25/07/2019 – La competenza a decidere sugli incarichi non autorizzati al dipendente pubblico è del giudice contabile se vi è azione restitutoria

La competenza a decidere sugli incarichi non autorizzati al dipendente pubblico è del giudice contabile se vi è azione restitutoria

di Federico Gavioli – Dottore commercialista, revisore legale e giornalista pubblicista
La Corte di Cassazione, sezione uniti civili, con la sentenza n. 17125 del 26 giugno 2019, ha affermato che, in relazione agli incarichi ai dipendenti pubblici non autorizzati, la competenza a decidere è del giudice contabile nelle ipotesi che la Procura contabile intenda istituire l’azione restitutoria.
Il caso
La Procura regionale citava in giudizio, con atto notificato nel marzo 2017, un docente universitario per sentirlo condannare al pagamento della somma di oltre 188mila euro a titolo sanzionatorio, ex art. 53, comma 7, D.Lgs. n, 165 del 2001, e della somma di euro 36.275,00 a titolo risarcitorio, per danno erariale, in ragione dello “svolgimento di alcuni incarichi ulteriori rispetto all’impegno strettamente accademico, in assenza della prescritta autorizzazione”.
Con sentenza dell’aprile 2018, la Sezione giurisdizionale adita, in composizione collegiale, rigettava la domanda concernente la responsabilità risarcitoria per danno erariale e, con separata ordinanza dell’aprile, declinava la competenza per la domanda a titolo di responsabilità sanzionatoria, disponendo la riassunzione del giudizio dinanzi al giudice monocratico della Corte dei conti.
Il docente ricorrente nel ricorso in Cassazione ha posto la questione della giurisdizione evidenziando il difetto di giurisdizione della Corte dei conti, in favore della giurisdizione del giudice ordinario, ex art. 63, comma 1, D.Lgs. n. 165 del 2001, in quanto giudice del rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni.
Le attività incompatibili generali e assolute nel rapporto di pubblico impiego
Brevemente si evidenzia che il rapporto di lavoro subordinato che intercorre tra dipendente pubblico e Pubblica amministrazione è esclusivo. In linea generale sono incompatibili con il rapporto di lavoro del dipendente pubblico:
– le attività non conciliabili con l’osservanza dei doveri d’ufficio ovvero che ne pregiudichino l’imparzialità e il buon andamento;
– le attività che concretizzino occasioni di conflitto di interessi con l’ente pubblico;
– gli incarichi che, per l’impegno richiesto o le modalità di svolgimento, non consentano un tempestivo, puntuale e regolare svolgimento dei compiti d’ufficio;
– le attività che arrechino danno o diminuzione all’azione e al prestigio dell’Ente pubblico.
Entrando più nello specifico sono da ritenersi incompatibili:
a) l’assunzione alle dipendenze di privati o di pubbliche amministrazioni;
b) il rapporto di natura convenzionale con l’ente pubblico;
c) consulenze o collaborazioni che consistano in prestazioni comunque riconducibili ad attività libero professionali;
d) l’esercizio di attività prive delle caratteristiche della saltuarietà e occasionalità;
e) l’accettazione di cariche nei consigli di amministrazione di società costituite a fine di lucro;
f) incarichi affidati da soggetti che abbiano in corso, con l’Amministrazione, contenziosi o procedimenti volti a ottenere o che abbiano già ottenuto l’attribuzione di autorizzazioni, concessioni, licenze, abilitazioni, nulla osta, o altri atti di consenso da parte dell’Amministrazione stessa;
g) incarichi attribuiti da soggetti privati fornitori di beni e servizi dell’ente pubblico di appartenenza o da soggetti nei confronti dei quali il dipendente o la struttura di assegnazione del medesimo, svolga attività di controllo, di vigilanza e ogni altro tipo di attività ove esista un interesse da parte dei soggetti conferenti;
h) le attività professionali per il cui esercizio è necessaria l’iscrizione in appositi albi o registri, fatto salvo quanto previsto dalla disciplina in materia di part-time, di esercizio della libera professione per la dirigenza sanitaria e per il comparto o da specifiche normative di settore;
i) attività industriali, artigianali e commerciali svolte in forma imprenditoriale ai sensi dell’art. 2082 del codice civile, ovvero in qualità di socio unico di una s.r.l., di società in nome collettivo, nonché di socio accomandatario nelle società in accomandita semplice e per azioni, fatto salvo quanto previsto dalla disciplina in materia di part-time. Il divieto non riguarda l’esercizio dell’attività agricola quando la stessa non sia svolta in qualità di coltivatore diretto o di imprenditore agricolo a titolo principale;
l) titolarità o compartecipazione delle quote di imprese, qualora le stesse possano configurare conflitto di interesse con l’ente pubblico di appartenenza.
Tali divieti valgono anche durante i periodi di aspettativa a qualsiasi tipo concessi al dipendente, fatti salvi i casi espressamente previsti dalla normativa.
L’analisi della Cassazione
Il ricorrente deduce, a sostegno delle ragioni del ricorso, che l’affermazione della giurisdizione della Corte dei conti nella presente controversia, concernente una fattispecie di responsabilità sanzionatoria per asserita violazione dell’art. 53, comma 7, D.Lgs. n. 165 del 2001, contrasterebbe con gli artt. 102103 Cost., 13R.D. n. 1214 del 1934; come ritenuto, del resto, dalla giurisprudenza di legittimità più recente (Cass. civ., S.U., n. 1415 del 2018), ponendosi in evidenza che la responsabilità sanzionatoria di cui alla norma da ultimo citata “prescinde da quelli che sono i necessari presupposti della responsabilità per danno erariale”; la quale, ultima, è stata esclusa con la sentenza n. 251 del 2018 del giudice contabile.
Per la Corte di Cassazione il ricorso è infondato, sussistendo nel caso in esame, per le ragioni di seguito esposte, la giurisdizione della Corte dei conti.
La giurisprudenza di questa Corte, affermano i giudici di legittimità, consolidatasi a seguito della pronuncia resa da Cass. civ., S.U., 28 settembre 2016, n. 19072, è nel senso che la controversia avente ad oggetto la domanda della Pubblica Amministrazione rivolta ad ottenere dal proprio dipendente il versamento dei corrispettivi percepiti nello svolgimento di un incarico non autorizzato appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario.
In questa prospettiva è stato posto in rilievo che l’obbligo di versamento imposto dall’art. 53, comma 7, D.Lgs. n. 165 del 2001 si configura come una particolare sanzione ex lege volta a rafforzare la fedeltà del dipendente pubblico.
Depone in tal senso il tenore letterale della disposizione che, nel «fare salve “le più gravi” sanzioni anziché le “sanzioni” tout court oggettivamente conferisce anche al versamento in questione de quo la medesima natura sanzionatoria, ancor più evidente se si considera il carattere disincentivante proprio della sanzione, desumibile dalla coincidenza dell’entità del versamento con quella delle somme indebitamente percepite dal pubblico dipendente, affinché questi sappia in partenza di non poter trattenere vantaggio alcuno da prestazioni che si appresti a svolgere in violazione del dovere di fedeltà».
Pertanto, l’obbligo di versamento in esame “prescinde dai presupposti della responsabilità per danno (evento; nesso di causalità, elemento psicologico)”, non dovendosi confondere “il concetto attinente alla mera reversione del profitto con quello del danno”, ciò che “condurrebbe all’estensione del limite della giurisdizione contabile al di fuori dei suoi confini istituzionali.
Invero, “la prestazione resa dal pubblico dipendente a favore di terzi non necessariamente implica un danno per l’amministrazione (ben potendo il pubblico dipendente aver correttamente adempiuto tutti gli altri obblighi lavorativi malgrado lo svolgimento di altra attività non autorizzata)” e “la previsione d’una fattispecie determinativa di danno risulterebbe dissonante con la quantificazione del risarcimento in misura invariabilmente coincidente (nulla di più, nulla di meno) con gli emolumenti indebitamente percepiti dal pubblico dipendente”.
La Cassazione osserva che “se il mero percepire da terzi determinati compensi costituisse di per sé ipotesi di responsabilità erariale , dovrebbe – a rigore – essere attivata soltanto ad iniziativa della Procura della Corte dei conti”. A tanto, però, “osta il tenore letterale dell’art. 53, comma 7, cit., che prevede l’obbligo di versamento dell’indebito compenso a cura dell’erogante o, in difetto, del percettore”, là dove in nessun caso la Procura della Corte dei conti potrebbe agire per danno erariale nei confronti dell’erogante, che non si trovi in rapporto alcuno con la pubblica amministrazione. “Né sarebbe ragionevole ipotizzare una diversa giurisdizione per il recupero delle somme (contabile nei confronti del percettore, ordinaria nei confronti dell’erogante), foriera di potenziali contrasti di giudicati”.
Dunque, la giurisdizione contabile è ravvisabile “solo se alla violazione del dovere di fedeltà e/o all’omesso versamento della somma pari al compenso indebitamente percepito dal dipendente si accompagnino specifici profili di danno”.
Nel caso in esame , evidenzia la Corte di Cassazione , l’azione nei confronti del ricorrente è stata promossa dal Procuratore contabile, così come nelle analoghe controversie decise dalla Cassazione (Cass. civ., S.U., 2 novembre 2011, n. 22688 e Cass. civ., S.U., 22 dicembre 2015, n. 25769) nel senso della sussistenza della giurisdizione della Corte dei conti nell’ipotesi disciplinata dall’art. 53, comma 7, D.Lgs. n. 165 del 2001.
In quelle occasioni, infatti, si è evidenziato come razione, promossa nei confronti di soggetto legato da un rapporto d’impiego o di servizio con la P.A., trovi giustificazione nella violazione “del dovere di chiedere l’autorizzazione allo svolgimento degli incarichi extra lavorativi e del conseguente (rafforzativo) obbligo di riversare all’Amministrazione i compensi per essi ricevuti”, costituendo queste “prescrizioni chiaramente strumentali al corretto esercizio delle mansioni , in quanto preordinate a garantire il proficuo svolgimento attraverso il previo controllo dell’amministrazione sulla possibilità, per il dipendente, d’impegnarsi in un’ulteriore attività senza pregiudizio dei compiti di istituto” . In siffatta ottica, pertanto, si è precisato (che la disposizione di cui al comma 7-bis dell’art. 53D.Lgs. n. 165 del 2001, introdotta dalla L. n. 190 del 2012, non riveste carattere innovativo, ma si pone in “rapporto di continuità regolativa” con l’orientamento giurisprudenziale già delineatosi, con la conseguenza che la regola da essa esplicitata a livello di fonte legale era valida anche in precedenza.
Le conclusioni
La Corte di Cassazione ritiene che nel caso in esame, poiché è la Procura contabile ad intentare l’azione restitutoria, che la giurisdizione sia della Corte di Conti.

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