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Incarichi dirigenziali: l’illegittima estensione delle procedure idoneative

 

La neolingua è sempre utilissima per inculcare nel pensiero comune concetti complessi e spesso in frontale contrasto con le regole generali.
In particolare, il lessico burocratico si presta molto alle acrobazie linguistiche finalizzate ad introdurre parole capaci di concentrare espressioni di pensiero e procedure generalmente innovativi e appunto contrastanti col sentire comune. Non di rado, la neolingua burocratica esprime nuovi sostantivi o aggettivi dal contenuto tanto cacofonico quanto altrettanto cattivo è il substrato del concetto rappresentato.
Tra le nuove parole della neolingua burocratica, accettata anche dalla giurisprudenza, vi è l’oggettivamente orrendo aggettivo “idoneativo”.

Vediamo cole il dizionario on line Treccani definisce questo aggettivo: “Nel linguaggio burocr., di procedura che ha lo scopo di riconoscere (e quindi affermare o negare) l’idoneità di una persona, sulla base del possesso dei titoli previsti dalla legge, a inserirsi in una determinata carriera o a far parte di una determinata categoria”.
In altri tempi, queste procedure alle quali si riferisce il dizionario le avremmo definite “abilitative”, cioè finalizzate ad abilitare, riconoscere a qualcuno le competenze e le capacità ad esercitare una determinata funzione ed attività, sì da poter aspirare ad una certa qualificazione professionale.
L’abilitazione è di due tipi: o consente all’abilitato di svolgere sulla base del riconoscimento della professionalità le mansioni connesse nell’ambito del profilo professionale conseguito (a seguito di vittoria di concorso o di procedura di riqualificazione interna); oppure, consente l’iscrizione in un albo di professionisti, operanti nel libero mercato.
Una volta introdotto nella PA lo spoil system, cioè quel meccanismo che consente agli organi di governo di scegliere direttamente i vertici dell’organizzazione amministrativa (con evidente grave vulnus alla Costituzione, più volte acclarato dalla Consulta), il concetto di abilitazione però non era più sufficiente.
Infatti, escluso che l’abilitazione nella PA consista nell’iscrizione ad un albo di professionisti, l’eventuale abilitazione allo svolgimento di un profilo professionale intesa come acquisizione del diritto a quell’attività è apparsa, agli inizi degli anni ’90 del secolo scorso, un’eccessiva rigidità del sistema. Per questo, si è teorizzato che i vertici amministrativi (i dirigenti e, negli enti privi di dirigenza, i funzionari di massimo livello) non potessero vantare un diritto all’ufficio, ma semplicemente un diritto a ricevere un incarico tra i molti possibili connessi alla propria professionalità, sulla base di valutazioni operate dagli organi di governo, dotati del potere di assegnare detti incarichi.
Dunque, l’assegnazione degli incarichi dirigenziali in via ordinaria è caratterizzata da due fasi; una prima è il superamento di un concorso che attribuisce al dipendente la qualifica dirigenziale (o di funzionario di vertice negli enti privi di dirigenza); la seconda è una verifica dell’idoneità di detto dirigente (o funzionario) a svolgere uno specifico incarico.
La seconda fase di questa procedura è sostanzialmente regolata dall’articolo 19, commi da 1 a 5-ter, del d.lgs 165/2001. In particolare, sono i commi 1 e 1-bis a presidiare la fase dell’assegnazione dell’incarico.
Il comma indica che l’incarico dirigenziale va attribuito sulla base della valutazione della potenziale competenza del dirigente a svolgerlo considerando la natura e le caratteristiche degli obiettivi prefissati, la complessità della struttura interessata, le attitudini e le capacità professionali del singolo dirigente, i risultati conseguiti in precedenza nell’amministrazione di appartenenza e la relativa valutazione, le specifiche competenze organizzative possedute, le esperienze di direzione eventualmente maturate all’estero, presso il settore privato o presso altre amministrazioni pubbliche, purché attinenti al conferimento dell’incarico.
Tale valutazione va effettua mediante una procedura aperta ai vari dirigenti operanti nell’amministrazione o anche nel “settore pubblico allargato” (come ammette il comma 5-bis dell’articolo 19), attivata mediante pubblicazione di apposito avviso sul sito istituzionale, che definisca il numero e la tipologia dei posti di funzione che si rendono disponibili nella dotazione organica ed i criteri di scelta, in modo da consentire ai dirigenti interessati di manifestare l’interesse all’incarico, presentando la documentazione necessaria alla valutazione nel rispetto dei criteri prefissati, per poi attribuire l’incarico.
Tale procedura è in effetti rivolta a verificare proprio l’idoneità del “candidato” all’espletazione dell’incarico da attribuire.
Non necessariamente queste procedure danno luogo ad un vero e proprio concorso. Secondo la giurisprudenza sono, infatti, “procedure concorsuali” quelle a carattere selettivo, caratterizzate dalla comparazione delle qualità dei candidati, svolte in base a criteri di selezione prefissati in un bando pubblico, nell’ambito delle quali si verificano conoscenze e competenze professionali dei candidati, fino alla determinazione di una graduatoria finale da parte di una commissione di concorso, vincolante ai fini della successiva assunzione o assegnazione di incarico.
Dunque, gli elementi caratterizzanti un “concorso”, che debbono sussistere contestualmente, sono:
1.      un avviso pubblico (intendendosi come tale un atto che pubblicizzi la disponibilità del posto o dell’incarico o ad una collettività indifferenziata, o anche ad una collettività ristretta, come nel caso degli interpelli rivolti ai dirigenti di una certa PA);
2.      la selettività: cioè la scelta di pochi tra tanti, ai fini della copertura delle disponibilità;
3.      la comparazione: la selezione viene effettuata, quindi, confrontando gli elementi oggettivi e soggettivi richiesti in capo ai candidati, mettendoli in relazione tra loro;
4.      la presenza di criteri di selezione prefissati: la comparazione si effettua attenendosi rigorosamente a modalità valutative predefinite;
5.      la predisposizione di una graduatoria: la commissione valutativa, espletata la selezione, cristallizza i risultati un una graduatoria di merito; l’organo poi competente ad attivare l’incarico o il contratto di lavoro deve seguire, senza alcuna possibilità di alternativa, l’ordine della graduatoria, che è vincolante.
L’attribuzione degli incarichi dirigenziali (o anche delle Posizioni Organizzative) può essere caratterizzata da tutti i 5 elementi visti prima e, allora, si tratta di una procedura sostanzialmente concorsuale, anche se non rivolta al reclutamento di personale; oppure, può essere flessibilizzata per la carenza anche di uno solo dei 5 elementi o per la loro significativa modifica. In questo caso, non si tratta di un concorso, ma di una ricerca di “idonei”.
Sempre secondo la giurisprudenza consolidata non sono da considerare alla stregua di procedure concorsuali (tanto che la cognizione delle controversie relative appartiene al giudice ordinario) quelle con le quali il soggetto competente ad effettuare la valutazione si limita a verificare se i candidati sono idonei a ricoprire un dato incarico; in questo caso, non si forma una graduatoria, ma un mero elenco nel quale sono inseriti sostanzialmente “a pari merito” i soggetti ritenuti idonei, sicchè da questo elenco l’organo competente dell’amministrazione interessata sceglie il soggetto da incaricare (o nominare) in base a criteri di carattere essenzialmente fiduciario.
Quindi, in queste procedure “idoneative”:
1.      può esservi un avviso pubblico;
2.      debbono esservi criteri di valutazione;
3.      non vi è una selezione: non necessariamente si deve “scremare” fino ad un certo numero massimo l’elenco degli idonei;
4.      non vi è una comparazione: non si mettono i candidati in rapporto e confronto tra loro, ma si guarda semplicemente al possesso dei requisiti di ciascuno in relazione ai criteri di valutazione;
5.      non si stila una graduatoria: si elencano semplicemente i candidati che possiedano in modo completo i requisiti previsti, senza indicare quali tra essi abbiano maggiori o minori caratteristiche;
6.      la scelta, di conseguenza, non è vincolata da un ordine, ma è rimessa ad una valutazione totalmente discrezionale o “fiduciaria” dell’organo decidente.
Queste procedure finalizzate a stilare un elenco di idonei sono maggiormente indicate per la scelta dei dirigenti generali dello Stato, cioè quella ristrettissima fascia di dirigenti pubblici per i quali la Corte costituzionale considera possibile lo spoil system.
Un sistema non concorsuale ma “idoneativo” è da considerare, sulla base di un’interpretazione costituzionalmente orientata, sempre meno legittimo, man mano che aumenta la caratteristica operativa e gestionale dell’incarico da conferire.
Dovrebbe, quindi, risultare evidente che le procedure “idoneative” costituiscono un’eccezione e non una regola: infatti, l’attribuzione di incarichi o di nomine sulla base di un rapporto meramente fiduciario contrasta col generale obbligo di motivazione di qualsiasi decisione della pubblica amministrazione.
Di recente ha ricordato l’obbligo di motivare la scelta anche degli incarichi sulla base della legge 241/1990 la sentenza del Tar Campania, Sezione staccata di Salerno – Seconda, 18.3.2019, n. 406.
Il Tar ha stigmatizzato che un comune – e cosa più sorprendente la gestione commissariale di tale ente – abbia conferito un incarico in una commissione “senza l’esplicitazione della benché minima giustificazione, circa la sua idoneità a ricoprire l’incarico in questione, nonché senza alcuna valutazione delle sue specifiche competenze, ovvero delle professionalità acquisite, quali ricavabili dal curriculum presentato, e, ancora, senza l’espressione d’alcun giudizio, di tipo analitico – comparativo, rispetto ai curricula ed alle specifiche competenze e professionalità degli altri professionisti che, come il ricorrente, avevano manifestato il loro interesse”.
Così operando, l’ente si è posto in insanabile “contrasto con l’obbligo generale di motivazione degli atti amministrativi, sancito dall’art. 3 della l. 241/90, obbligo cui l’atto in questione, espressione di una scelta, esercitata dalla predetta Commissione nel contesto di poteri amministrativi ordinari, per quanto settoriali, non poteva evidentemente sottrarsi”.
A conferma di quanto evidenziato prima, quindi, l’ordinamento considera come generale l’obbligo di motivare qualsiasi provvedimento, ivi compresi gli incarichi dirigenziali o di esperto. Pertanto, le procedure “idoneative” non possono che costituire un’eccezione, considerabile legittima e lecita solo se regolata dalla legge.
I casi nei quali la scelta di vertici organizzativi si possa fondare realmente su un sistema di mera raccolta di candidati in un elenco di idonei, dai quali poi l’organo di governo possa attingere senza limiti e con piena discrezionalità sono pochissimi.
Detto dei vertici dello Stato, i casi si restringono sostanzialmente alla particolare disciplina degli enti del sistema sanitario nazionale. E’ configurabile come procedura “idoneativa” infatti quella espressamente prevista dall’articolo 15, comma 7-bis, del d.lgs 502/1992 finalizzata all’attribuzione degli incarichi di direttore di unità organizzative complesse (un tempo denominati “primari”).
La procedura prevede un avviso ed una valutazione da parte di una commissione, la quale, ricevute le domande degli interessati compie l’analisi comparativa dei curricula, dei titoli professionali posseduti, avuto anche riguardo alle necessarie competenze organizzative e gestionali, dei volumi dell’attività svolta, dell’aderenza al profilo ricercato e degli esiti di un colloquio; espletata questa istruttoria, “la commissione presenta al direttore generale una terna di candidati idonei formata sulla base dei migliori punteggi attribuiti”.
Come si nota, in questo caso, anche se la procedura è finalizzata ad individuare gli idonei, tuttavia:
a)      è selettiva, perché limita a tre gli idonei;
b)      prevede un’analisi comparativa, necessaria proprio per selezionare solo tre tra i tanti;
c)      si conclude con una “terna”, che di fatto è una vera e propria graduatoria, perché formata in base ai punteggi ottenuti dai candidati.
La norma, tuttavia, non considera tale terna come inderogabilmente vincolante. Infatti, stabilisce che “il direttore generale individua il candidato da nominare nell’ambito della terna predisposta dalla commissione; ove intenda nominare uno dei due candidati che non hanno conseguito il migliore punteggiodeve motivare analiticamente la scelta”.
Da questo punto di vista, non si può non sottolineare come sia da considerare erronea e non condivisibile la giurisprudenza del Consiglio di stato secondo la quale l’assegnazione degli incarichi di unità organizzative complesse nella sanità sia caratterizzata dall’elemento della fiduciarietà.
Palazzo Spada, con la sentenza della Sezione III 20.3.2019, n. 1850 afferma che “focalizzando l’attenzione, alla stregua dei rilievi che precedono, sul segmento terminale del procedimento de quo, deve evidenziarsi che proprio la facoltà per il Direttore Generale di prescindere dalla graduatoria di merito formulata dalla commissione di valutazione, sebbene motivando le ragioni della scelta, concorre a contrassegnare le sue valutazioni come di carattere intrinsecamente fiduciario (tanto più in quanto non sono ancorate a parametri rigidi e predeterminati) ed induce a ravvisare nell’attività selettiva della suddetta commissione, da un punto di vista funzionale, i segni propri della procedura “idoneativa”. E’ infatti evidente che non può attribuirsi rilievo decisivo, ai fini dell’inquadramento giuridico della fattispecie esaminata, a quegli elementi – strutturali o funzionali – suscettibili di essere vanificati, nella loro componente più significativa per i fini qualificatori de quibus, nel prosieguo del percorso procedimentale: ciò che si verifica nella fattispecie in esame, allorché l’organo deputato alla scelta finale decida di sovvertire l’esito dell’attività valutativa della Commissione, sfociata nella classificazione dei candidati nella graduatoria conclusiva, costituente il proprium della (ipotetica) selezione concorsuale, la quale quindi, depurata (nel successivo corso della procedura, in cui primeggia, da un punto di vista decisionale, la figura del Direttore Generale) dell’elemento ordinatorio ed “appiattita” all’interno di una sequenza meramente nominativa, non può non finire per assumere i contorni di una mera attestazione di idoneità (alla nomina)”.
Erra il Consiglio di stato per una ragione estremamente semplice: la connotazione fiduciaria dell’incarico sussiste solo nella misura in cui il soggetto che incarica non è tenuto a motivare le ragioni della propria scelta. Essa, infatti, è intuitu personae: legata solo all’apprezzamento delle qualità della persona da parte di chi la individua e, come tale, quindi, totalmente discrezionale e da non motivare.
E’ ben vero che il direttore generale può distaccarsi dall’elenco-graduatoria e scegliere di attribuire l’incarico non al candidato col punteggio maggiore, ma al secondo o perfino al terzo. Ma, come dispone la norma, in questo caso deve fornire una motivazione “analitica”: deve spiegare, quindi, come mai decide di scegliere un candidato con un punteggio inferiore ad un altro, evidenziando le ragioni per le quali questa condizione oggettiva sia superabile da altri elementi valutativi, aggiuntivi e diversi, ma coerenti, rispetto a quelli considerati dalla commissione.
Non si può fare a meno di evidenziare che un provvedimento soggetto a “motivazione analitica” non può essere considerato discrezionale; al contrario, la necessaria motivazione subordina la scelta al rischio del vizio di eccesso di potere o proprio di carenza di motivazione.
Quindi, la terna anche se non vincola il direttore generale alla scelta del primo, comunque vincola la scelta ad esplicitare in modo estremamente puntuale la decisione di non seguire la graduatoria, in modo che sia sindacabile anche davanti al giudice ordinario. Il che attenua di molto il carattere meramente “idoneativo” della procedura.
D’altra parte, è opportuno evidenziare come vi sia una chiara contraddizione nella stessa giurisprudenza amministrativa rispetto ai poteri esercitati dagli organi di governo nella scelta dei vertici organizzativi. Torniamo alla sentenza del Tar Campania-Salerno citata sopra: essa cita un nutrito elenco di decisioni pretorie, anche di Palazzo Spada, alla luce delle quali si evidenzia l’insanabile contrasto tra l’obbligo di motivazione e la fiduciarietà: “Alla luce dell’art. 3, comma 2, l. 7 agosto 1990, n. 241 (che introduce una espressa eccezione alla necessità della motivazione per i soli atti normativi e per quelli a contenuto generale), la motivazione è requisito indispensabile di ogni atto amministrativo, ivi compresi quelli consistenti in manifestazioni di giudizio interni a procedimenti concorsuali o para-concorsuali, nell’ambito dei quali, anzi, la motivazione svolge un precipuo ruolo pregnante, quale fattore di esternazione dell’iter logico delle determinazioni assunte dalle commissioni esaminatrici in esercizio dell’amplissima discrezionalità loro riconosciuta, ai fini dell’esercizio del diritto di difesa in giudizio. Di conseguenza anche per gli atti di alta amministrazione a valenza fiduciaria non è affatto escluso l’obbligo di motivazioneessendo chiuso nel sistema, dopo l’entrata in vigore della l. n. 241 del 1990, ogni spazio per la categoria dei provvedimenti amministrativi c.d. a motivo libero. Anche allorché, quindi, si debbano adottare atti di nomina di tipo fiduciario, l’Amministrazione deve indicare le qualità professionali sulla base delle quali ha ritenuto il soggetto più adatto rispetto agli obiettivi programmati, dimostrando di aver compiuto un’attenta e seria valutazione del possesso dei requisiti prescritti in capo al soggetto prescelto, sì che risulti la ragionevolezza della scelta” (T. A. R. Lazio – Roma, Sez. I, 8/09/2014, n. 9505; conformi: T. A. R. Friuli – Venezia Giulia, Sez. I, 18.01.2016, n. 15; Consiglio di Stato, Sez. VI, 19.10.2009, n. 6388)”.
Di conseguenza dovrebbe risultare chiaro che non è ammesso estendere o “stiracchiare” le procedure idoneative
1.                          né nel senso di considerare possibile in capo al soggetto al quale spetta la decisione finale sull’incarico da attribuire di agire esclusivamente per via fiduciaria; questo può valere solo per quegli incarichi ai fini dei quali la personale adesione del destinatario all’orientamento politico sia un elemento da prendere in considerazione legittimamente sul piano costituzionale e, quindi, vale solo per gli altissimi vertici dello Stato;
2.                          né nel senso di estendere per via analogica la procedura idoneativa a fattispecie che non sono espressamente considerate tali dalla legge.
Come visto, persino gli incarichi dirigenziali nelle Usl richiedono una procedura “idoneativa” regolata dalla legge, ma attenuata dall’obbligo di motivazione.
Ritenere, quindi, possibile l’estensione di simile modo di procedere all’assegnazione di incarichi dirigenziali di natura gestionale, o alle PO o anche agli stessi incarichi di cui all’articolo 19, comma 6, del d.lgs 165/2001 e 110, comma 1, del d.lgs 267/2000.
Tali disposizioni (che, come è noto, per gli enti locali vanno lette in combinazione tra esse) impongono la motivazione della scelta ed una selezione. Non è prevista espressamente alcuna procedura “idoneativa”, sebbene molti così la leggano, dimenticando un particolare non trascurabile: non si tratta di incarichi dirigenziali da attribuire a persone che appartengono già al ruolo dirigenziale dell’amministrazione, bensì di vere e proprie procedure di reclutamento, finalizzate all’assunzione mediante contratto di lavoro subordinato di qualifica dirigenziale.
Pertanto, è assolutamente impensabile considerare le procedure per gli incarichi a contratto come “idoneative”, visto che sono rivolte all’assunzione. Sebbene non necessariamente debbano svolgersi secondo i canoni puntuali delle procedure concorsuali, i reclutamenti comunque non possono non attenersi al principio costituzionale della selezione dei migliori e non all’affidamento di una scelta fiduciaria. L’equivoco sulla fiduciarietà è durato, sostanzialmente, fino al 2009, quando la riforma Brunetta ha imposto quell’obbligo di motivazione nella scelta che, come visto sopra, non può non porsi in insanabile contrasto con la fioducierietà e poi, radicalmente eliminato dal d.l. 90/2014, che nel corpo dell’articolo 110, comma 1, impone appunto una selezione, ciò che implica sempre e sicuramente confronto e comparazione tra candidati ed inevitabile graduatoria finale, escludendo quindi sempre la natura di mera raccolta di idonei tra i quali poi il sindaco possa scegliere discrezionalmente.
Sul punto, pare il caso di ricordare l’insegnamento del Tar Puglia – Lecce, Sezione II, 21.12.2015:
– secondo il preferibile orientamento della giurisprudenza l’art. 110 del t.u.e.l., nel consentire agli enti locali di affidare incarichi di responsabilità dirigenziale con contratti a tempo determinato, non esonera gli enti stessi dallo svolgere procedure le quali, pur inassimilabili a un concorso pubblico in senso stretto, hanno comunque una valenza para – concorsuale: diversamente opinando, ovvero qualificando la selezione di cui all’art. 110, comma 1, t.u.e.l. quale scelta intuitu personae, risulterebbe assai dubbia la compatibilità costituzionale della norma de qua in riferimento all’art. 97, commi 2 e 4, Cost.,

non sorretta da esigenze di buon andamento e straordinarie esigenze di interesse pubblico idonee a giustificarla (Corte Costituzionale 13 giugno 2013 n. 137)>> (T.a.r. Umbria, I, 30 aprile 2015, n. 192).

– l’osservanza dei principi di trasparenza, imparzialità e par condicio della selezione in parola avrebbe dunque imposto la predeterminazione, nell’avviso pubblico di che trattasi e al fine di delimitare la discrezionalità tecnica della p.a. e garantire una selezione rispondente agli interessi pubblici perseguiti, di concreti e puntuali parametri di apprezzamento: nel caso di specie, al contrario, l’avviso pubblico prevedeva criteri assolutamente generici e inidonei in merito alla valutazione dei curricula dei candidati (valutazione peraltro demandata, dall’Avviso pubblico, al Segretario Comunale, che invece si limitava a una riepilogazione sinottica degli stessi), sicchè il Sindaco (il quale peraltro, come già scritto, avrebbe dovuto provvedere previa valutazione del Segretario Comunale) operava con discrezionalità tecnica pressoché assoluta, sì da risultare minata la trasparenza e l’imparzialità del suo operato (cfr. T.a.r. Umbria cit.); né tale ordine di censure può ritenersi inammissibile, atteso l’interesse ‘strumentale’ della ricorrente, o tardivo, non venendo in rilievo clausole immediatamente e direttamente lesive dell’interesse sostanziale della medesima (laddove ogni diversa questione riguardante l’illegittimità della lex specialis della procedura di gara poteva essere proposta unitamente all’impugnazione degli atti che delle clausole dimostratesi lesive facevano diretta applicazione)”.

 

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