedì 07 aprile 2020
di Gualtieri Mauro – Avvocato e Dottore di ricerca in Teoria Generale e Comparazione Processuale
 
Nella normativa primaria e delegata in materia di contrasto alla diffusione del Coronavirus sono coinvolti interessi costituzionalmente protetti, quali la libertà personale (art. 13), la libertà di circolazione (art. 16), il principio di irretroattività delle disposizioni sanzionatorie (art. 25), la tutela della salute (art. 32), la libertà della iniziativa economica privata (art. 41), l’esigenza di prevedere precisi principi e direttive nella delega ad adottare norme e la stessa legittimità del conferimento di poteri al riguardo al presidente del consiglio dei ministri, i cui provvedimenti non sono controfirmati dal presidente della Repubblica né controllati dal Parlamento (art. 72), i presupposti dei decreti legge (art. 77), l’assegnazione allo Stato della legislazione esclusiva in tema di profilassi internazionale (art. 117, comma 2, lett. q).
 
Premessa e inquadramento generale
I vari profili critici sulla compatibilità con questi principi delle disposizioni emanate sono stati evidenziati da più parti, con argomentazioni e conclusioni del tutto condivisibili, alle quali rinviamo [si veda il recentissimo studio di di Fabrizio FILICE e Giulia Marzia LOCATI, Lo Stato democratico di diritto alla prova del contagio, in Questione giustizia 27 marzo 2020; si vedano anche i tre scritti di Gian Luigi GATTA, Coronavirus, limitazione di diritti e libertà fondamentali, e diritto penale: un deficit di legalità da rimediare, in Sistema Penale, 16 marzo 2020; Id. Un rinnovato assetto del diritto dell’emergenza covid-19, più aderente ai principi costituzionali e un nuovo approccio al problema sanzionatorio: luci ed ombre del d.l. 25 marzo 2020, in Sistema penale, 26 marzo 2020; Id. I diritti fondamentali alla prova del coronavirus: perché è necessaria una legge sulla quarantenaivi 2 aprile 2020].
Ad esse ci limitiamo ad aggiungere che la Corte costituzionale, nelle sentenze 16 e 17 del 2013 [in Giur. It. 2013, 24], ha affermato il principio per cui è necessario un ragionevole bilanciamento tra diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione (nella specie artt. 4 e 32), in quanto essi si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile pertanto individuarne uno che abbia la prevalenza assoluta sugli altri e che possa diventare “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette.
Non sembra proprio che nella normativa emanata questa esigenza di ragionevole bilanciamento abbia trovato attuazione, atteso che la tutela della salute ha assunto una posizione “tiranna” di preminenza assoluta.
Appare inoltre disattesa, nella confusa accozzaglia di disposizioni adottate, l’esigenza di tassatività delle norme sanzionatorie penali e amministrative, nelle quali “il soggetto deve poter trovare, in ogni momento, cosa gli è lecito e cosa gli è vietato: ed a questo fine sono necessarie leggi precise, chiare, contenenti riconoscibili direttive di comportamento. Il principio di colpevolezza è, pertanto, indispensabile, appunto anche per garantire al privato la certezza di libere scelte d’azione: per garantirgli, cioè, che sarà chiamato a rispondere penalmente solo per azioni da lui controllabili e mai per comportamenti che solo fortuitamente producano conseguenze penalmente vietate; e, comunque, mai per comportamenti realizzati nella “non colpevole” e, pertanto, inevitabile ignoranza del precetto” [Corte cost. 364/1988, Foro it., 1988, I, 1385]: e ciò anche al fine di evitare che il giudice assuma un ruolo creativo, individuando, in luogo del legislatore, i confini tra il lecito e l’illecito [Corte cost. 327/2008, in DPEP 2008, 1381].
L’oggetto di questa indagine è peraltro molto più circoscritto ed è rivolto alla disamina delle disposizioni contenute nei d.l. n. 6/2020, convertito con modificazioni nella l. n. 13/2020e n. 19/2020, in corso di conversione, e nei numerosi D.P.C.M. da essi derivati, in materia di compressione della libertà di circolazione e della loro compatibilità con i rammentati principi costituzionali
Non si tratteranno, invece le specifiche condotte previste nelle molteplici ordinanze dei presidenti delle Regioni e dei sindaci, se non per rilevare che esse sono sovente state adottate in contrasto con la previsione dell’art. 117, comma 2, lett. q), che riserva allo Stato la legislazione in materia di profilassi internazionale, e che, essendo spesso contrastanti tra loro, hanno accresciuto il livello di incertezza del cittadino sulla liceità delle proprie condotte.
Tanto vero che nell’art. 3, commi 1 e 2, d.l. 19/2020, si è (finalmente) ripristinata la legalità, consentendo alle regioni di introdurre misure più restrittive rispetto a quelle di cui all’art. 1, comma 2, unicamente nelle more dell’adozione dei D.P.C.M. e con efficacia limitata fino a tale momento, purché sussistano “specifiche situazioni sopravvenute di aggravamento del rischio sanitario nel loro territorio o in una parte di esso” ed “esclusivamente nell’ambito delle attività di loro competenza e senza incisione delle attività produttive e di quelle di rilevanza strategica per l’economia nazionale”.
E ai Sindaci è stata espressamente vietata, a pena di inefficacia, l’adozione di ordinanze contingibili e urgenti in materia, in contrasto con le misure statali e non eccedenti i limiti fissati per le regioni.
Il d.l. 23 febbraio 2020, n. 6
Tanto premesso in via generale e per venire al tema che interessa, va rilevato come i limiti alla libertà di movimento a causa dell’emergenza sanitaria abbiano trovato fonte normativa primaria nel d.l. 23 febbraio 2020 n. 6, convertito con modifiche nella legge 5 marzo 2020, n. 13, il quale però non conteneva alcun precetto immediato, ma solo le deleghe previste agli artt. 1 e 2, individuando all’art. 3 gli organi competenti ad emettere i provvedimenti delegati.
Orbene, dall’art. 1 emerge che il provvedimento delegato poteva in generale essere emanato soltanto “Allo scopo di evitare il diffondersi del COVID-19, nei comuni o nelle aree nei quali risulta positiva almeno una persona per la quale non si conosce la fonte di trasmissione o comunque nei quali vi è un caso non riconducibile ad una persona proveniente da un’area già interessata dal contagio del menzionato virus, …” [in ragione di tale limite, è stato ben presto posto in evidenza come estensione qualitativa e territoriale delle misure realizzata con i D.P.C.M. 8 marzo e 9 marzo 2020 fosse di assai dubbia legittimità da Gian Luigi Gatta, Coronavirus, limitazione di diritti e libertà fondamentali, e diritto penale: un deficit di legalità da rimediare, in Sistema Penale 26 marzo 2020].
Nel lungo elenco di misure adottabili era previsto il “a) divieto di allontanamento dal comune o dall’area interessata da parte di tutti gli individui comunque presenti nel comune o nell’area; b) divieto di accesso al comune o all’area interessata”, suscettibile di incidere sulla libertà di movimento e sulla libera circolazione delle persone.
L’art. 2 consentiva l’adozione anche di misure atipiche, diverse rispetto a quelle previste nel lungo elenco dell’art. 1, con un evidente vulnus alla riserva di legge imposta dall’art. 16 Cost. [Gian Luigi GATTA, Coronavirus, limitazione di diritti e libertà fondamentali, e diritto penale: un deficit di legalità da rimediare, in cit.; Id. Un rinnovato assetto del diritto dell’emergenza COVID-19, più aderente ai principi costituzionali, e un nuovo approccio al problema sanzionatorio: luci ed ombre nel d.l. 25 marzo 2020, n. 19cit.].
Il riferimento ad ambiti territoriali limitati è figlio dell’epoca della redazione del provvedimento legislativo, posto che allora, con un tempismo purtroppo insufficiente, si credeva che l’epidemia sarebbe rimasta contenuta a pochi comuni o ad aree poco più vaste.
Ai sensi dell’art. 3 d.l. 6/2020, l’adozione delle misure soggette a sanzione era rimessa: (I) alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, sentiti i vari pareri previsti (comma 1); (II) nelle more dell’adozione dei DPCM e solo nei casi nei casi di estrema necessità ed urgenza, al Ministero della Salute, ai Presidenti delle Regioni ed ai Sindaci, a seconda dei casi, secondo le seguenti modalità (comma 2): a) in via contingibile e urgente al Ministro della Sanità, all’Autorità Sanitaria Regionale, e al Sindaco in materia igiene e sanità pubblica, di vigilanza sulle farmacie e di polizia veterinaria sanitaria e veterinaria (senza possibilità di limitare gli spostamenti delle persone); ai sensi dell’art. 32, l. 23 dicembre 1978, n. 833; b) nell’esercizio del potere sussidiario d’urgenza ai Sindaci ai sensi dell’art. 117, l. 31 marzo 1998, n. 112, ma solo “In caso di emergenze sanitarie o di igiene pubblica a carattere esclusivamente locale”; c) nell’esercizio del medesimo potere di cui alla precedente lett. b), ai Sindaci, sempre e solo “in caso di emergenze sanitarie o di igiene pubblica a carattere esclusivamente locale” (art. 50 TU Enti Locali).
Al comma 3 venivano fatti salvi gli effetti delle ordinanze contingibili e urgenti già adottate dal Ministro della Salute ai sensi dell’articolo 32 della legge 23 dicembre 1978, n. 833.
In ragione del carattere sussidiario dell’intervento dei soggetti di cui al comma 2, esso era da considerare esaurito una volta che, con il D.P.C.M. 9 marzo 2020, si era giunti a disciplinare l’intero territorio nazionale, escludendo dunque qualunque residuo spazio di intervento delle autorità locali.
Ed in tal senso la previsione di cui all’art. 5, comma 4, D.P.C.M. 8 marzo 2020, per la quale “4. Resta salvo il potere di ordinanza delle Regioni, di cui all’art. 3, comma 2, del decreto-legge 23 febbraio 2020, n. 6” doveva ritenersi del tutto superata e inefficace per effetto della “copertura” da parte della autorità centrale di tutto il territorio nazionale.
In esecuzione del d.l. 6/2020, è stata prodotto un lungo elenco di D.P.C.M., che si passano in rapida disamina, sorvolando su quelli iniziali, relativi alla c.d. zona rossa, e concentrando l’attenzione sui divieti di allontanamento e di spostamento.
Il D.P.C.M. 8 marzo 2020 pone(va) una serie di indicazioni, talvolta difficilmente interpretabili come divieti in senso stretto.
In particolare, prescriveva di “evitare ogni spostamento delle persone fisiche in entrata e in uscita dai territori di cui al presente articolo, nonché all’interno dei medesimi territori, salvo che per gli spostamenti motivati da comprovate esigenze lavorative o situazioni di necessità ovvero spostamenti per motivi di salute. È consentito il rientro presso il proprio domicilio, abitazione o residenza” (lett. a).
Raccomandava fortemente la permanenza domiciliare “ai soggetti con sintomatologia da infezione respiratoria e febbre (maggiore di 37,5° C) … di rimanere presso il proprio domicilio e limitare al massimo i contatti sociali, contattando il proprio medico curante” (lett. b).
Poneva il “divieto assoluto di mobilità dalla propria abitazione o dimora per i soggetti sottoposti alla misura della quarantena ovvero risultati positivi al virus” (lett. c).
Nel corpus juris emergenziale, la predetta misura della quarantena era ed è a tutt’oggi disciplinata dall’ordinanza del Ministero della Salute del 21 febbraio 2020 [è stato correttamente posto in rilievo che “L’art. 1 del dl n. 6 del 2020 [ora abrogato in parte qua] disponeva che «le autorità competenti, con le modalità previste dall’articolo 3, commi 1 e 2» [anch’essi abrogati] fossero tenute ad adottare provvedimenti per consentire l’«applicazione della misura della quarantena con sorveglianza attiva agli individui che hanno avuto contatti stretti con casi confermati di malattia infettiva diffusiva». Non era però esplicitamente chiarito chi fossero le autorità competenti ad adottare il provvedimento” (Andrea NATALE, Il decreto legge n. 19 del 2020: le previsioni sanzionatorie, in Questione Giustizia 28 marzo 2020). Si vedano anche le considerazioni di Gian Luigi GATTA, I diritti fondamentali alla prova del coronavirus. Perché è necessaria una legge sulla quarantenain Sistemapenale 2 aprile 2020], che, in maniera assolutamente tautologica, stabilisce che:
1. È fatto obbligo alle Autorità sanitarie territorialmente competenti di applicare la misura della quarantena con sorveglianza attiva, per giorni quattordici, agli individui che abbiano avuto contatti stretti con casi confermati di malattia infettiva diffusiva COVID-19.
2. È fatto obbligo a tutti gli individui che, negli ultimi quattordici giorni, abbiano fatto ingresso in Italia dopo aver soggiornato nelle aree della Cina interessate dall’epidemia, come identificate dall’Organizzazione mondiale della sanità, di comunicare tale circostanza al Dipartimento di prevenzione dell’azienda sanitaria territorialmente competente”.
Al di là delle imperfezioni linguistiche (l’individuo può avere contatti stretti con altre persone o cose, e non con “casi”) la previsione di cui al comma 1, soffre di un evidente deficit di legalità e tassatività, poiché il riferimento agli “stretti contatti” appare del tutto generico (è sufficiente un occasionale breve incontro o un fuggevole abbraccio o una convivenza protrattasi per giorni?), tenuto anche conto che si tratta(va) del presupposto per l’applicazione di una sanzione penale (ora non più le pene previste dall’art. 650 c.p., ma il reato di cui all’art. 260, R.D. 1265/1934, con sanzioni ritoccate al rialzo).
Manca, altresì, l’individuazione delle Autorità legittimate ad applicare la misura e soprattutto della stessa procedura da seguire, in chiara violazione dell’art. 13, comma 2, Cost. che consente all’autorità di pubblica sicurezza di adottare provvedimenti provvisori, che devono essere convalidati entro 48 ore dall’autorità giudiziaria: non può infatti dubitarsi della natura gravemente lesiva della libertà personale della quarantena, tra l’altro di 14 giorni di durata e mancante dunque del requisito della provvisorietà.
Non può certo sopperire a tali carenze la circolare del Ministero della Salute n. 5443, contenente indicazioni per gli operatori sanitari circa le iniziative da attuare in presenza di soggetto riscontrato positivo al tampone con il potere di disporre la “quarantena domiciliare con sorveglianza attiva per 14 giorni”, richiamata nel D.P.C.M. 4 marzo 2020 (poi abrogato) con la individuazione della “sorveglianza sanitaria” e dello “isolamento fiduciario”, poiché per adottare il divieto di allontanamento da casa e la misura della quarantena non sono evidentemente sufficienti un D.P.C.M. né una semplice ordinanza ministeriale o peggio una circolare del Ministero della salute, essendo “necessaria una base legale di rango primario” (Andrea NATALE, Il decreto legge n. 19 del 2020: le previsioni sanzionatoriecit., 4).
Questa è stata ipotizzata negli artt. 254 e 255 R.D. 1265/1934 (testo unico delle leggi sanitarie) [Andrea NATALE, Il decreto legge n. 19 del 2020: le previsioni sanzionatoriecit., 4. L’art. 254 R.D. n. 1265/1934 dispone che «il sanitario che, nell’esercizio della sua professione, sia venuto a conoscenza di un caso di malattia infettiva e diffusiva o sospetta di esserlo, pericolosa per la salute pubblica, deve immediatamente farne denunzia al podestà, e all’ufficiale sanitario comunale e coadiuvarli, se occorra, nella esecuzione delle disposizioni emanate per impedire la diffusione delle malattie stesse e nelle cautele igieniche necessarie»: il successivo articolo 255 stabilisce che «quando la gravità del caso lo esiga, il prefetto, sentito il medico provinciale, può (…) disporre gli altri provvedimenti necessari per assicurare la cura dei malati ed evitare la diffusione della malattia, informandone sollecitamente il Ministro per l’interno»].
In forza di queste disposizioni la quarantena potrebbe essere adottata dal Sindaco di concerto con il Dipartimento di Prevenzione dell’ASL (ex Ufficiale Sanitario), i quali darebbero poi “esecuzione” alle disposizioni del d.l. 19/2020, nonché dal Prefetto, sentito il medico provinciale ed informato il Ministro.
Ma, anche a prescindere dalla diversità dei soggetti legittimati rispetto alle previsioni delle due citate ordinanze del Ministro della salute, tali norme non sono rispettose delle sopraindicate prescrizioni dell’art. 13, comma 3, Cost, difettando la previsione di un qualsivoglia sistema di controllo da parte dell’autorità giudiziaria [cfr. in termini Andrea NATALE, Il decreto legge n. 19 del 2020: le previsioni sanzionatoriecit., 4., il quale mette in evidenza i profili di frizione con il dettato costituzionale, che pone l’esigenza di individuare dei limiti temporali e di un sistema di controllo da parte dell’autorità giudiziaria, trattandosi di limitazione della libertà personale].
L’obbligo di comunicazione previsto al comma 2 per i soli soggetti provenienti da specifiche ma imprecisate aree della Repubblica Popolare Cinese non è di per sé causa della violazione della quarantena, per cui non appare sanzionabile.
L’ambito territoriale di applicazione di tali misure era inizialmente costituito dalla regione Lombardia e dalle 14 province di Modena, Parma, Piacenza, Reggio nell’Emilia, Rimini, Pesaro e Urbino, Alessandria, Asti, Novara, Verbano-Cusio-Ossola, Vercelli, Padova, Treviso e Venezia.
Per effetto del D.P.C.M. 9 marzo 2020, la previsione è stata estesa a tutto il territorio nazionale, ferme restando le ipotesi sanzionabili, per cui il riferimento a “i territori di cui al presente articolo” è stato superato ed è stata introdotta una deroga agli spostamenti per lo svolgimento di attività motoria, sostituendo la lett. d) dell’art. 1 D.P.C.M. 8 marzo 2020, al cui termine sono state inserite le parole “lo sport e le attività motorie svolti all’aperto sono ammessi esclusivamente a condizione che sia possibile consentire il rispetto della distanza interpersonale di un metro”.
Con ciò, dal punto di vista territoriale, l’unico confine o delimitazione era costituito dall’intero territorio nazionale, senza che fosse prevista alcuna specificazione con riguardo al comune di residenza. Addirittura, in tutti i D.P.C.M. la parola “Comune” non risultava mai utilizzata, ma si era sviluppata una prassi applicativa tale per cui chi si allontanava dal proprio comune, anche per il compimento di attività consentite, veniva denunciato.
Le limitazioni allo spostamento per i soggetti sani non erano assolute, ma trovavano deroghe e condizioni che giustifica(va)no lo spostamento all’interno del territorio nazionale, ed esattamente: a) comprovate esigenze lavorative; b) situazioni di necessità; c) spostamenti per motivi di salute; d) rientro presso il proprio domicilio o abitazione; e) lo svolgimento all’aperto di attività sportive e motorie, a condizione che fosse possibile consentire il rispetto della distanza interpersonale di un metro.
Circa le esigenze lavorative, il termine “comprovate” appare generico ed inopportuno, in quanto rimette all’accertatore ed al giudice il potere di sindacare la condotta in base a parametri non riferibili a situazioni attuali, con un deficit di tassatività, trattandosi di condizione dalla quale dipende l’applicazione di una sanzione.
Tra di esse, dovrebbe considerarsi compresa l’attività svolta dai sacerdoti cattolici, che vengono retribuiti per la loro opera tramite l’I.C.S.C. – Istituto Centrale Sostentamento Clero e possono farsi rappresentare da una organizzazione sindacale (la F.A.C.I. – Federazione fra le Associazioni del Clero in Italia) nel caso in cui vi siano questioni lavorative da affrontare: appare dunque discutibile il noto fatto del parroco sanzionato in quanto ha portato in solitaria il crocifisso in processione per le vie del paese in occasione di una ricorrenza religiosa.
Le situazioni di necessità e le esigenze di salute costituiscono evidentemente le due facce della stessa medaglia, posto che alle seconde è evidentemente sottesa la prima.
Resta(va) però non agevole individuare le concrete condotte riferibili alla situazione di necessità di carattere non sanitario, nonostante si trattasse di un un ambito (allora) penalistico.
I dubbi sono stati in gran parte eliminati grazie alle previsioni del citato D.P.C.M. 11 marzo 2020, che ha prescritto all’art. 1: “… 1) Sono sospese le attività di vendita al dettaglio, fatta eccezione per le attività di vendita al dettaglio e di prima necessità individuate nell’allegato 1…”.
Pertanto, tutti gli spostamenti svolti per l’acquisto di uno dei prodotti venduti nelle attività inserite nel lungo elenco contenuto nell’allegato 1 al D.P.C.M. in parola erano da ritenersi giustificati. Non avrebbe del resto avuto alcun senso tenere aperte determinate attività commerciali, vietando al contempo ai cittadini di recarvisi.
Gli spostamenti effettuati a tal fine dovevano inoltre ritenersi giustificati e legittimi anche se avvenuti al di fuori del Comune di residenza, posto che nessuna disposizione sino al 22 marzo 2020 prevedeva limiti riferibili al territorio comunale, tantomeno nessuna previsione imponeva di accedere al posto più vicino alla propria abitazione.
Il rientro presso il proprio domicilio o abitazione, era – secondo logica – previsto per giustificare le condotte di quanti, trovandosi per qualsiasi ragione (vacanze, lavoro, o altro) lontano da essi, decidessero di farvi ritorno.
E in effetti, si sono verificati casi di persone che si sono trasferite nelle seconde case o nelle case di vacanza, il cui comportamento non è stato ritenuto giustificato e che sono state denunciate.
Ma va rilevato che con Ordinanza del 20 marzo 2020 il Ministro della Salute ha stabilito all’art. 1 lett. d) che “nei giorni festivi e prefestivi, nonché in quegli altri che immediatamente precedono o seguono tali giorni, è vietato ogni spostamento verso abitazioni diverse da quella principale, comprese le seconde case utilizzate per vacanza”, con ciò quindi implicitamente affermando che prima fosse consentito spostarsi liberamente da e per le seconde case.
Anche rispetto allo svolgimento di attività motoria, nel D.P.C.M. 9 marzo 2020, non vi era originariamente alcun limite riferibile al Comune di residenza, ma podisti e ciclisti sono stati oggetto di numerose denunce per esseri recati al di fuori del proprio comune.
Solo con la già citata ordinanza del Ministro della Salute del 20 marzo 2020 è stato introdotto il vago limite della “prossimità” alla propria abitazione, che ha comportato non poche difficoltà e disomogeneità interpretative ed applicative.
Essa ha altresì vietato l’accesso ai parchi pubblici.
In rapida successione, sono intervenute l’ulteriore ordinanza del Ministro della Salute in data 22 marzo 2020, che ha previsto per la prima volta il divieto di uscire dal proprio comune, salvo per “comprovate esigenze lavorative, assoluta urgenza ovvero per motivi di salute” ed il D.P.C.M. 22 marzo 2020, che ha richiamato l’applicazione dell’ordinanza del dicastero del Welfare del 20 marzo 2020 e ribadito il divieto di allontanarsi dal Comune di residenza, salve le giustificazioni sopra già indicate.
Il D.P.C.M. 9 marzo 2020 ha imposto il divieto di “ogni forma di assembramento di persone in luoghi pubblici o aperti al pubblico”.
Deve quindi ritenersi che tale divieto non riguardi i luoghi di privata dimora e le relative pertinenze, di tal ché se gli abitanti di un intero condominio volessero assembrarsi in un solo appartamento o in un cortile del condominio stesso, la condotta dovrebbe essere ritenuta lecita, pur se oggettivamente foriera di favorire la diffusione del contagio.
Il d.l. 25 marzo 2020, n. 19 e la individuazione delle misure vigenti
Prima di esaminare nel dettaglio le previsioni del D.P.C.M. 22 marzo 2020 sulla libertà di spostamento e movimento, occorre verificare le conseguenze che il medesimo ha avuto sui precedenti parzialmente richiamati, non ignorando al riguardo che il corpus juris così costituito è stato “confermato” con il successivo d.l. 25 marzo 2020, n. 19, all’art. 2, comma 3 [“Continuano ad applicarsi nei termini originariamente previsti le misure già adottate con i decreti del Presidente del Consiglio dei ministri adottati in data 8 marzo 2020, 9 marzo 2020, 11 marzo 2020 e 22 marzo 2020 per come ancora vigenti alla data di entrata in vigore del presente decreto. Le altre misure, ancora vigenti alla stessa data continuano ad applicarsi nel limite di ulteriori dieci giorni.”].
È stata infatti sancita la persistenza non tanto dei D.P.C.M., quanto (si noti) delle “misure già adottate …per come ancora vigenti”, che è cosa diversa e ulteriore rispetto al semplice richiamo applicativo dei D.P.C.M. che le prevedono, per cui sono state poste ex novo delle regole individuate per relationem. [l’utilizzo del verbo “continuano” non aiuta l’interprete, ma la fonte normativa che stabilisce l’applicazione delle misure e che quindi prescrive il rispetto di determinate sanzioni sotto comminatoria di sanzione è ora sicuramente divenuta il decreto legge].
Rispetto al d.l. 19/2020, una prima considerazione riguarda il superamento delle questioni legate alla riserva di legge imposta dall’art. 16 Cost., ma restano fermi tutti i dubbi legati al rispetto del principio di legalità.
Questo risolve (pro futuro, ma non per le condotte anteriori al 25 marzo 2020) la questione del rispetto della riserva di legge con riguardo alle misure previste nei D.P.C.M. pregressi, ma pone questioni ancora più complesse rispetto ai D.P.C.M. che dovessero in seguito intervenire per modificare quelli precedenti, specie con riguardo alla libertà di movimento, posto che i nuovi provvedimenti resterebbero fonti secondarie, prive di forza di legge e quini incapaci di incidere su atti (i precedenti D.P.C.M.) che hanno invece (loro malgrado) assunto rango di legge.
Una interpretazione volta all’applicazione sistematica di tutte le disposizioni del d.l. 19/2020, porterebbe alla contradditoria conclusione per cui la delega alla Presidenza del Consiglio dei Ministri di cui all’art. 1 consentirebbe anche di rimuovere le previsioni contemplate nel medesimo decreto legge di delega: per semplificare, sarebbe una delega ad adottare provvedimenti in contrasto con la delega stessa.
Problema divenuto già attuale, con la pubblicazione del D.P.C.M. 1° aprile 2020, il quale non si limita a prorogare sino al 13 aprile le misure vigenti, ma le modifica, sostituendo la lettera d) dell’art. 1 D.P.C.M. 8 marzo 2020, con la seguente: “d) sono sospesi gli eventi e le competizioni sportive di ogni ordine e disciplina, in luoghi pubblici o privati. Sono sospese altresì le sedute di allenamento degli atleti, professionisti e non professionisti, all’interno degli impianti sportivi di ogni tipo;”.
La prima parte della previsione è rimasta inalterata e pone l’interrogativo della sorte di quegli sport (ad esempio, gli scacchi) rispetto ai quali sarebbe ben possibile proseguire l’attività anche agonistica a distanza e in videoconferenza, ma la lettera della legge ne fa divieto.
L’ulteriore limitazione consiste nel divieto, non solo di svolgere competizioni a porte chiuse, ma anche della facoltà di allenamento all’interno di impianti sportivi e soprattutto, è stata messa la parola “fine” agli allenamenti individuali all’aperto, con la eliminazione dell’inciso, introdotto dal D.P.C.M. 9 marzo 2020, per il quale “lo sport e le attività motorie svolti all’aperto sono ammessi esclusivamente a condizione che sia possibile consentire il rispetto della distanza interpersonale di un metro;”.
È chiaro come questa nuova previsione sia andata ad incidere negativamente sulla libertà di spostamento, così rendendo nuovamente attuale, pur se su un diverso piano, il dibattito sulla compatibilità della normativa con i principi costituzionali.
La seconda questione è di carattere intertemporale ed attiene alla individuazione delle disposizioni “per come ancora vigenti” dei D.P.C.M. 8 marzo, 9 marzo, 11 marzo e 22 marzo 2020.
Il D.P.C.M. 11 marzo 2020 non contiene limitazioni alla facoltà di spostamento, ma disciplina l’esercizio delle imprese, per cui viene escluso dall’analisi.
Il più volte citato D.P.C.M. 9 marzo 2020 contiene, come già osservato, la semplice estensione a tutto il territorio nazionale delle previsioni di cui al D.P.C.M. 8 marzo 2020, con le sole eccezioni di avere consentito lo sport e le attività motorie all’aperto (ora nuovamente vietati dal D.P.C.M. 1° aprile 2020) e di avere introdotto il divieto di assembramenti in pubblico, che resta dunque vigente.
I divieti sopra illustrati, come ricavabili dai D.P.C.M. 8 e 9 marzo 2020, devono essere messi in correlazione (quanto ai limiti alla libertà di movimento) con l’art. 1 lett. b) del D.P.C.M. 22 marzo 2020, che pone un divieto limitato agli spostamenti con mezzi pubblici o privati (nulla è previsto per gli spostamenti a piedi) e solo se comporta l’accesso ad un comune diverso (in claris non fit interpretatio) [“b) è fatto divieto a tutte le persone fisiche di trasferirsi o spostarsi, con mezzi di trasporto pubblici o privati, in un comune diverso rispetto a quello in cui attualmente si trovano, salvo che per comprovate esigenze lavorative, di assoluta urgenza ovvero per motivi di salute; conseguentemente all’articolo 1, comma 1, lettera a), del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 8 marzo 2020 le parole «. È consentito il rientro presso il proprio domicilio, abitazione o residenza» sono soppresse;”].
Tale misura incontra deroghe parzialmente diverse rispetto a quelle previste nel D.P.C.M. 8 marzo 2020, sopra illustrate, e se ne distingue in particolare per la previsione della condizione della “assoluta urgenza”, che si sostituisce a quella della situazione di necessità, mentre sono state ribadite le “comprovate” esigenze lavorative e di motivi di salute.
Restano due nodi da sciogliere e in particolare se e in che misura il nuovo divieto generale di spostamento abbia inciso su quello precedentemente previsto e se le nuove deroghe concorrano con o sostituiscano quelle già previste.
La disciplina transitoria è dettata all’art. 2 del D.P.C.M. 22 marzo 2020, ove si prevede che “1. Le disposizioni del presente decreto producono effetto dalla data del 23 marzo 2020 e sono efficaci fino al 3 aprile 2020. Le stesse si applicano, cumulativamente a quelle di cui al decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 11 marzo 2020 nonché a quelle previste dall’ordinanza del Ministro della salute del 20 marzo 2020”.
Il D.P.C.M. 11 marzo 2020 non è dunque stato abrogato e ne viene anzi espressamente richiamata la applicazione, ma, questa volta, “cumulativamente” (non vi è riferimento per relationem alle misure da esso previste), per cui si presume che abbia mantenuto il medesimo rango di fonte subprimaria che già aveva in precedenza.
Il divieto (“evitare”) di cui all’art. 1 lett. b) del D.P.C.M. 8 marzo 2020 sussiste quindi ancora rispetto ai casi non diversamente regolati dal D.P.C.M. 22 marzo 2020 e, dunque, con riguardo allo spostamento a piedi fuori dal Comune di residenza e allo spostamento con mezzi pubblici o privati all’interno del Comune.
Casi rispetto ai quali continuano a valere le esclusioni di “comprovate esigenze lavorative o situazioni di necessità ovvero spostamenti per motivi di salute.”.
In conclusione, la distinzione sembra poggiare solo sul vaghissimo concetto di “assoluta urgenza”, richiesta per uscire dal Comune in auto (ma non a piedi), mentre all’interno del Comune in auto o fuori dal Comune a piedi è sufficiente la più generica (ma altrettanto generica) situazione di “necessità”.
Resta anche vigente la “raccomandazione” ai soggetti sintomatici della permanenza domiciliare, la cui violazione non è evidentemente sanzionabile.
Rimane, altresì, con un rafforzamento delle sanzioni, il divieto assoluto di uscire di casa per i malati conclamati e per le persone soggette alla “misura della quarantena”, la cui violazione viene riferita, come accennato, all’art. 260, R.D. 1265/1934, salvo che non risulti integrato il delitto di epidemia colposa di cui agli artt. 438 e 452, primo comma, n. 2, c.p.
E proprio in ragione del rafforzamento sanzionatorio, si pone in maniera ancora più pressante l’esigenza di individuare in maniera univoca il novero dei soggetti che si possano ritenere sottoposti alla misura della quarantena, potendosi peraltro anche dubitare della persistente vigenza dell’Ordinanza del Ministro della Salute del 21 febbraio 2020 [come si vedrà in seguito, l’art. 2, comma 3 del d.l. 19/2020 ha elencato gli atti che conservano efficacia senza includere la ordinanza in parola, stabilendo per tutti gli altri una vigenza limitata sino al 4 aprile 2020].
Occorre ancora considerare che la norma transitoria del D.P.C.M. 22 marzo 2020 stabilisce che esso si applica cumulativamente anche all’ordinanza del Ministro della Salute del 20 marzo 2020 [“a) è vietato l’accesso del pubblico ai parchi, alle ville, alle aree gioco e ai giardini pubblici; b) non è consentito svolgere attività ludica o ricreativa all’aperto; resta consentito svolgere individualmente attività motoria in prossimità della propria abitazione, purché comunque nel rispetto della distanza di almeno un metro da ogni altra persona; c) sono chiusi gli esercizi di somministrazione di alimenti e bevande, posti all’interno delle stazioni ferroviarie e lacustri, nonché nelle aree di servizio e rifornimento carburante, con esclusione di quelli situati lungo le autostrade, che possono vendere solo prodotti da asporto da consumarsi al di fuori dei locali; restano aperti quelli siti negli ospedali e negli aeroporti, con obbligo di assicurare in ogni caso il rispetto della distanza interpersonale di almeno un metro; d) nei giorni festivi e prefestivi, nonché in quegli altri che immediatamente precedono o seguono tali giorni, è vietato ogni spostamento verso abitazioni diverse da quella principale, comprese le seconde case utilizzate per vacanza.”], la cui lett d) consente spostarsi verso abitazioni diverse da quella principale, comprese le seconde case utilizzate per vacanza, fermo il limite dei giorni in cui ciò è consentito (dal martedì al giovedì compresi, salvo giorni festivi non domenicali). Resta però il fatto che dopo non si potrà più fare ritorno al proprio domicilio o residenza, stante l’eliminazione espressa dell’ultimo inciso dell’art. 1, lett. a) D.P.C.M. 8 marzo 2020. Si tratta di un evidente difetto di coordinamento, che porta ad un risultato del tutto irragionevole.
È interessante notare che nessuna disposizione disciplina l’attività del portare a spasso il cane, “universalmente” ritenuta legittima, in quanto pratica dettata da una situazione di necessità, posto che l’animale dovrebbe altrimenti provvedere ai propri bisogni fisiologici in casa ed in quanto occorre assicurare al medesimo una certa mobilità, in difetto della quale potrebbe ipotizzarsi un maltrattamento, sanzionabile ai sensi dell’art. 727 c.p.
Tenendo bene a mente che, rispetto alle situazioni di necessità, non è previsto alcun limite di prossimità (che era invece stabilito per il diverso caso della attività motoria), occorre prendere atto che a spasso con il cane si potrebbe andare a piedi ovunque, anche uscendo dal territorio comunale.
Né appare corretto o ipotizzabile che sia consentito all’accertatore o al giudice apprezzare qualità ed estensione della necessità stessa, posto che si cadrebbe inevitabilmente nella violazione del principio di legalità, il cui rispetto è imposto anche nella materia delle sanzioni amministrative, spesso non meno afflittive di quelle penali. Chi potrebbe stabilire e con quale autorità, in un quadro di certezza del diritto, che sarebbe sufficiente fare il giro intorno a casa, piuttosto che una passeggiata di diversi chilometri?
La dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà
Non ultimo in ordine di importanza, va osservato e sottolineato che tra le disposizioni esaminate non ve n’è alcuna che imponga il rilascio di una dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà, la cui omissione non può dunque in alcun modo essere sanzionata.
Tra le fonti c’è chi ha la pretesa di inserire anche la Direttiva del Ministro degli Interni 8 marzo 2020, n. 14606 e le successive circolati integrative che hanno dato luogo ad una produzione di modelli di “autodichiarazione” addirittura sconfinata nel grottesco: ma esse possono forse essere obbligatorie per coloro i quali si trovano in rapporto di subordinazione con gli organi emananti, ma non anche nei confronti dei cittadini.
Lo stesso contenuto dei modelli appare gravemente errato nel riferimento alla norma sanzionatoria (si parla infatti dell’art. 495 c.p. e non invece dell’art. 483 c.p.) e soprattutto rimane assolutamente incomprensibile per il comune cittadino, al quale si pretende di far dichiarare la sua piena conoscenza di norme giuridiche e non di precisi fatti vietati.
Per altro verso, non è affatto previsto che la indicazione della causa legittimante lo spostamento debba essere precisata attraverso la (incomprensibile) dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà, per cui è da escludere che essa possa essere imposta dalle forze dell’ordine, per le quali deve ritenersi sufficiente una mera dichiarazione verbale.
Una eventuale falsità non appare poi in concreto punibile, come correttamente posto in evidenza in dottrina [si vedano le chiare considerazioni di Gian Luigi GATTA Coronavirus, limitazione di diritti e libertà fondamentali, e diritto penale: un deficit di legalità da rimediarecit, che ha posto in evidenza come il rilascio di una dichiarazione eventualmente falsa sarebbe scriminato dal divieto di obbligo alla autoincriminazione: nemo tenetur se detegere].
Il tentativo (fallito) di una disciplina omogenea
Infine, occorre prendere atto che, con lo scadere del termine del 4 aprile, perderanno efficacia tutte le misure diverse rispetto a quelle espressamente richiamate.
Il già citato art. 2, comma 3, del d.l. 19/2020, stabilisce infatti che “… Le altre misure, ancora vigenti alla stessa data continuano ad applicarsi nel limite di ulteriori dieci giorni.
Tutti i provvedimenti comunali sono dunque decaduti il 4 aprile 2020, posto che il d.l. 19/2020 non li ha fatti salvi ma ha anzi espressamente tolto ai sindaci la facoltà di intervenire ulteriormente, con la previsione di cui all’art. 3, comma 2: “I Sindaci non possono adottare, a pena di inefficacia, ordinanze contingibili e urgenti dirette a fronteggiare l’emergenza in contrasto con le misure statali, né eccedendo i limiti di oggetto cui al comma 1”.
Sono parimenti decaduti alla stessa data del 4 aprile tutti i provvedimenti regionali.
Come accennato in precedenza, alle Regioni ed al Ministro della Salute permane un limitatissimo ambito di intervento per l’adozione di nuovi provvedimenti, ma solo “in relazione a specifiche situazioni sopravvenute di aggravamento del rischio sanitario” per le prime e di “in casi di estrema necessità e urgenza per situazioni sopravvenute”, quanto al secondo [il riferimento normativo per le Regioni e l’art. 3, comma 1, d.l. 19/2020 “Nelle more dell’adozione dei decreti del Presidente del Consiglio dei ministri di cui all’articolo 2, comma 1, e con efficacia limitata fino a tale momento, le regioni, in relazione a specifiche situazioni sopravvenute di aggravamento del rischio sanitario verificatesi nel loro territorio o in una parte di esso, possono introdurre misure ulteriormente restrittive, tra quelle di cui all’articolo 1, comma 2, esclusivamente nell’ambito delle attività di loro competenza e senza incisione delle attività produttive e di quelle di rilevanza strategica per l’economia nazionale.” L’intervento del Ministro della Salute è invece disciplinato dall’art. 2, comma 2: “Nelle more dell’adozione dei decreti del Presidente del Consiglio dei ministri di cui al comma 1 e con efficacia limitata fino a tale momento, in casi di estrema necessità e urgenza per situazioni sopravvenute le misure di cui all’articolo 1 possono essere adottate dal Ministro della salute ai sensi dell’articolo 32 della legge 23 dicembre 1978, n. 833.”].
Il combinato disposto di tali previsioni porta ad un generale ed assoluto divieto di reiterazione o di proroga delle misure già adottate da parte delle Regioni, in quanto le misure in atto cessano e quelle nuove possono essere adottate solo in ragione di sopravvenienze.
Ancora, qualsiasi eventuale nuova misura, deve presuppore un aggravamento del rischio sanitario.
Con riguardo al Ministro della Salute resta fermo il requisito della novità dei motivi (sopravvenienza) e non è richiesto un aggravamento, bensì l’estrema necessità ed urgenza.
Dal punto di vista applicativo, le disposizioni citate, dettate al dichiarato fine di evitare il crearsi di situazioni disomogenee e per limitare i contrasti tra Stato centrale ed enti periferici, hanno avuto l’effetto di poco meno di un suggerimento.
Il 3 aprile la regione Piemonte ha infatti adottato il Decreto 34/2020, con il quale, senza minimamente dare conto di sopravvenuti aggravamenti di rischio ed anzi richiamando l’esigenza di conferma dei precedenti provvedimenti, ha disposto la proroga sino al 13 aprile 2020 delle misure decadute, nonché ulteriormente compresso il diritto di libertà di movimento dei cittadini [è stato posto il limite della distanza massima di 200 metri dall’abitazione per l’attività motoria all’aperto, invero vietata in modo assoluto dal D.P.C.M. 1 aprile 2020, è stata estesa anche ai mercati l’obbligo di accedere tramite una sola persona per nucleo familiare ed è stato vietato il lavoro di badanti e colf che non assistano persone non autosufficienti o parzialmente autosufficienti].
Ancora, con Ordinanza in data 3 aprile 2020, il Ministro della Salute Roberto Speranza, di concerto con il cofirmatario presidente della Regione Emilia Romagna Stefano Bonaccini, ha recepito il medesimo identico testo già oggetto del Decreto della Regione Emilia Romagna n. 48/2020 che aveva posto misure particolarmente restrittive nelle province di Rimini e Piacenza, tra le quali, quella del divieto per i professionisti di avvalersi del personale e di tenere aperto al pubblico, salvo esigenze contingibili e urgenti. Tale provvedimento è stato accompagnato dalla notizia del notevole miglioramento della situazione sanitaria nella provincia di Rimini, unico dato sopravvenuto.
Ed è del 4 aprile, la nuova Ordinanza del Presidente della Regione Lombardia n. 521, che ha non solo reiterato, ma fortemente intensificato le misure in precedenza adottate e decadute di imperio lo stesso 4 aprile.
Dalla lettura del provvedimento si prende atto che lo stesso non enuncia alcuna esigenza sopravvenuta, dandosi atto del fatto – noto e sussistente al momento del d.l. 19/2020 – della particolare diffusione del contagio nella Regione Lombardia (“al 3 aprile 2020, circa due quinti della popolazione italiana contagiata è lombarda, i contagi in Lombardia sono circa tre volte superiori a quelli registrati nella seconda regione italiana”) e che ciò “impone l’adozione sul territorio lombardo di misure specifiche e più restrittive e comunque adeguate al contesto di riferimento”, superando (rectius: ignorando) lo specifico divieto imposto all’art. 3, comma 1, d.l. 19/2020 (lex specialis) con la considerazione per la quale “il potere di ordinanza regionale, in specie ai fini dell’adozione di misure più restrittive di quelle statali e quindi rigorosamente funzionali alla tutela della salute trovi tuttora il suo attuale fondamento negli art. 32 e 117, 3° Cost. oltreché sugli artt. 32 della legge n. 833/1978 e 117 del Decreto legislativo n. 112/1998”.
Purtroppo, il dibattito ed il confronto politico si sono riflessi sul piano normativo e, più che gli interessi ed i diritti dei cittadini (non solo la salute, ma anche la libertà personale e la certezza del diritto), si curano i consensi elettorali.
Insomma, il caos normativo continua.

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