28/11/2019 – Licenziamento disciplinare ed adempimenti procedimentali: il punto della Cassazione

Licenziamento disciplinare ed adempimenti procedimentali: il punto della Cassazione
di Marcello Lupoli – Dirigente P.A.
E’ legittimo il licenziamento disciplinare per violazioni di obblighi anche nei confronti di terzi in caso di mancata affissione del codice disciplinare per condotte che collidono con il c.d. minimo etico, di mancata comunicazione all’interessato della notizia della violazione contestualmente alla trasmissione della stessa all’ufficio procedimenti disciplinari dell’amministrazione datrice di lavoro ovvero, in assenza di prova di pregiudizio arrecato al diritto di difesa, di fissazione dell’audizione entro un termine inferiore a quello normativamente previsto.
E’ questo, in sintesi, il portato della sentenza 7 novembre 2019 n. 28741 resa dalla sezione lavoro della Corte di Cassazione.
I giudici di Piazza Cavour sono stati chiamati a conoscere del ricorso per cassazione della pronuncia resa dalla Corte territoriale, con cui era stato rigettato il gravame avverso la sentenza resa dal giudice di prime cure che aveva disatteso l’impugnativa del licenziamento disciplinare comminato ad un dipendente di un ente locale ad esito di un procedimento proseguito in pendenza di un giudizio penale per concorso esterno in associazione mafiosa.
I motivi addotti a sostegno del ricorso portato all’attenzione dei giudici della Suprema Corte non sono stati ritenuti degni di accoglimento, con conseguente rigetto dell’impugnazione e conferma del dictum di appello.
La pronuncia in disamina offre il destro per una ricognizione giurisprudenziale e normativa su alcune tematiche concernenti il procedimento disciplinare dei dipendenti pubblici.
In primis, viene ribadito – differentemente da quanto assunto dal ricorrente – l’orientamento giurisprudenziale secondo cui “anche nel pubblico impiego contrattualizzato deve ritenersi, relativamente alle sanzioni disciplinari conservative (e non per le sole espulsive), che, in tutti i casi nei quali il comportamento sanzionatorio sia immediatamente percepibile dal lavoratore come illecito, perché contrario al cd minimo etico o a norme di rilevanza penale, non sia necessario provvedere alla affissione del codice disciplinare […], in quanto il dipendente pubblico, come quello del settore privato, ben può rendersi conto, anche al di là di una analitica predeterminazione dei comportamenti vietati e delle relative sanzioni da parte del codice disciplinare, della illiceità della propria condotta” (cfr. Cass. Civ. 31 ottobre 2017, n. 25977Cass. Civ. 18 ottobre 2016, n. 21032Cass. Civ. n. 1926/2011Cass. Civ. n. 13414/2013).
In merito – come ricorda la citata sentenza della Cass. Civ. n. 21032/2016 – “la percepibilità dalla coscienza sociale di un fatto quale minimo etico deve ritenersi applicabile non solo alle sanzioni disciplinari espulsive, per le quali sussiste il potere di recesso del datore di lavoro, in presenza di una giusta causa o di un giustificato motivo, ma anche per le sanzioni cosiddette conservative. Se è vero che per queste il potere disciplinare del datore di lavoro, solo genericamente previsto dall’art. 2106 c.c., esige per il suo concreto esercizio la predisposizione di una normativa secondaria, cui corrisponde l’onere della pubblicità, a norma della L. n. 300 del 1970art. 7, che ha inteso conferire effettività nell’ambito dei rapporti di lavoro al principio nullum crimen, nulla poena sine lege, tuttavia deve ritenersi che i comportamenti del lavoratore costituenti violazioni dei doveri fondamentali siano sanzionabili a prescindere dalla loro inclusione o meno all’interno del codice disciplinare, ed anche in difetto di affissione dello stesso, in quanto in questi casi il lavoratore ben può rendersi conto, anche al di là di una analitica predeterminazione dei comportamenti vietati e delle relative sanzioni da parte del codice disciplinare, della illiceità della propria condotta”.
La conclusione che precede – affermata in fattispecie concernenti rapporti di lavoro privato – è certamente estendibile ai rapporti di lavoro pubblico, “nel cui ambito peraltro non può prescindersi, ai fini dell’individuazione del nucleo di doveri costituenti tale minimo etico, dal Codice di comportamento di cui all’art. 54D.Lgs. n. 165/2001, le cui previsioni […] costituiscono specificazioni esemplificative degli obblighi di diligenza, lealtà e imparzialità che qualificano il corretto adempimento della prestazione lavorativa del dipendente pubblico […]”, evidenziandosi come “la disposizione anzidetta è stata collocata dal legislatore prima di quella […] che ha demandato alla contrattazione collettiva la definizione delle infrazioni e delle relative sanzioni, a volere sottolineare il valore preminente attribuito all’individuazione dei doveri fondamentali cui deve conformarsi la condotta del pubblico dipendente” (cfr. ancora Cass. Civ. n. 21032/2016 cit.).
In nuce – come sintetizza la pronuncia oggetto di disamina -il “principio, nato in ambito di rapporti di lavoro con datori di lavoro privati, per cui la necessaria previsione delle violazioni all’interno di Codice Disciplinare pubblicizzato mediante affissione non è condizione indefettibile dell’azione disciplinare, allorquando vi sia violazione del c.d. minimo etico”.
Ed invero – osserva in modo chiaro la sentenza n. 28741/2019 in commento – “la funzione della pregressa previsione in un testo che sia affisso o pubblicato nelle forme del caso […]” è “quella di predisporre e regolare le sanzioni rispetto a fatti di diversa caratura, la cui mancata previsione potrebbe far ritenere che la reazione datoriale risponda a criteri repressivi che inopinatamente valorizzino ex post e strumentalmente taluni comportamenti del lavoratore […]”. La suddetta esigenza non ricorre nelle fattispecie in cui la gravità assoluta della condotta del dipendente derivi dal contrasto con il suddetto “minimo etico”, atteso che il lavoratore, in tali casi, “non può non percepire ex ante che il proprio comportamento sia illecito e tale da pregiudicare anche il rapporto di lavoro in essere”. Il richiamo all’art. 2106 c.c.( e, mediatamente, agli obblighi di diligenza e fedeltà ex artt. 2104 e 2105 c.c.) operato dal secondo comma dell’art. 55D.Lgs. n. 165/2001 permette “di radicare l’illecito disciplinare nella violazione dei generalissimi obblighi di diligenza e fedeltà e dunque consente in ogni caso la persecuzione disciplinare dei fatti che, esorbitando dal menzionato “minimo etico”, si pongano al contempo in contrasto con quegli obblighi e risultino in lineare correlazione rispetto al mantenimento o meno del rapporto fiduciario”, di guisa che “rispetto a fatti per così dire “atipici”, ma immediatamente percepibili come incompatibili rispetto al rapporto di pubblico impiego, la normativa di cui al D.Lgs. 165/2001, anche sotto il profilo della previa pubblicizzazione, non può che ricevere la medesima interpretazione che viene costantemente data, in giurisprudenza e rispetto ai rapporti di lavoro privati, all’art. 7, comma 1, L. n. 300/1970“.
Declinando i menzionati principi nella fattispecie concreta portata all’attenzione dei supremi giudici ne consegue come sia indubbio “che un reato di stampo mafioso entri in contrasto con il predetto “minimo etico”, e ciò tanto più per chi operi presso la Pubblica Amministrazione, il cui operato va salvaguardato al massimo (art. 97 Cost.) dal rischio di interferenze esterne di interessi devianti, in sé contraddittorie rispetto all’obbligo di fedeltà: il che rende irrilevante ogni questione sulla previa affissione o meno del Codice Disciplinare”.
Si rammenta, infine, con riguardo alla quaestio che ne occupa, che nell’attuale formulazione dell’art. 55, comma 2, D.Lgs. n. 165/2001 è previsto, tra l’altro, che “La pubblicazione sul sito istituzionale dell’amministrazione del codice disciplinare […] equivale a tutti gli effetti alla sua affissione all’ingresso della sede di lavoro”.
Un altro principio ribadito nella sentenza de qua – ancorché riguardante la disciplina previgente, ma applicabile ratione temporis alla vicenda concreta – è quello secondo cui in materia di procedimento disciplinare nei confronti dei dipendenti pubblici i termini “endoprocedimentali hanno carattere ordinatorio ancorché debbano essere applicati nel rispetto dei principi di tempestività ed immediatezza, sicché l’inosservanza del termine previsto dall’art. 55, comma 4, D.Lgs. n. 165 del 2001 per la trasmissione degli atti all’ufficio designato per i procedimenti disciplinari ad opera del capo della struttura di appartenenza del dipendente, che ravvisi fatti non rientranti nella propria competenza (…), non determinano la decadenza dall’azione disciplinare (Cass. Civ. 14 giugno 2016, n. 12213), se non allorquando risulti che ne venga in concreto pregiudicato il diritto di difesa (Cass. Civ. 10 agosto 2016, n. 16900)”.
E’ interessante – anche al fine di comprendere la novella legislativa intervenuta a riguardo – evidenziare come la Corte di Cassazione avesse considerato come non cogente la preliminare informativa da parte del responsabile della struttura presso cui presta servizio il dipendente interessato, non essendo prevista alcuna previsione sanzionatoria in caso di omissione, atteso che alcun diritto di difesa poteva ritenersi leso da tale mancanza, in quanto, una volta avviato il procedimento disciplinare con la formale contestazione di addebito da parte dell’ufficio procedimenti disciplinari, nulla impediva, anche mediante l’esercizio del diritto di accesso agli atti istruttori, di poter azionare le previste garanzie defensionali.
Quanto precede potrebbe spiegare la novella intervenuta sul punto ad opera del D.Lgs. n. 75/2017, a seguito della quale, per le sanzioni di maggiore gravità, non è più contemplata la trasmissione degli atti all’ufficio procedimenti disciplinari da parte del responsabile della struttura ove presta servizio il dipendente interessato entro cinque giorni dalla notizia del fatto con contestuale comunicazione al lavoratore, bensì è statuita la segnalazione al predetto ufficio da effettuare “immediatamente” e comunque entro dieci giorni dal momento in cui si sia avuta piena conoscenza dei fatti rilevanti, senza più la previsione della contestuale informativa al dipendente.
Con riferimento, infine, alla doglianza circa il mancato rispetto del termine intercorrente tra la contestazione dell’addebito e l’audizione personale i giudici di Piazza Cavour evidenziano (cfr. già Cass. Civ. 23 maggio 2019, n. 14069Cass. Civ. 22 agosto 2016, n. 17245) come l’eventuale contrazione dello stesso possa dare luogo alla nullità della sequenza procedimentale e della conseguente sanzione “solo ove sia dimostrato, dall’interessato, un pregiudizio al concreto esercizio del diritto di difesa”.
In merito – ancorché riferita a fattispecie concreta ratione temporis disciplinata dalla previsione normativa previgente – merita rammentare quanto asserito dalla Suprema Corte con la citata sentenza n. 17245/2016, secondo cui i “termini iniziali e finali che cadenzano il procedimento disciplinare rappresentano il limite per l’esercizio del potere disciplinare e alla loro violazione è chiaramente ricollegata la sanzione della decadenza. La violazione di questi termini si sostanzia nella preclusione irrimediabile all’adozione del provvedimento disciplinare, operando in via automatica la decadenza prevista dalla disposizione, in quanto con la fissazione di tale ambito temporale massimo il legislatore ha inteso disciplinare l’esercizio di uno dei tipici poteri di cui il datore di lavoro è titolare nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato, il potere disciplinare, l’esercizio del quale incide sulla sfera giuridica del lavoratore. Il limite della tempestività del procedimento disciplinare (predeterminato dal legislatore mediante la previsione di determinati termini di inizio e fine della procedura) condiziona l’esercizio del potere”, laddove il “termine che temporizza la fase endo-procedimentale risponde […] ad una ratio diversa essendo posto a garanzia del diritto di difesa del dipendente; ciò è reso evidente dalla possibilità, posta a favore del lavoratore (per gravi ed oggettivi impedimenti), di chiedere un rinvio del termine, proprio per consentire che tale lasso di tempo sia effettivamente utilizzabile dal lavoratore per approntare le sue giustificazioni. Deve ritenersi, allora, che la contrazione del termine […] determinerà la nullità della sanzione nella misura in cui venga rappresentato, dall’interessato, un pregiudizio sulla raccolta della documentazione e delle informazioni necessarie per far valere le sue ragioni innanzi al datore di lavoro. Trattandosi di termine posto a garanzia del diritto di difesa del lavoratore, la decadenza dall’esercizio del potere disciplinare opererà quando la contrazione del termine abbia determinato un nocumento al lavoratore stesso ed alle sue prerogative di difesa”, pregiudicando una compiuta sostanziale articolazione delle garanzie defensionali.
Ergo – chiosa ulteriormente la menzionata sentenza n. 17245/2016 – “se, pertanto, il carattere perentorio dei termini iniziali e finali del procedimento disciplinare risponde al principio di tempestività ed immediatezza […] e il rispetto condiziona l’esercizio del potere disciplinare del datore di lavoro, diversa ragione fondante ha la previsione del termine minimo per l’audizione del dipendente, che consente all’interessato di predisporre una adeguata difesa da sottoporre al datore di lavoro e la cui violazione determina la nullità del procedimento ove il dipendente deduca e dimostri che il suo diritto di difesa è stato frustrato dalla contrazione del termine”.
Anche sulla tematica che ne occupa è intervenuta la citata novella normativa.
Ed invero – laddove in precedenza la violazione dei termini del procedimento disciplinare comportava per l’amministrazione la decadenza dall’azione disciplinare ovvero, per il dipendente, dall’esercizio del diritto di difesa – con la vigente disciplina la violazione dei termini e delle disposizioni sul procedimento disciplinare non determina ex se la decadenza dell’azione disciplinare né l’invalidità degli atti e della sanzione irrogata, purché non risulti irrimediabilmente compromesso il diritto di difesa del dipendente e le modalità di esercizio dell’azione in parola siano comunque compatibili con il principio di tempestività, con l’effetto che rimangono perentori soltanto il termine iniziale e quello finale del procedimento.
Infine, ad avviso del collegio giudicante di Piazza Cavour, non merita condivisione la doglianza di presunte violazioni al principio di immutabilità della contestazione disciplinare rispetto alla sanzione irrogata, doglianza basata sul rilievo del ricorrente secondo cui la prima sarebbe incentrata sulla violazione degli obblighi del dipendente in servizio, laddove la sanzione irrogata riguarderebbe fatti avvenuti al di fuori del rapporto di servizio. Ed invero, la disposizione contrattuale di riferimento evidenzia quale causa di espulsione le violazioni intenzionali degli obblighi anche nei confronti di terzi, di gravità tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto di lavoro, minando ab imis il rapporto fiduciario tra la parte datoriale ed il dipendente. Il suddetto riferimento a violazioni anche nei confronti di terzi non è neutro, con conseguente rilevanza della violazione riscontrata anche se posta al di fuori del rapporto di lavoro.

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