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La privacy delle decisioni giudiziarie pubblicate sul sito internet istituzionale della Giustizia Amministrativa
 (relazione al convegno di Convegno Capri sull’informatica giuridica del 12.10.2019)
 
La tematica della tutela della riservatezza dei dati personali interessa anche le decisioni giudiziarie pubblicate sui siti internet istituzionali delle magistrature ed è disciplinata da una normativa volta a trovare un punto di equilibrio tra due contrapposti interessi: quello della riservatezza dei soggetti che si trovano coinvolti in una controversia giudiziaria e quello della trasparenza e pubblicità della funzione giudiziaria.
La Giustizia Amministrativa pubblica sul suo sito internet istituzionale tutti i provvedimenti dei suoi organi giudiziari sia di primo che di secondo grado rendendoli liberamente e gratuitamente accessibili al pubblico. Si pone, quindi, la questione dell’oscuramento degli estremi identificativi degli interessati in presenza di dati considerati sensibili, ai fini della protezione della riservatezza delle parti e dei terzi interessati dal giudizio.
Il Regolamento Ue 2016/679, più comunemente noto come GDPR (General Data Protection Regulation), disciplina il trattamento dati personali delle persone fisiche e ha trovato diretta applicazione in tutti gli Stati membri a partire dal 25 maggio 2018, rendendo necessario per quanto riguarda lo Stato italiano l’adeguamento dell’impianto normativo del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196 (codice in materia di protezione dei dati personali). Tale adeguamento è intervenuto con il d.lgs. 10 agosto 2018 n. 101, che peraltro ha abrogato diverse diposizioni dell’indicato decreto legislativo.
In realtà, l’entrata in vigore del G.D.P.R e la relativa normativa di attuazione (d.lgs. 10 agosto 2018 n. 101) non ha comportato, sotto il profilo strettamente formale, specifiche novità legislative in tema di procedure dei trattamenti relativi ai dati personali effettuati da autorità giudiziarie, anche se il G.D.P.R ha rimodulato le ipotesi di dati tutelati dalla privacy e ha ampliato le ipotesi di oscuramento obbligatorio.
L’esigenza della privacy a livello di ordinamento eurounitario, anche alla luce del nuovo regolamento generale sulla protezione dei dati personali, è talmente sentita da aver portato la Corte di Giustizia Europea a decidere che partire dal 1° luglio 2018, nella pubblicazioni riguardanti ogni causa pregiudiziale proposta davanti alla stessa corte in tutti i documenti i nomi delle persone fisiche verranno anonimizzati tramite l’uso delle sole inziali. Allo stesso modo, sarà eliminato qualsiasi elemento supplementare atto a consentire l’identificazione delle persone implicate. Ciò all’espresso fine di assicurare la protezione dei dati delle persone fisiche coinvolte nelle cause pregiudiziali, garantendo nel contempo l’informazione dei cittadini e la pubblicità della giustizia.
A livello nazionale, sul versante dell’esigenza di pubblicità e trasparenza, operano l’art. 51, comma 2, del d.lgs. 196/2003 ai sensi del quale “Le sentenze e le altre decisioni dell’autorità giudiziaria di ogni ordine e grado depositate in cancelleria o segreteria sono rese accessibili anche attraverso il sistema informativo e il sito istituzionale della medesima autorità nella rete Internet, osservando le cautele previste dal presente capo” e, in modo analogo ma con specifico riguardo al giudice amministrativo e a quello contabile, l’art. 56, comma 2, del d.lgs. 7 marzo 2005, n. 82 (codice dell’amministrazione digitale) secondo cui “Le sentenze e le altre decisioni del giudice amministrativo e contabile, rese pubbliche mediante deposito in segreteria, sono contestualmente inserite nel sistema informativo interno e sul sito istituzionale, osservando le cautele previste dalla normativa in materia di tutela dei dati personali”. In sostanza viene prescritta la pubblicazione delle sentenze e delle altre decisioni del giudice amministrativo nel sistema informativo sito istituzionale, seppure contemperandola dalla necessaria osservanza delle cautele previste dalla disciplina in materia di tutela dei dati personali cui viene fatto generico rinvio. La suindicata normativa, infatti, non chiarisce esattamente quali siano le “cautele previste”, consentendo letture interpretative di difforme tenore che possono ampliare o restringere l’ambito entro cui è consentito (o imposto) l’oscuramento dei dati personali
Al contrario, sul versante della tutela della privacy, l’art. 52 del d.lgs. 196/2003 prevede due tipologie di ipotesi di oscuramento dei dati personali nei provvedimenti giurisdizionali distinguendo tra  l’oscuramento cosiddetto “facoltativo”, ovverosia a richiesta di parte, e  quello “obbligatorio”, ovverosia previsto dalla legge e disposto anche d’ufficio.
In particolare, quest’ultima  norma prevede, al comma 1, che il soggetto interessato nella controversia possa chiedere, per motivi legittimi e “prima che sia definito il relativo grado di giudizio”, l’anonimizzazione della decisione (oscuramento facoltativo), che si realizza, ai sensi del comma 4, con l’apposizione sull’originale della pronuncia del giudice di una apposita un’annotazione prescrive l’anonimizzazione delle generalità e degli  altri dati identificativi del medesimo interessato in caso di diffusione del provvedimento giurisdizionale.
Dato che l’oscuramento è concesso nel caso in cui sussistano motivi legittimi, l’istanza della parte deve essere motivata onde consentire al giudice il vaglio sulla meritevolezza delle ragioni per cui la decisione dovrebbe derogare al principio di pubblicità rispetto all’identità delle parti e degli altri elementi identificativi.
Dal testo della norma si evince che una volta terminato il grado di giudizio l’interessato perde il diritto di chiedere l’anonimizzazione facoltativa – sul punto le Linee Guida Garante per la protezione dei dati personali del 2 dicembre 2010 rilevano che un´istanza proposta dopo la definizione del giudizio (ad esempio, dopo l´emissione della sentenza) resterebbe priva di effetto) – salvo che si tratti di oscuramento obbligatorio. In quest’ultimo caso tali casi, l’obbligo di oscuramento si riconnette direttamente al divieto di diffusione di dati sensibili attraverso la pubblicazione di decisioni giudiziarie nelle banche dati presenti nei siti internet e continua a essere vigente anche dopo la conclusione del giudizio.
Quanto all’oscuramento obbligatorio, il comma 2, del medesimo art. 52 prevede che l’anonimizzazione dei dati può essere disposta d’ufficio dall’autorità giudiziaria a tutela dei diritti o della dignità degli interessati. Qui l’utilizzo del termine “può essere disposta” deve chiaramente essere inteso come diritto-dovere del giudice di disporla al ricorrere dei presupposti. Il comma 5 del medesimo articolo prescrive l’oscuramento obbligatorio e d’ufficio delle “generalità, altri dati identificativi o altri dati anche relativi a terzi dai quali può desumersi anche indirettamente l’identità di minori, oppure delle parti nei procedimenti in materia di rapporti di famiglia e di stato delle persone”.
Come tecnica di redazione legislativa, l’art. 52, comma 2, sull’oscuramento obbligatorio d’ufficio si deve considerare una cosiddetta norma in bianco in quanto opera un rinvio indeterminato alla normativa in materia di privacy.
Al fine di individuare le altre ipotesi di oscuramento obbligatorio il rinvio non può che essere operato in primis al contenuto del  G.D.P.R. e, in particolare, agli artt. 9 e 10.
Alla luce dell’art. 9 del  G.D.P.R. sono soggetti a oscuramento obbligatorio quei dati rivelino l’origine razziale o etnica, le opinioni politiche, le convinzioni religiose o filosofiche, o l’appartenenza sindacale, nonché i dati genetici, dati biometrici intesi a identificare in modo univoco una persona fisica, dati relativi alla salute o alla vita sessuale o all’orientamento sessuale della persona; mentre l’art. 10 del G.D.P.R. contempla i dati relativi a condanne penali, reati e connesse misure di sicurezza.
In particolare, in riferimento alla necessità di oscurare i dati relativi alle condanne penali e reati, occorre tenere conto della circostanza che l’art. 10 del G.D.P.R. va letto in combinato disposto con l’art. 2 octies D.lgs. 196/2003, il quale, nell’individuare al comma 3 le ipotesi in cui, a norma di legge o di regolamento, è consentito il trattamento dei dati medesimi – tra i quali alla lett. e) l’accertamento, l’esercizio o la difesa di un diritto in sede giudiziaria, previsione questa che giustifica il trattamento di tali dati a fini di giustizia, ma non a fini di informatica giuridica o di trasparenza ex art. 52 D.lgs. 196/2003 e art. 56 del C.A.D. – rinvia, per l’individuazione di ulteriori ipotesi, al comma 2, ad un decreto del Ministro della giustizia, da adottarsi, ai sensi dell’articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, sentito il Garante, non ancora adottato.
Come disposizione di chiusura nell’ottica della pubblicità delle decisioni giudiziarie l’art. 52, co. 7, del d.lgs. 196/2003 prevede che al di fuori degli indicati casi “è ammessa la diffusione in ogni forma del contenuto anche integrale di sentenze e di altri provvedimenti giurisdizionali”.
Per riassumere, il giudice è chiamato a pronunciarsi sull’istanza di parte, previa valutazione dei motivi della richiesta e deve, invece, disporre l’oscuramento d’ufficio quando ritenga sia funzionale alla tutela dei diritti o della dignità degli interessati e nel caso in cui si versi nelle indicate ipotesi di oscuramento obbligatorio.
Le ragioni di riservatezza da tutelare possono interessare non solo le parti ma anche i terzi che vengano a vario titolo citati nel provvedimento giudiziario spesso a loro insaputa e senza che sia prevista alcuna forma di comunicazione o specifica tutela preventiva in loro favore. Questi ultimi, infatti, non essendo parti nel giudizio, possono anche non essere a conoscenza della controversia e non sono in condizione di chiedere l’oscuramento nel corso del procedimento o di esperire qualche azione di tutela preventiva rispetto alla pubblicazione dei loro dati personali.
Ai sensi del combinato disposto dei commi 2, 3 e 4 dell’art.52 del d.lgs. 196/2003, nel caso in cui venga disposto l’oscuramento (facoltativo o obbligatorio) viene apposta sull’originale della sentenza o del provvedimento, un’annotazione volta a precludere, in caso di riproduzione del provvedimento giudiziario provvedimento in qualsiasi forma, l’indicazione delle generalità e di altri dati identificativi del medesimo interessato riportati nel medesimo provvedimento giudiziario, con la formula “In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi di…..”. La clausola apposta ha efficacia non solo ai fini della diffusione della sentenza mediante pubblicazione sul sito istituzionale della Giustizia Amministrativa ma vale anche nei confronti dei terzi, nel senso che prevede il divieto di diffusione del dato “sensibile” da parte di chiunque. Infatti, chiunque voglia diffondere sentenze o di altri provvedimenti recanti che recano l’indicata annotazione o anche solo delle relative massime giuridiche (si pensi in primo luogo alle riviste giuridiche) deve curare l’omissione dell’indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi dell’interessato.  Il divieto di omettere l’indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi degli interessati nel caso di minori o di rapporti di famiglia e di stato delle persone nel caso diffusione di provvedimenti giurisdizionali  è rivolto anche ai terzi (la norma riferisce il divieto a “chiunque diffonde sentenze o altri provvedimenti giurisdizionali dell’autorità giudiziaria di ogni ordine e grado”) indipendentemente dalla presenza o meno sulla decisione dell’indicata annotazione che prescrive l’oscuramento.
Il divieto di omettere l’indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi nel caso di minori o di rapporti di famiglia e di stato delle persone è ulteriormente rafforzato dal comma 5 dell’art. 52 del d.lgs. 196/2003 che  riferisce il divieto a “chiunque diffonde sentenze o altri provvedimenti giurisdizionali dell’autorità giudiziaria di ogni ordine e grado”, indipendentemente dalla presenza sulla decisione dell’indicata annotazione che prescrive l’oscuramento.
I possibili potenziali rimedi per le parti e i terzi nel caso in cui in presenza di un’ipotesi di oscuramento obbligatorio il giudice non abbia disposto d’ufficio l’oscuramento, ovvero nell’ipotesi in cui la richiesta di oscuramento facoltativo presentata ritualmente nel corso del giudizio non sia stata esaminata dal Collegio, sono di duplice natura.
Un primo possibile rimedio è di carattere amministrativo mediante una richiesta al responsabile del sito istituzionale, tenuto in tale qualità comunque a interrompere la diffusione illecita di dati sensibili attraverso la pubblicazione in rete, stante il divieto posto direttamente dalla legge alla diffusione dei dati in determinate ipotesi.
Il secondo rimedio è di carattere giurisdizionale, rivolto non all’Amministrazione quale responsabile del sito, bensì mediante l’utilizzo del procedimento di correzione dell’errore materiale (con tutte le difficoltà sul piano teorico a rappresentare l’omesso oscuramento quale errore materiale) rivolgendosi a opera dello stesso giudice che ha adottato la decisione o, al limite, mediante l’impugnazione della decisione qualora ancora possibile o l’opposizione di terzo. La prassi giurisprudenziale chiarirà se effettivamente tali rimedi di carattere giudiziale verranno ritenuti ammissibili.
Per quanto riguardo il rimedio di carattere amministrativo, si può ritenere che l’Amministrazione della Giustizia Amministrativa, quale soggetto gestore e responsabile del sito internet istituzionale, abbia un autonomo potere-dovere di oscurare i dati sulle decisioni anche indipendentemente dall’operato dei giudici, intervenendo come gestore del sito, oeprando in modo autonomo e parallelo rispetto agli ordinari strumenti processuali (in sede di impugnazione o di procedimento per la correzione di errore materiale) senza che ciò si sovrapponga a questi ultimi, stante anche la natura sostanzialmente amministrativa e non giurisdizionale del procedimento di anonimizzazione.
Infatti, le norme che prevedono l’obbligo di oscuramento sono dirette a disciplinare l’attività di trattamento e di diffusione dei dati, che avviene con la pubblicazione del dato nel sito web. Il soggetto titolare dell’obbligo è, quindi, anche direttamente il titolare del trattamento, ovvero il responsabile del sito. La necessità di tutelare la riservatezza sul sito e la normativa a questo aspetto dedicata non interferisce, infatti, se non indirettamente, con l’esercizio della funzione giurisdizionale e gli adempimenti di oscuramento dei dati identificativi che l’art. 52 d.lgs. 196 del 2003 demanda al giudice rappresentano un caso di esercizio in forma giurisdizionale di un’attività sostanzialmente amministrativa. Il giudice quando provvede ex art. 52 inserisce nel corpo della sentenza, nella forma del decreto, un ordine amministrativo che si indirizza a soggetti terzi rispetto alle parti del giudizio, ovverosia ai soggetti che riprodurranno la sentenza per finalità di informazione giuridica. Questa attività di diffusione della sentenza è estranea all’oggetto del giudizio e allo stesso esercizio della funzione giurisdizionale. In questa materia l’attribuzione al giudice di poteri sostanzialmente amministrativi si giustifica in ragione del fatto che l’oscuramento disposto ab origine, ovverosia al momento stesso in cui la sentenza viene pronunciata, offre una maggiore e più adeguata tutela alla riservatezza degli interessati, che potrebbe essere comunque compromessa se l’oscuramento non fosse già in essere al momento della pubblicazione. In tal senso l’attività di oscuramento può essere esercitata dall’Amministrazione nella persona del responsabile del sito, anche in supplenza dell’attività del giudice, in forza dell’imposto obbligo di legge di evitare la diffusione di un dato sensibile, della cui violazione cui comunque risponde l’amministrazione gestore del sito istituzionale.
 
Nel caso di oscuramento in via amministrativa successiva alla pronuncia del giudice, peraltro, è dubitabile  che possa essere apposta l’annotazione sul provvedimento ai fini della validità nei confronti dei terzi di cui all’art. 52, comma 1, del d.lgs. n. 196/2003, che la norma pare riservare all’autorità (giudiziaria) che pronuncia la sentenza o adotta un diverso provvedimento.
 
Una possibile soluzione ad ampio spettro nel senso verso la tutela della riservatezza delle parti sarebbe quella dell’anonimizzazione generalizzata (mediante le sole inziali o la semplice eliminazione dei riferimenti delle persone fisiche) dei provvedimenti giudiziari, che come anzidetto è la soluzione praticata dal Corte di Giustizia Europea per le cause di rinvio, e di cui di cui si deve verificare la compatibilità con l’attuale normativa italiana in cui è presente il valore della pubblicità delle decisioni giudiziarie. Questa compatibilità non pare si possa escludere a priori, anche perché in assenza di una norma primaria si occupa espressamente della questione (non è rinvenibile né una norma sulla pubblicità dei dati identificativi delle parti, né una sul loro generale anonimato), questa soluzione potrebbe essere considerata un equo bilanciamento fra gli opposti valori della pubblicità del processo (di cui agli artt. 6 CEDU, 47 Carta dei diritti fondamentali dell’UE, e 101 Cost.) e della tutela della riservatezza dei soggetti interessati (di cui al medesimo art. 6 CEDU nonché agli artt. 7 e 8 della Carta UE e 2 Cost.). 
Stante, infatti, la genericità del richiamo dell’art. 56, del d.lgs. n. 82 del 2005 all’osservanza delle cautele previste dalla disciplina in materia di tutela dei dati personali, è dubitabile che la ratio della norma che prevede la pubblicità delle decisioni giudiziarie possa essere compromessa dall’anonimizzazione dei riferimenti alle persone fisiche. Lo scopo di quella normativa è difatti quello di consentire la massima ed efficace circolazione delle informazioni contenute nelle pronunce giurisdizionali, a vantaggio degli utenti pubblici e privati, che possono ricavare, dalla banca dati, ogni utile indicazione circa gli orientamenti della giurisprudenza, oltre ad esercitare il loro diritto civico alla conoscenza (e al controllo) del modo di esercizio di una funzione pubblica essenziale. A tal fine, potrebbe essere  sufficiente la realizzazione di un’efficace banca di dati di carattere oggettivo, non incentrata sui riferimenti alla identificazione di persone fisiche. Inoltre, l’anonimizzazione riguarda la pubblicità della decisione nella sua circolazione di massa in banche dati aperte mentre in ogni caso, in presenza di specifiche ragioni, dovrà essere consentita la conoscenza integrale della sentenza a richiesta, che anzi appare generalmente garantita dagli dall’art. 743 c.p.c. che prevede il rilascio di copie da parte dei pubblici depositari e l’art. 744 c.p.c. che lo dispone specificamente per gli atti giudiziari.
In tale contesto, viene in rilievo anche l’esigenza di anonimizzazione dei ruoli di udienza pubblicati sul sito internet degli organi giudiziari e consultabili dal pubblico, con indicazione delle sole iniziali del prenome e del cognome e di ogni altro dato idoneo a rivelare l’identità delle parti. Allo steso modo si pone la problematica dell’oscuramento dei dati “sensibili” nei casi in cui sia necessario procedere alla notifica per pubblici proclami, soprattutto se quest’ultima  avviene tramite pubblicazione sui siti internet delle Amministrazioni resistenti. Infatti, questo tipo di pubblicazione, effettuata previa autorizzazione dal giudice, può consentire a chiunque di conoscere tutti i dati relativi al ricorso, ancorchè oscurati nel provvedimento che la dispone. Sarà, quindi, opportuno trovare delle modalità idonee di pubblicazione che riescano a contemperare le esigenze di tutela dei dati personali con quelle della notifica del ricorso con modalità pubbliche.
In caso di indebita diffusione di dati personali per la violazione dell’indicata normativa, l’Amministrazione può incorrere in sanzioni da parte del Garante della protezione dei dati personali che possono arrivare sino a un massimo di 20 milioni di euro, ai sensi del combinato disposto dell’art. 166 del D.Lgs. 196/2003 e dell’art. 83, paragrafo 5, del G.D.P.R. (nelle ipotesi di mancato oscuramento dei provvedimenti ai quali sia stata apposta la formula di oscuramento da parte del magistrato e nelle ipotesi di mancato oscuramento riferite alle persone offese da atti di violenza sessuale e ai dati da cui possa desumersi, anche indirettamente l’identità di minori, oppure delle parti in materia di rapporti di famiglia e di stato delle persone). L’Amministrazione, inoltre, risponde civilmente dei danni causati dall’indebita diffusione sul suo sito internet istituzionale, anche nel caso in cui il giudice non abbia  provveduto a disporre l’oscuramento tramite l’annotazione prevista dal  comma 1 dell’art. 52 del D.Lgs. 196/2003 (Cass., Sez. I civ., 20 maggio 2016, n. 10510).
Per ciò che concerne i magistrati, nel caso di mancato oscuramento nelle ipotesi in cui sia previsto come obbligatorio, è prospettabile che gli stessi possano essere chiamati a rispondere, dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie, per grave violazione di legge, ai sensi dell’art. 2, comma 3, lett. a), della legge n. 117/1988, che tra l’altro appare anche configurabile nei confronti già del  giudice di primo grado, in quanto la diffusione dei dati personali  riservati si configura come un danno istantaneo. Qualora, invece, si ritenga che l’attività inerente alla tutela della riservatezza esuli dalla funzione giudiziaria, assumendo sostanzialmente natura amministrativa, il magistrato potrebbe comunque a essere chiamato a rispondere a titolo di responsabilità amministrativa per danno erariale. Può configurarsi, infine, anche una responsabilità disciplinare. 
I dipendenti responsabili della pubblicazione possono essere chiamati a rispondere del danno causato all’Amministrazione a titolo di responsabilità amministrativa per danno erariale, ferma restando l’eventuale responsabilità disciplinare.
In questo contesto viene in rilievo anche il cosiddetto diritto all’oblio, qualificato già da tempo risalente come il “giusto interesse di ogni persona a non restare indeterminatamente esposta ai danni ulteriori che arreca al suo onore e alla sua reputazione la reiterata pubblicazione di una notizia in passato legittimamente divulgata” (Cass. civ., 9 aprile 1998, n. 3679), il cui fondamento è positivamente ravvisabile negli artt. 2 Cost., 8 CEDU e 7 e 8 della Carta di Nizza.
Su questo diritto si pronunciata, in termini molto ampi di quelli relativi ai dati giudiziari, la giurisprudenza europea (Corte di Giustizia Europea , sez. II, 9 marzo 2017 , n. 398) che ha escluso la sussistenza di un diritto all’oblio assoluto per i dati personali (nella specie contenuti nel registro delle imprese) anche se  decorso un periodo sufficientemente lungo gli Stati membri possano prevedere in casi eccezionali che l’accesso dei terzi a tali dati venga limitato. Si è pronunciata anche la CEDU (Corte europea diritti dell’uomo, sez. V, 28/06/2018, n. 60798) sul bilanciamento fra il diritto all’oblio e il diritto all’informazione in caso di notizie relative a procedimenti penali dopo che è passato molto tempo rispetto alla commissione del reato.
La tutela può essere prevedere che la persona interessata dal trattamento dati personali possa chiedere che l’accesso a detti dati venga limitato ai terzi che dimostrino un interesse specifico alla loro consultazione ed è ipotizzabile l’applicazione della facoltà consentita attraverso l’istanza di cui all’art. 52 d.lgs. 1962003, ma anche la possibilità che l’amministrazione effettuare l’oscuramento di propria iniziativa dei dati identificativi presenti nelle sentenze raccolte in banche date, trascorso un congruo lasso di tempo.
In proposito ci sono delle ultimi sviluppi giurisprudenziali della Corte di Giustizia dopo essersi pronunciata con la sentenza della Corte del 13 maggio 2004, (C-131/12) Google Spain e Google, sull’obbligo di deindicizzazione nei motori di ricerca, si è recentemente ripronunciata  con sentenza 24 settembre 2019 (C-507/17), Google LLC, sul diritto all’oblio, ribadendo l’obbligo di deindicizzazione  dei  risultati restituiti dai motori di ricerca in esito a una ricerca effettuata a partire dal nome degli utenti, ma specificando che la deindicizzazione si può attuare solo su scala europea e non mondiale. In sostanza secondo i giudici europei un gestore di un motore di ricerca (nel cado di specie Google), nell’accogliere una domanda di deindicizzazione di un utente europeo, non è obbligato a deindicizzare in tutte le versioni del suo motore di ricerca, ma solo nelle versioni di questo motore corrispondenti a tutti gli Stati membri dell’Unione europea,  e ciò, se necessario, in combinazione con misure che permettono effettivamente di impedire agli utenti di Internet, che effettuano una ricerca sulla base del nome dell’interessato a partire da uno degli Stati membri, di avere accesso, attraverso l’elenco dei risultati visualizzato in seguito a tale ricerca, ai link oggetto di tale domanda, o quantomeno di scoraggiare seriamente tali utenti.
Fabrizio D’Alessandri – Consigliere T.A.R. Lazio Magistrato addetto al Servizio per l’Informatica della Giustizia Amministrativa
Pubblicazione 25 ottobre 2019

 

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