20/06/2019 – La trasparenza delle decisioni e il linguaggio del giudice. La prevedibilità e la sicurezza giuridica

 

La trasparenza delle decisioni e il linguaggio del giudice. La prevedibilità e la sicurezza giuridica

di Giuseppe Severini 

«Mais les juges de la nation ne sont, comme nous avons dit, que la bouche qui prononce les paroles de la loi; des êtres inanimés, qui n’en peuvent modérer ni la force ni la rigueur»[1].
Da decenni è quasi di stile la confutazione di questa celebre proposizione di Montesquieu. Nondimeno, recentemente è stato autorevolmente detto che “esalta e garantisce la grandezza del giudizio legale, la relazione di coerenza e lealtà fra norma e decisione del caso concreto”, che “convertendo le ‘parole della legge’ in ‘parole della sentenza’, decide la controversia in modo ‘inanimato’, cioè oggettivo e impersonale”: “circolo logico [… che] assicura la calcolabilità delle decisioni giudiziarie, le quali dipendono dal paragone fra schema normativo e fatto concreto”: proposizione “irrisa da zelanti o incolti novatori”[2]: spesso – si può aggiungere – non consapevoli delle derive dell’‘interpretazione illimitata’[3].
Siano comunque della legge o siano della propria creazione – ammettiamo per un attimo che questo sia possibile – le parole del giudice pur sempre parole sono. Come tali, compongono un linguaggio. Un linguaggio è un sistema di segni vocali e comunque simbolici con cui un soggetto comunica ad altri soggetti il pensiero che intende esprimere. Per essere inteso in modo corrispondente all’intenzione dell’emittente, il linguaggio dev’essere chiaro: e, quante più volte l’emittente – o il gruppo di emittenti – parla, tanto più deve essere coerente, se egli vuole che i destinatari si regolino per il futuro uniformemente e conformemente a quelle comunicazioni. Di più: tanto più il linguaggio è uniforme, tanto più le varie comunicazioni raggiungono obiettivi unitari.
Questi concetti elementari della linguistica valgono ovviamente anche per il linguaggio dei giudici, o meglio delle decisioni giudiziarie[4]. La relazione tra uniformità (del linguaggio) e unitarietà (del ius dicere) è infatti un fondamento formale dell’elaborazione della giurisprudenza. Non solo: nello Stato di diritto i giudici usano il linguaggio del diritto, il linguaggio giuridico, ricco di espressioni specializzate, di particolarismi terminologici, stilistici e sintattici il cui possesso è proprio di apposite comunità tecnico-professionali, protagoniste e intermediatrici necessarie di queste comunicazioni[5].
L’uso preciso del linguaggio, e di questo linguaggio, è dunque uno strumento essenziale sia dell’accesso alla che della trasparenza e della qualità della giustizia.
 
II
Talora in Italia si sottovaluta la deriva di un’idea latente quanto erronea, che ha varie cause, per lo più extragiuridiche: che la stesura della motivazione di una decisione giudiziaria collegiale resti oggetto di una sorta di mandato aperto dato al relatore convertito in estensore; il quale assume per sé, prima che per il collegio, la paternità intellettuale e un quasi diritto morale d’autore sulla “sentenza”.
Il riflesso percepibile di questa tendenziale personalizzazione è uno stile espositivo disparato[6], di fatto spesso implicativo di imprecisioni che non corrispondono all’aspettativa di certezza che accompagna la decisione: fino al rischio manifesto, in caso di obiter dicta superflui o estranei alla ratio decidendi, o travalicanti i limiti della giurisdizione, di trasformazione del giudice in un apparente decisore, più che della controversia, dell’interesse in gioco, con effetto di compromissione dei ruoli immanenti alla separazione dei poteri.
In effetti, a passare in rassegna le decisioni non è raro cogliere diverse imperfezioni a questi riguardi. Il che affievolisce anziché rafforzare l’obiettivo proprio della sentenza, la costituzione di sicurezza giuridica in luogo dell’insicurezza che ha dato luogo all’insorgere della controversia. Vi contribuiscono non solo le incoerenze e le imprecisioni nell’esposizione del ragionamento ma anche l’uso di terminologie proprie di registri linguistici altri da quello giudiziario, ad esempio mediatici, o dissertazioni extravaganti rispetto alla «succinta esposizione dei fatti rilevanti della causa e delle ragioni giuridiche della decisione» dell’art. 118 disp. att. al Cod. proc. civ. ovvero della «concisa esposizione dei motivi in fatto e in diritto della decisione» dell’art. 88 Cod. proc. amm.. La disomogeneità delle formule espositive e l’eterogeneità dei linguaggi dunque non facilitano l’intellegibilità del percorso logico seguito nel decidere e ingenerano disordine e difficoltà di orientamento dei destinatari.
 
Questo modo di scomposizione anticipata della collegialità – seppur formalmente ancora in atto fino alla pubblicazione della sentenza – a va ledere l’essenziale oggettività della funzione pubblica di giustizia[7] e a compromettere le componenti essenziali, weberiane, dell’impersonalità, della prevedibilità e della calcolabilità delle risposte giuridiche, offrendo spazio alla percezione – per quanto talora ingannevole – dell’inserto di un giudizio valoriale estraneo che orienta a priori la decisione pur resa in nome del Popolo Italiano[8].
Ma anche senza giungere alla distorsione intrinseca, resta che già in superficie le semplici incoerenze espressive, le discontinuità, le imprecisioni e la scarsa chiarezza del linguaggio nuocciono da sole alla qualità della risposta complessiva di giustizia.
In Italia l’onere di motivazione risale a prima della Rivoluzione francese[9]. Paradossalmente, forse proprio per questo, insieme alla frammentazione della storia delle istituzioni e delle tradizioni di giustizia, si è sedimentata una scarsa attenzione a una comune tecnica redazionale[1]. Il recepimento nello Stato unitario del modello giudiziario francese non è stato spinto fino all’acquisizione di quella tecnica di redazione e di quello stile e ha lasciato sopravvivere una sorta di libertà espressiva. La mancata importazione è stata agevolata dalla circostanza che – salvo il procedimento formale di formazione della decisione – già il tema era restato oggetto di praxis più o meno definite nei vari fori. E insieme è rimasta persistente l’idea di fondo, propria dell’ambiente giudiziario oltre che forense, che retorica e logica giuridica si confondano e che perciò la soggettività comunicazionale ben possa corrispondervi secondo le capacità individuali dell’estensore[10].
Il francese jugement à phrase unique (intervallata soltanto da punti e virgole, quand’anche di più pagine) della Cour de Cassation nell’Ottocento fu sì talvolta preso a modello da alcune Corti di Cassazione italiane. Ma fu solo, appunto, una prassi e in realtà l’importazione del modello francese di giustizia non ha mai toccato in termini codificati o doverosi lo stile del provvedimento. Al contrario di quanto è stato ed è in Francia, dove si dà grande significato alla regola formale che l’esposizione del ragionamento del giudice sia rigorosa, chiara, leggibile e intellegibile dall’esterno: al punto che per la sua generalizzazione – cioè l’uniformizzazione dello stile – è codificata da apposite guide ad uso degli estensori[11].
Dunque in Italia per tradizioni risalenti e forse anche per riflesso del pluralismo territoriale – destinato a protrarsi, fino al r.d. 24 marzo 1923, n. 601, nelle cinque Cassazioni “regionali”[12] -, la latitudine espressiva nella redazione della motivazione è rimasta non canonizzata e non tenuta nel rigore di uno stile espressivo uniforme. La conseguenza è che da noi non esiste un autentico stylus sententiae: e che per lo più il tema continua ad essere lasciato alla prudenza dell’estensore.
E questo benché siano per legge fermi gli elementi necessari nel processo civile de «la concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione» (art. 132 – Contenuto della sentenza, n. 4) Cod. proc. civ., come sostituito dall’art. 45, comma 17, l. 18 giugno 2009, n. 69; in origine la norma diceva: «concisa esposizione dello svolgimento del processo e dei motivi in fatto e in diritto della decisione»); e nel processo amministrativo della «concisa esposizione dei motivi in fatto e in diritto della decisione» dell’art. 88- Contenuto della sentenza, Cod. proc. amm. (che sostituisce l’art. 65, n. 3), r.d. 17 agosto 1907, n. 642. – Regolamento per la procedura dinanzi alle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato, che richiedeva «una succinta esposizione dei motivi di fatto e di diritto» della decisione).
Da questo punto di vista, di capitale in Italia – e per il processo amministrativo – vi è però ora il precetto di legge posto, seppur ellitticamente, dall’art. 3, comma 2, Cod. proc. amm., di chiarezza e sinteticità per cui «il giudice e le parti redigono gli atti in maniera chiara e sintetica»[13]. Si tratta qui di intendersi su cosa si intende per chiarezza. Questo è il punto.
 
III
All’idea fallace di questi spazi di monocratizzazione di fatto della stesura della motivazione ha (fino alle l. 25 luglio 1966, n. 570 e 20 dicembre 1973, n. 831) probabilmente contribuito il metodo di progressione in carriera dei magistrati ordinari, basato sullo scrutinio delle sentenze estese o sulla loro valutazione come titoli di concorso, che implicitamente portava alla valorizzazione dell’interlocuzione mostrata dall’estensore con la giurisprudenza e allusivamente con la dottrina (essendo vietato sin dall’art. 265 del Regolamento generale giudiziario del 1865 «invocare l’autorità degli scrittori legali»[14]) e dava così alla singola motivazione un effetto pratico di titolo personale.
Sicché in Italia si tende ad attribuire rilevanza normativa al solo procedimento interno di formazione della decisione, regolato dai ricordati artt. 118 e 119 disp. att. al Cod. proc. civ.[15]. E, per abitudine, si tende a tralasciare, quasi si versi nell’irrilevante giuridico e nel naturalmente opinabile, quanto attiene alla tecnica e allo stile di redazione. Lo si tratta alla stregua di un acconsentito inserto personale del dell’estensore: lasciato pressoché integralmente alla sua attitudine espressiva, quasi a tacita compensazione morale dell’oneroso compito di relazione e di estensione di cui egli – salvo sostituzioni ex art. 118, quarto comma – è gravato[16].
La tendenza pratica all’affievolimento della garanzia della collegialità al momento dell’estensione della motivazione incontra dunque una facilitazione strutturale, sedimentata nel costume: e che oggi – questa è un’importante constatazione di fatto[17] – tende ad accentuarsi.
In realtà, se resta ovvia, naturale e insopprimibile una certa dimensione personale nella scrittura del testo del provvedimento, contenuto ideale della sentenza e stile espositivo spesso si sovrappongono[18] ed è difficile tracciare i rispettivi confini. La dimensione personale è normale e acconsentita per quanto sta al di qua di questo confine ma non “oltre la linea” ideale dove comunque trova in qualche modo ingresso l’altro aspetto.
Ci si deve allora domandare fino a qual punto quest’abitudine corrisponda alla configurazione della sentenza come atto collegiale. L’art. 111, sesto comma, Cost. (in origine, primo comma: la prima delle «Norme sulla giurisdizione») nell’affermare che «tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati», comporta l’imputazione effettiva della motivazione all’intero collegio cui si intesta il provvedimento. E il resto del collegio va a oggettivamente sostenerne sia l’imputazione morale che la pari responsabilità, specialmente civile[19].
Non solo: come già accennato, ci si deve soprattutto domandare se quest’abitudine corrisponda alle esigenze generali di sicurezza giuridica che sono immanenti alla giurisdizione nello Stato di diritto contemporaneo e che, nella realtà dell’organizzazione sociale, costituiscono il principale fattore della legittimazione sostanziale della giurisdizione. La sicurezza giuridica implica – specie nella società della comunicazione e della conoscenza, dove le nuove tecnologie informatiche enfatizzano la funzione extraprocessuale della motivazione[20] – che le statuizioni giudiziarie siano formulate in modo quanto più uniforme, chiaro e preciso, per non generare incertezze o insicurezze ulteriori nei destinatari dell’atto e in chiunque vi acceda a scopo di informazione o “predittivo”[21].
La sicurezza giuridica – concetto più ampio della semplice certezza del diritto – è l’esigenza primaria e immanente all’ordinamento giuridico: in funzione di certezza delle situazioni, prevedibilità delle decisioni, eguaglianza giuridica, chiarezza e coerenza dell’ordinamento, oggettività e stabilità delle regole e della loro interpretazione. La definizione della controversia mediante l’atto giudiziario deve introdurre sicurezza in luogo dell’insicurezza che l’aveva generata. Non vi è indifferente, per quanto detto, la tecnica di formulazione del testo attraverso il quale vengono spiegate le ragioni della decisione.
È il caso di ricordare che chiarezza e precisione sono principi che da tempo il Conseil constitutionnel francese ha ripetutamente detto di rango costituzionale per le leggi[22]. Analogamente da sempre per la Corte costituzionale italiana riguardo alla determinatezza e tassatività delle fattispecie, soprattutto penali: da ultimo, con sentenza 27 febbraio 2019, n. 24, in tema di misure di prevenzione disposte per «traffici delittuosi», ha affermato che la norma, non sufficientemente specificata nemmeno attraverso la giurisprudenza e dunque in contrasto con il principio di legalità, “non soddisfa le esigenze di precisione imposte tanto dall’art. 13 Cost., quanto, in riferimento all’art. 117, comma primo, Cost., dall’art. 2 del Prot. n. 4 CEDU per ciò che concerne le misure di prevenzione personali della sorveglianza speciale; né quelle imposte dall’art. 42 Cost. e, in riferimento all’art. 117, comma primo, Cost., dall’art. 1 del Prot. addiz. CEDU per ciò che concerne le misure patrimoniali del sequestro e della confisca.”[23].
Le norme chiare e precise fanno conoscere con determinatezza la valutazione assegnata dalla legge in via generale e astratta ai comportamenti e l’esatta portata del suo contenuto precettivo; dunque consentono di formulare con sufficiente probabilità le previsioni sulle conseguenze dei comportamenti e di affidare su una decisione giudiziale cognitiva e non creativa. È lo Stato di diritto, che vuole il giudice soggetto soltanto alla legge (art. 101, secondo comma, Cost.), ad imporre la sufficiente specificazione della norma. Specularmente, questo vale per le decisioni del giudice nel particolare e concreto; e anche riguardo ai comportamenti futuri.
Perciò, pur senza prescrizioni di dettaglio al riguardo, va considerato che, a ben osservare le cose, lo stile espositivo si colloca in uno spazio tutt’altro che vuoto di diritto.
 
IV
L’esigenza di coerenza e di affidamento dell’ordinamento richiede insomma la consapevolezza, da parte del giudice, che quanto più il suo linguaggio sarà chiaro e preciso, impersonale e discosto dal soggettivismo dell’estensore, tanto più si realizzerà per le parti processuali e per i terzi quell’essenziale calcolabilità del diritto, indicata da Max Weber, che razionalizza e rassicura i rapporti e garantisce lo sviluppo economico e sociale[24].
La sentenza risolve (“tranche”, taglia, dicono i francesi) la controversia. Il suo contenuto precettivo, sui cui va a formarsi il giudicato[25], comporrà per il futuro la norma del caso concreto cui riferire i comportamenti passati e a venire. Sicché, come per le norme, il modo espositivo concorre esso stesso all’adeguata composizione del diritto.
Insomma, intellegibilità, chiarezza e precisione espositive corrispondono non a una mera ed eventuale disposizione di stile, che di suo resterebbe comunque opinabile, ma a un dovere che grava sul giudice, e per esso sul magistrato estensore della minuta e su chi la controlla. Ne rappresenta direttamente l’affidabilità sociale.
È stato efficacemente scritto dal Pres. G. Barbagallo: “Linguaggio, struttura e stile della sentenza e della motivazione sono un tratto del paragiuridico di fondamentale importanza per l’ordinamento perché il diritto manifesta la sua esistenza attraverso il linguaggio. Il tema è di attualità e attrae l’interesse di studiosi di diritto, linguistica, teoria generale, retorica, storia del diritto”. Perciò “il linguaggio delle sentenze deve essere chiaro, omogeneo e persuasivo. La sentenza è la sede formale ove la legge viene portata a compimento, cioè, ove la regola è attuata e la disposizione diviene norma. La chiarezza della sentenza è essenziale, quindi, sia per la sua funzione endoprocessuale, cioè per la comprensione delle parti della soluzione del caso, sia per quella extraprocessuale di precedente giurisprudenziale che indica come la fonte normativa si attua. La tendenziale uniformità di interpretazione della legge, nelle sue funzioni di certezza del diritto (prevedibilità delle conseguenze di un comportamento), eguaglianza dei soggetti di fronte alla legge (eguale applicazione della legge in eguale situazione), unità del diritto dello Stato (eguale applicazione della legge da parte dei giudici), ha un suo presupposto necessario nella chiarezza e comprensibilità della sentenza. Chiarezza e comprensibilità della sentenza sono anche indici della qualità della democrazia dell’ordinamento”[26].
Il genere di cui ci occupiamo dunque non è semplicemente … letterario. Lo stile espositivo della motivazione è intrinseco alla connotazione giuridica della sentenza e la sentenza si imputa tutta allo Stato, con cui il magistrato è in rapporto di servizio e non di mandato. Lo stile pertanto deve corrispondere alle esigenze proprie dell’atto. Non è appannaggio autonomo e indefinito della poietikè téchne dell’estensore.
Il tema della motivazione della sentenza e dell’inerente tecnica di redazione si inserisce così nel tema generale della qualità della risposta di giustizia.
In questi sensi, lo stile espositivo della motivazione è – per dirla con Umberto Eco – “forma del contenuto[27]: perciò elemento non estrinseco né neutro rispetto all’adempimento del dovere di motivazione.
Salvi allora gli aspetti che comunque non incidono sul contenuto, perché restano mera “forma dell’espressione”, ci si deve fermare su alcune considerazioni di base circa la motivazione per vagliare quanto in realtà dello stile incide sul contenuto.
Malgrado l’attenzione sollevata in dottrina sin dagli anni ‘80[28] – in nessuna nostra giurisdizione o settore si è giunti all’elaborazione di definitivi e uniformi criteri cui attenersi nell’estensione dei provvedimenti[29]. Sicché, tolte alcune linee di tendenza, tutto o quasi sembra ancora lasciato alle opzioni personali della persona del magistrato o del presidente del collegio.
Paradossalmente, quanto più il tema giunge all’attenzione degli studiosi, tanto più sembra allontanarsi da soluzioni pratiche. È – come accennato – un dato con cui occorre misurarsi che oggi, specialmente per le generazioni più giovani di magistrati, aumenti la tendenza alla soggettivizzazione stilistica, talvolta portata fino alla detecnicizzazione del registro linguistico.
Al tempo stesso, resta pur vero che nello stile espositivo del ragionamento giuridico e del sillogismo giuridico, oggetto precipuo della motivazione, resta difficile la distinzione tra contenuto e modo redazionale. Occorre poi intendersi sulla terminologia: a rigore, infatti, il linguaggio riguarda gli aspetti lessicali (l’uso di termini tecnici); è il piano del discorso a concernere l’impostazione e la morfologia della comunicazione che caratterizzano il testo della decisione (di volta in volta chiaro, complesso, argomentativo, ecc.)[30].
Naturalmente, perciò, ben possono esservi elementi meramente stilistici, e come tali vanno considerati e contenuti. Sta però all’intelligenza dell’estensore cogliere il luogo della distinzione e trarne le dovute conseguenze.
 
V
Si conclude qui suggerendo, ad uso pratico, alcuni canoni stilistici che – in base a quanto finora detto – pare opportuno considerare nella stesura dei provvedimenti[31].
Anzitutto: rammentare sempre che ufficio del giudice, a differenza dell’avvocato, non è l’argomentazione (logica frammista a retorica, per convincere o persuadere) per il decidere ma la dimostrazione (logica, per spiegare) del deciso[32]. Perciò la redazione della motivazione va prosciugata dal modo argomentativo.
E poi: rispettare anzitutto il precetto di sinteticità, cioè di concisione, sempre ricordando che per l’art. 3 Cod. proc. amm. esso grava anche sul giudice[33]. La circostanza che il decreto del Presidente del Consiglio di Stato 22 dicembre 2016 (Disciplina dei criteri di redazione e dei limiti dimensionali dei ricorsi e degli altri atti difensivi nel processo amministrativo) concerna solo gli atti di parte, non degrada per il giudice il precetto a suggerimento e non lo esime dal dovere di sinteticità, pur in assenza di quelle regole analitiche: come al rispetto, insieme a quello, del parallelo e complementare dovere di chiarezza di cui si è detto.
Rifarsi per quanto possibile alle raccomandazioni contenute nelle Circolari del Presidente del Senato e del Presidente della Camera dei deputati 20 aprile 2001 (Regole e raccomandazioni per la formulazione tecnica dei testi legislativi) e alla conforme Circolare della Presidenza del Consiglio dei Ministri 2 maggio 2001, n. 10888 (Guida alla redazione dei testi normativi).
Perimetrare idealmente la motivazione al thema decidendum e contenersi all’esposizione della ratio decidendi: che deve essere strettamente funzionale alla concreta decisione. Evitare pertanto obiter dicta, di principio superflui, così come extravaganti dissertazioni in diritto. La sentenza – si dice spesso – non è occasione per trattatelli, profittarne significa abusare di una posizione privilegiaria per esporre opinioni personali non necessarie e non richieste.
Tenere a mente la regola aurea che la chiarezza e l’incisività espositiva è data anzitutto dall’economia espositiva. Curare perciò l’ordine degli argomenti, la loro coesione, la coerenza e l’essenzialità lessicali del testo.
Evitare con la massima cura valutazioni di ordine extragiuridico, estranee al sillogismo e comunque al ragionamento giuridico: in particolare biasimi, moniti, censure morali, reprimende, indicazioni che il giudice andrebbe a manifestare senza averne alcun titolo e ultra vires rispetto ai poteri e ai compiti di cui, nello Stato di diritto continentale[34], la legge lo investe e per i quali soltanto è reclutato mediante concorso. L’uso di tali dissertazioni estranee al diritto abbassa, anziché confermare, l’autorità morale della decisione. Rammentare che non si è giudici di common law, per i quali solo la speciale – e ben diversa – investitura e il ruolo del giudice in quei sistemi giuridici dà titolo all’espressione dell’opinion personale, finanche dissenziente o concorrente.
Mantenere il discorso diretto e concreto. Scrivere frasi brevi, preferendo l’essenzialità espositiva. Prosciugare dalla ridondanze: la sovrabbondanza è inutile e controproducente (meno si dice, più si dice). Temere non la ripetizione delle parole, ma la ripetizione dei concetti.
Preferire il collegamento tra le varie proposizioni secondo la disposizione paratattica (dove il periodo è costruito solo con frasi principali indipendenti e isolate), che conferisce chiarezza, evidenza e incisività alla descrizione, piuttosto che secondo la disposizione ipotattica (dove il periodo è caratterizzato da concatenazioni secondo livelli di subordinazione) che comporta maggior impegno e riflessione per il lettore.
Evitare, per quanto possibile, aggettivi e avverbi: modificatori semantici dei sostantivi o dei verbi che sono o ridondanti – e perciò inutili – o pericolosi per la precisione, perché agiscono in modo indeterminante sulla latitudine del significato grammaticale delle parole cui accedono.
Evitare anacoluti e sovrabbondanze, come circonlocuzioni senza ragione quale “provvede a concedere” in luogo di “concede”.
Evitare con debita cura la commistione con il registro espressivo giornalistico (es: la Consulta in luogo de la Corte costituzionale; i giudici di Strasburgo in luogo de la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo; i giudici di Palazzo Spada in luogo de il Consiglio di Stato; il Tribunale partenopeo in luogo del il Tribunale amministrativo per la Campania, ecc.). Se l’uso di simili espressioni è giustificato come ponte per l’apprendimento del diritto, non lo è più quando si tratta ormai di scrivere “In nome del Popolo Italiano” e così di dire il diritto. Anche a questo proposito, è bene rammentare che nei sistemi continentali, a differenza che nel common law, il giudice (al singolare) è il collegio; e che i componenti del collegio sono non i giudici (al plurale) ma solo magistrati che compongono il (al singolare) giudice-collegio[35].
Insomma, cercare di mantenere un registro espressivo quasi notarile: arricchirà la sentenza in comprensibilità, autorevolezza, rassicurazione giuridica e affidabilità del giudice.
 
 
 
Giuseppe Severini
Presidente di Sezione del Consiglio di Stato
 
Pubblicato il 17 giugno 2019
 
 

* Relazione al Congresso nazionale dei magistrati amministrativi, Roma, 6-7 giugno 2019.
 
[1] MONTESQUIEU, De l’esprit des lois [1748], XI, cap. XVI.
[2] N. IRTI, Un diritto incalcolabile, Torino 2016, VII.
[3] Bernd RÜTHERS, Die unbegrenzte Auslegung. Zum Wandel der Privatrechtsordnung im Nationalsozialismus, Mohr Siebeck, Tübingen 1968; 8 ed. ampliata 2017, incentrato sulla realtà storica dell’interpretazione Illimitata, caratteristica del regime nazionalsocialista che voleva il giudice svincolato dalla legge. Ma, sotto ben altri profili, anche nella Repubblica federale tedesca, per l’A., le fonti di diritto più importanti finiscono per essere in pratica le decisioni di ultima istanza: modificando il diritto prevalgono su costituzione e leggi causandone, tramite la sempre più massiccia creazione di diritto giurisprudenziale, una “rivoluzione clandestina” da Stato di diritto a Stato dei giudici. Id., La rivoluzione clandestina dallo Stato di diritto allo Stato dei giudici, allo Stato dei giudici. Costituzione e metodi. Un saggio, a cura di G. Stella, Mucchi, Modena 2018 [Die heimliche Revolution vom Rechtsstaat zum Richterstaat. Verfassung und Methoden, Mohr Siebeck, Tübingen 2014]. Analogamente Jacques KRYNEN, L’État de justice. France, XIIIe-XXe siècle. Tomo II. L’emprise contemporaine des juges, Gallimard, Paris 2012, per il quale in tutti gli aspetti della vita privata e pubblica, e malgrado il deficit di legittimazione dei giudici, la Francia è tornata ad essere, sotto gli auspici dello Stato di diritto, lo Stato di giustizia che era sotto la monarchia, dove i giudici creano norme sulla base del diritto europeo, dei principi generali del diritto, del diritto CEDU. L’A. vede un rimedio nella figura del giudice elettivo. 
[4] Analogamente per il movimento Law and literature, che analizza i testi legislativi. Il suo fondatore, lo statunitense James Boyd WHITE (n. 1938) si sofferma sulla constitutive rhetoric dei testi legali, capaci di fare del linguaggio o dei simboli mezzi che creano un’identità collettiva per un pubblico. Così, in particolare, nel Law as literature, che muove dall’idea che lo stile è inseparabile dalla sostanza e che l’atto giuridico definisce una cultura e crea relazioni.
[5] C. ROBIN, Langage et langue judiciaires, in Dictionnaire de la Justice, Paris 2004, 811. B. MORTARA GARAVELLI, Le parole e la giustizia. Divagazioni grammaticali e retoriche su testi giuridici italiani, Torino 2001.
[6] È un’idea contra legem, che interrompe l’immanenza della collegialità all’intero l’arco della decisione per surrogarla, al momento della scrittura, con un’impropria personalizzazione dell’estensione. Invece le norme processuali configurano la permanenza della collegialità anche dopo la decisione. La legge distingue tra redazione della minuta dell’estensore e formazione definitiva della sentenza sotto il controllo del presidente garante della collegialità (art. 118 e 119 disp. att. al Cod. proc. civ.). La minuta –  “prima stesura provvisoria di uno scritto, destinata a essere corretta, migliorata, integrata, ecc.” per il Vocabolario Treccani – è soltanto un documento preparatorio interno e provvisorio, nemmeno assimilabile ad una proposta, di suo modificabile e rettificabile sia dallo stesso estensore che dal presidente, espressione di un munus e non di una committenza o delegazione ad personam, né di una prerogativa personale che vorrebbe il compito presidenziale contenuto in un’attestazione formale e controfirma che converte la monocratizzata minuta in sentenza malgrado l’art. 111 Cost. implichi l’imputazione della motivazione all’intero collegio. Insomma, a seguire la deriva si andrebbe a interrompere, nella compilazione delle ragioni della decisione, la funzione di garanzia della collegialità, ridotta a occasione di certificazione privilegiata. L’effetto sarebbe di monocratizzazione e ri-personalizzazione della motivazione: di riflesso, di responsabilità civile per atto altrui. Eppure assicurare la coerenza delle decisioni è l’essenza della giurisprudenza e la base della sua attitudine a generare sicurezza giuridica. Sia consentito il rinvio a G. SEVERINI, I ‘due corpi del giudice’, ovvero dell’impersonalità delle decisioni giudiziarie, in www.federalismi.it, n. 7 del 28 marzo 2018; in www.giustizia-amministrativa.it, 2018; in Scritti in onore di Luigi Manzi (La professione del giurista), Roma 2018 e La sicurezza giuridica e le nuove implicazioni della nomofilachia, ivi, n. 19/2018.
[7] M. WEBER, Wirtschaft und Gesellschaft, Tübingen, Mohr, 1922, ed. critica Winckelmann, 1956, trad. it. coord. da P. Rossi, Economia e società, 2^ ed. it., Milano, Comunità, 1968, III. 100 ss.. 
[8] N. IRTI, Un diritto incalcolabile, Torino 2016, cit.; AA.VV., Calcolabilità giuridica, a cura di A. Carleo, Bologna 2017.
[9] V. ad esempio il cap. XVII, Dello stile de’ giudici, e tribunali nel conoscere a giudicare, e decidere le cause, nell’opera recentemente ripubblicata del card. G.B. DE LUCA, Lo stile legale [1674], Bologna 2010, 165.
Il dovere di motivazione è frutto di un lungo processo storico che giunge a risultato soltanto alla fine del sec. XVIII. Contrassegna sia la progressiva secolarizzazione della giustizia, sia il mutamento della sua auctoritas: non più discendente dal sovrano e, sopra di lui, dall’imperscrutabile disegno divino (omnis potestas a Deo) ma risalente dalla Nazione e dalla volontà generale espressa nella legge. Perciò la singola decisione non può essere più “oracolare” [cioè misteriosa ed enigmatica. Ricorda Livio (9.46.5) che, pur dopo le XII Tavole, il ius civile era “repositum in penetralibus pontificium”: infatti i responsa dei pontifices, cui ne era riservata l’interpretazione, erano dati oralmente e senza motivazione: cfr. G. VALDITARA, Diritto pubblico romano, Torino 2013, 16] ma va giustificata dal giudice manifestando per iscritto il ragionamento deduttivo che la ha generata: dove – è lo schema del sillogismo giuridico – la legge rappresenta la premessa maggiore, l’accertamento del caso concreto la premessa minore, la decisione la deduzione. Il dovere di motivazione è un tratto essenziale dello Stato di diritto, per il quale l’esercizio dei poteri diversi dal legislativo va sempre giustificata rispetto al primato della legge.
Questo carattere si riflette simbolicamente nel progressivo mutare dell’intestazione delle sentenze, evocante la legittimazione del giudice (In nomine Domini, In nome di Sua Maestà, ecc.; In nome della Legge; In nome del Popolo, ecc.: v. oggi art. 101 Cost., «La giustizia è amministrata in nome del popolo»). Si collega alla regola della pubblicità del processo. La ratio, come evidenzia la Costituzione belga (nel 1831, la Costituzione liberale del Belgio elevò il principio al rango costituzionale: «Tout jugement est motivé: Il est prononcé en audience publique» (art. 97, oggi – dopo la revisione del 1994 – art. 149)), è la medesima: il cittadino deve poter conoscere quanto si svolge nell’aula di giustizia e perché si decide in un certo modo, il processo non è fatto privato del giudice, né rapporto intercluso con le parti e gli avvocati. Sicché il dovere di motivazione va di pari col principio della pubblicità del processo (presente già in Costantino), proclamato in via generale dalla Costituzione termidoriana dell’Anno III (1795).
In Italia la pubblicità del processo fu formalmente affermata dall’art. 72 dello Statuto del Regno (1848); oggi la si collega anche all’art. 6 della Convenzione europea di salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU).
Per quanto appaia singolare alla nostra forma mentis, al giudice medievale era fatto divieto di “exprimere causam in sententia”. La ricognizione del divieto risiedeva nella decretale pontificia Sicut nobis, di Innocenzo III (1161-1216): «Cum autem in plerisque locis, in quibus copia prudentum habetur, id moris exsistat, quod omnia, quae iudicem movent, non exprimatur in sententiis proferendis, vobis taliter respondemus quod, cum exdepositionibus testium praedictorum constiterit vobis, sententiam a iudice suo fuisse prolatam, propter auctoritatem iudiciarium praesumi debet omnia legitime processisse» (E. BAURA, J. CANOSA, La giustizia nell’attività amministrativa della Chiesa: il contenzioso amministrativo, Milano 2006, 261). Il principio privilegiava il favor iudicis (imperium) sul favor veritatis (ratio). E così Baldo degli Ubaldi (1327-1400) scriveva che sulla base dell’«auctoritas iudiciaria praesumuntur omnia sollenniter acta etiam si iudex esset unus ribaldus. Tene menti»; e il giudice che manifestasse la motivazione (causa) era stimato «fatuus».
Solo a seguito di un lento movimento dell’opinione dei dottori avverso all’ermetismo e all’arbitrio delle decisioni, o a “i misteri della giurisprudenza”, si affermò lentamente nei vari stati italiani il dovere di motivazione.
Mette conto di ricordare (attingendo tra l’altro a M. TARUFFO, L’obbligo di motivazione della sentenza civile tra diritto comune e illuminismo, in Riv. dir. proc., 1974, II, 265 ss. e a G. GORLA, I motivi delle sentenze e il loro stile fra i secoli XVI e XIX,1978 e Id., Sulla via dei «motivi» delle «sentenze»: lacune e trappole, in Foro It., 1980, V, 201 ss.) come il tema fu affrontato nei vari stati italiani.
A Firenze: nel 1532 e nel 1560 si impose l’obbligo di motivare, a richiesta delle parti, in un atto materialmente distinto dalla decisione; l’atto doveva essere trasmesso alle parti e all’ufficio del Proconsolo.
A Roma: la costituzione apostolica In throno iustitiae (1562) di Pio IV (1499-1565) anticipò la motivazione alla sentenza, ma secondo la pratica propria della Rota Romana, diffidente per quanto oggi chiamiamo la cosa giudicata – perché l’impronta canonistica aspira ad accertare la verità dei rapporti più che ad assicurare la loro stabilità – e incurante del decorso del tempo (all’ultimo visto anzi come un positivo fattore di attenuazione dell’animus litigandi). L’Auditor ponens, o Ponens (il relatore, che poi non votava) riceveva anche a casa e per mezzo del suo segretario i difensori, trattava la causa e formulava un progetto di decisio, con motivazione, che veniva sottoposto alle parti che potevano presentarvi acquiescenza ovvero controdeduzioni e repliche (dubia): alla ricerca – mediante successivi e ripetuti audiatur dai tempi lunghi e nuovi progetti di decisio – del loro consenso, a prevenire dissensi e appelli. Solo alla fine di questi ritorni, la causa veniva “spedita” (expediatur) a sentenza.
A Torino: nel 1729 fu introdotto l’obbligo generale di motivazione. Ma le Regie Costituzioni del 1729 e del 1770 lo restrinsero al caso della richiesta delle parti o del capo dell’ufficio. Nel 1838 una regia patente di Carlo Alberto stabilì l’obbligo di motivare ma per le supreme magistrature, lasciandola per i giudici inferiori “a richiesta”.
A Milano: la sentenza del Senato milanese, che ‘iudicat tamquam Deus’, era rigorosamente non motivata. La regola fu confermata dall’imperatrice Maria Teresa (1772). Pietro e Alessandro Verri criticarono severamente il mistero e l’arbitrio che ne potevano derivare. Finalmente, con finalità strettamente endoprocessuale, nel 1786 provvide il Regolamento del processo civile per la Lombardia austriaca (versione adattata del Civil Gerichtsordnung austriaco del 1781 dell’imperatore Giuseppe II, per il quale la motivazione andava redatta, comunicata alle parti senza pubblicità e al giudice dell’impugnazione). Era un codice giurisdizionalista con incisivo controllo pubblico sul giudice, privato di poteri arbitrali e ora subordinato alla legge, pur se interventista rispetto alle parti nella gestione del processo.
A Napoli: il Sacro Regio Consiglio non motivava. Ma la prammatica del 27 settembre 1774 di Ferdinando IV introdusse l’obbligo di motivazione e così l’applicativo dispaccio del 25 novembre 1774 del Segretario di Stato, l’illuminista Bernardo Tanucci, dispose: «Per togliere alla malignità e alla frode qualunque pretesto, ed assicurare nell’opinione del pubblico la esattezza e la religiosità dei magistrati, vuole la Maestà Sua, anche sull’esempio e sull’uso dei tribunali più rinomati, che in qualunque decisione che riguardi o la causa principale, o gli incidenti, fatta da qualunque tribunale di Napoli, o collegio, o giunta, o altro giudice della stessa capitale, che abbia la facoltà di decidere, si spieghi la ragion di decidere, o sieno i motivi sù quali la decisione è appoggiata», imponendo il sillogismo giuridico su «sulle leggi espresse del regno, o comune». Disapplicata dal Consiglio, “la bocca del Re”, estromesso Tanucci (1776) la regola fu abolita dal rescritto abrogativo del 6 novembre 1791.
In Francia vigeva il principio della non obbligatorietà della motivazione da parte dei potenti e incontinenti Parlements. MONTESQUIEU sottolineava però la necessità di una giurisprudenza uniforme, da raggiungere conservando le decisioni dei tribunali: «elles doivent être apprises pour que l’on y juge aujourd’hui comme l’on jugea hier» (De l’esprit des lois (1748), I, 6, 1, 81).
La Rivoluzione impose l’obbligo di motivazione generalizzato (legge 16-24 agosto 1790 sull’organizzazione giudiziaria: all’art. 15, Tit. V, prevede che ogni sentenza si componga di quattro parti; le prime due contengono i nomi delle parti e le questioni di fatto e di diritto; «dans la troisième, le résultat des faits reconnus ou constatés par l’instruction, et les motifs qui auront déterminé le jugement seront exprimés. La quatrième enfin contiendra le dispositif du jugement»). La Costituzione dell’Anno III (Termidoro, 1795), come detto, confermò il precetto: «Les séances des tribunaux sont publiques; les juges délibèrent en secret; les jugements sont prononcés à haute voix; ils sont motivés, et on y énonce les termes de la loi appliquée» (art. 208). Il precetto fu recepito dalla legge 20 aprile 1810, che all’art. 7 prescrisse la nullità della sentenza che difetta di motivazione. Nelle costituzioni successive il principio non fu ripetuto e non è presente nell’attuale del 1958; ma è comunque ritenuto del rango dei principi di valore costituzionale: Conseil constitutionnel, 3 novembre 1977, n. 77-101.
Nei Paesi di common law, l’esposizione delle reasons for the judgment (o grounds of the the judgment) non è prescritta da norme, ma è stimata immanente all’idea stessa di judgment, fondato sull’opinion di chi lo scrive, e al sistema dello stare decisis, inconcepibile senza: e i giuristi nemmeno usano distinguere tra judgment e reasons for the judgment. È di quel sistema – dove chi giudica non è un collegio composto da più magistrati, ma un semplice panel di giudici-individui – la pratica della dissenting opinion e della concurring opinion.
Sul tema delle persistenze stilistiche, cfr. F. MASTROBERTI, Note su linguaggio e discorso giuridico nelle sentenze tra antico e nuovo regime, in N. Triggiani (a cura di), Il linguaggio giuridico del processo. Una riflessione interdisciplinare, Taranto 2017, pp. 63-74; Id., Il “culto” della sentenza tra Ottocento e Novecento: dalle raccolte di giurisprudenza alla nota a sentenza, in Historia et ius, n. 14/2018.
[10] La letteratura è vasta: V. ad esempio il cap. XVII, Dello stile de’ giudici, e tribunali nel conoscere a giudicare, e decidere le cause, in G.B. DE LUCA, Lo stile legale [1674], cit., 165.
[11] Es. il recente (in uso dal 2019) Vade-mecum sur la rédaction des décisions de la juridiction administrative, in https://www.dalloz-actualite.fr/sites/dalloz-actualite.fr/files/resources/2018/12/vade-mecum.pdf.. Questa guida segna il passaggio allo “stile diretto” in luogo del precedente “stile indiretto” per rendere le decisioni accessibili a un pubblico più largo. Sicché all’inizio di ogni paragrafo non figura più il marcatore redazionale «considérant que», ora sostituito dalla formula «considérant ce qui suit».
[12] Torino, Firenze, Napoli, Palermo e, dal 1876, Roma. Per l’art. 122 r.d. 6 dicembre 1865, n. 2626 (ordinamento giudiziario), loro compito era di mantenere nelle rispettive competenze territoriali l’«esatta osservanza della legge», e così per l’art. 61 r.d. 30 dicembre 1923, n. 2786 (Testo unico delle leggi delle disposizioni sull’ordinamento degli uffici giudiziari e del personale della magistratura). Solo con l’art. 65 r.d. 30 gennaio 1941, n. 12 (ordinamento giudiziario) fu stabilito che «assicura l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, l’unità del diritto oggettivo nazionale». Solo quest’ultima formulazione codificava dunque in capo alla Corte di cassazione la funzione di nomofilachia.
[13] Il precetto oggi è specificato solo per i «ricorsi e […]gli altri atti difensivi», cioè solo per «le parti», dal decreto del Presidente del Consiglio di Stato 22 dicembre 2016 (Disciplina dei criteri di redazione e dei limiti dimensionali dei ricorsi e degli altri atti difensivi nel processo amministrativo) ai sensi l’art. 13 –ter dell’allegato II al d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104, che supera l’analogo decreto n. 40/2015 ex art. 120, comma 6, Cod. proc. amm. sulla sinteticità degli scritti difensivi nel rito dei contratti pubblici, e resta non specificato per gli atti del giudice. Per i principali contributi sul tema v. F. PATRONI GRIFFI, Forma e contenuto delle sentenze del giudice amministrativo, in Dir. proc. amm., 2015, 17, che tratta anche dello stile e delle tecniche di redazione della sentenza, criticando la sentenza prolissa; G.P. CIRILLO, Dovere di motivazione e sinteticità degli atti, in Giurisdiz. amm., 2012, IV, 7, evidenzia che per lo stesso art. 3, comma 2, la motivazione «chiara e sintetica» dev’essere anche “sufficiente e congrua”; C. VOLPE, Dovere di motivazione della sentenza e sinteticità degli atti delle parti processuali, in Giurisdiz. amm., 2014, IV, 225; G. BARBAGALLO, Per la chiarezza delle sentenze e delle loro motivazioni, in Il linguaggio della giurisprudenza, in Foro it., 2016, parte V; R. DE NICTOLIS, Le sentenze del giudice amministrativo in forma semplificata. Tra mito e realtà (2017), in www.giustizia-amministrativa.it.
[14] Cfr. oggi l’art. 118, terzo comma, disp. att. Cod. proc. civ.del 1942 (richiamato dall’art. art. 88, comma 3, Cod. proc. amm): «In ogni caso deve essere omessa ogni citazione di autori giuridici».
[15] A norma dell’art. 118 (Motivazione della sentenza) disp. att. al Cod. proc. civ., come modificato dall’art. 52, quinto comma, l. 18 giugno 2009, n. 69, «La motivazione della sentenza […] consiste nella succinta esposizione dei fatti rilevanti della causa e delle ragioni giuridiche della decisione, anche con riferimento a precedenti conformi. // Debbono essere esposte concisamente e in ordine le questioni discusse e decise dal collegio ed indicati le norme di legge e i princìpi di diritto applicati. […] // […]».
A norma dell’art. 119 (Redazione della sentenza), «l’estensore [la cui scelta è fatta dal presidente tra i componenti il collegio che hanno espresso voto conforme alla decisione] deve consegnare la minuta della sentenza da lui redatta al presidente del tribunale o della sezione. Il presidente, datane lettura, quando lo ritiene opportuno, al collegio, la sottoscrive insieme con l’estensore e la consegna al cancelliere […]».
 
[16] È sulla base di questo costume che è stato possibile il fenomeno delle c.d. sentenze (penali) suicide, specialm. delle corti d’assise straordinarie del secondo dopoguerra: muovevano dal classico di G. ESCOBEDO, Le sentenze suicide, Milano 1942 e poi 1943 con pareri di Antolisei, Calamandrei, Campolongo, Carnelutti, Castellano, De Marsico, De Nicola, Ferrara, Florian. Manzini, Mezger, Mittermaier, Rossi, F. Vassalli, Zanzucchi, e lettere di B. Broce, Casati e D’Amelio. Recentem. G. BUONOMO, Il progetto di riforma dell’ordinamento giudiziario e le “sentenze suicide”, in Forum di Quaderni costituzionali, 2004.
[17] le cui ragioni – si può immaginare – affondano anzitutto nella modesta qualità dell’odierna formazione scolastica.
[18] M. TARUFFO, Motivazione (motivazione della sentenza – diritto processuale civile), in Enc. giur. Treccani, Roma 1990, XX, 4.
[19] L’intero collegio va comunque a oggettivamente sostenere la responsabilità civile della pur “monocratizzata” decisione. Buona parte dei casi di tipizzata colpa grave per responsabilità civile del magistrato fa del resto riferimento alla motivazione (cfr. art. 2, commi 3 e 3-bis, l. n. 117 del 1988).
[20] Com’è noto, per la dottrina la motivazione della decisione ha due orizzonti di destinatari: quello endoprocessuale e quello extraprocessuale. È a quest’ultimo, si rileva, che guarda l’art. 111 Cost.: P. CARETTI, Motivazione (diritto costituzionale), in Enc. giur. Treccani, Roma, 1990, XX, 2. Dal punto di vista endoprocessuale, la motivazione fa conoscere il fondamento della decisione alle parti in causa o ai giudici successivi. Dal punto di vista extraprocessuale rende possibile il controllo esterno sull’attività del giudice e sulla buona amministrazione della giurisdizione e come si forma la giurisprudenza attraverso il precedente: M. TARUFFO, La motivazione della sentenza civile, Padova 1985; Id., Motivazione (motivazione della sentenza – diritto processuale civile), in Enc. giur. Treccani, Roma 1990, XX; Id., Motivazione della sentenza civile (controllo della), in Enc. dir., aggiornamento-III, Milano 1999, 772; Id., La riforma delle norme sulla motivazione della sentenza, in Giur. it., 2011, 243; Id., Addio alla motivazione?, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2014, 375; S. EVANGELISTA, Motivazione della sentenza civile, in Enc. dir., XXVII, Milano 1977, 154 ss.; E. AMODIO, Motivazione della sentenza penale, in Enc. dir., XXVII, Milano 1977, 181 ss.. Soprattutto per questo secondo profilo, ma anche per il primo se si pensa alle parti, è necessario che il linguaggio della motivazione sia quanto più accessibile anche agli estranei al processo: che sia comprensibile dai più e non soltanto dagli addetti ai lavori: M. TARUFFO, Motivazione della sentenza civile (controllo della), cit., spec. 776.
[21] Nel mondo anglosassone si tende a sintetizzare la legal certainty nella legal stability and predictability.
[22] Cons. const., n. 2001-455 DC, 12 gennaio 2002, cons. 9; n. 2001-451 DC, 27 novembre 2001, cons. 13; n. 98-401 DC, 10 giugno 1998, cons. 10.
Non è fuor di luogo ricordare, all’opposto, l’auspicata morte del paragrafo – simbolo di un “pensiero del diritto estraneo alla vita e alla realtà” perché il vero diritto non può essere ridotto alla legge scritta – dei giuristi nazionalsocialisti, in particolare di Hanns Kerrl, ministro della giustizia prussiano nel 1934 poi ministro per gli affari ecclesiastici del Reich (celebre la sua foto Paragraphen am Galgen, paragrafi sulla forca): cfr. J. CHAPOUTOT, La legge del sangue. Pensare e agire da nazisti, Torino 2016, 116.
[23] In tema di disposizioni su sorveglianza speciale e confisca per “persone abitualmente dedite a traffici delittuosi”: formula normativa illegittima in quanto troppo generica. In sensi analoghi vi si era pronunciata la Corte EDU (sentenza della Grande Camera pubblicata il 23 febbraio 2017, in proc. n. 43395/09, de Tommaso vs. Italia), per la quale gli artt. 1, 3 e 5 l. 27 dicembre 1956, n. 1423 (Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità), si pongono in contrasto con l’art. 2 del Prot. n. 4 CEDU non presentando i requisiti di «chiarezza, precisione e completezza precettiva» richiesti dalla CEDU, e precluderebbero al cittadino di comprendere «quali condotte debba tenere e quali condotte debba evitare per non incorrere nella misura di prevenzione», e quali condotte integrino la «violazione delle prescrizioni connesse all’imposizione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza».
[24] Cfr. N. IRTI, Un diritto incalcolabile, cit., specc. 3 ss..
[25] L’esigenza del giudicato nasce dall’esigenza superiore di sicurezza giuridica che ad un certo punto la giustizia sia resa e in maniera definitiva: si usa riferire a Montesquieu la formula «Le repos des familles et de la société toute entière se fonde non seulement sur ce qui est juste mais sur ce qui est fini». Come sopra si è ricordato (nota n.9), non era questo il fine del processo presso la Rota Romana.
[26] G. BARBAGALLO, Per la chiarezza delle sentenze e delle loro motivazioni, cit..
[27] e non “forma dell’espressione”: cfr. U. ECO, Le forme del contenuto, Torino 1971; Id., Trattato di semiotica generale, Torino 1975, passim. La distinzione è ripresa dal linguista strutturalista L. Hjelmslev, che sviluppa i postulati di F. de Saussure sulla teoria dei segni.
[28] Si vedano ad es. gli studi di G. GORLA, Sulla via dei «motivi» delle «sentenze»: lacune e trappole, in Foro it., 1980, V, 201 ss..; La sentenza in Europa – Metodo, tecnica e stile (atti del convegno, Ferrara, 10-12 ottobre 1985), Padova 1988; D. PREITE, Tecnica della motivazione delle sentenze a coesione sociale (a proposito di un libro di Guido Calabresi), in Contratto e impr., 1986, 476; R. GUASTINI, Problemi di analisi logica della motivazione; in contratto e impr., 1986, 104; G. SBISÀ, Certezza del diritto e flessibilità del sistema (la motivazione della sentenza in common law e civil law), in Contratto e impr., 1988, 504; G. MICALI, Lo stile delle sentenze e la corte di cassazione, in Giust. civ., 1988, II, 2 e in Giust. pen., 1988, III, 54; S. MAZZAMUTO, Lo stile delle sentenze e l’utilizzazione dei precedenti: spunti di politica del diritto, in Europa e dir. privato, 1999, 747; G. BARBAGALLO, Appunti di storia minima per una ricerca sullo stile della motivazione delle sentenze della cassazione in materia civile, in Foro it., 1987, V, 269; Id., Stile e motivazione delle decisioni del Consiglio di Stato, in I Consigli di Stato di Francia e d’Italia, Milano 1998; G. BARBAGALLO e M. MISSORI, Il linguaggio delle sentenze, in Nuova giur. civ., 1999, II, 91; G. BARBAGALLO, Per la chiarezza delle sentenze e delle loro motivazioni, Il linguaggio della giurisprudenza, in Foro it., 2016, V, 362 (a seguito del corso della Scuola superiore della magistratura e dell’Accademia della Crusca su «Il linguaggio della giurisdizione», a Firenze, 20-21 giugno 2016; analogo corso è stato tenuto il 18-20 settembre 2017); G. GRASSO, Le parole dei giudici: chiarezza, sinteticità e giustizia, ivi, 357; V. FERRARI, Fatti e parole nella giurisprudenza, ivi, 365; E. SCODITTI, Chiarezza e semplicità delle sentenze: simplex sigillum veri, ivi, 368; S.L. GENTILE, La relativa opacità del linguaggio giudiziario fra inestetismi ed espressioni incerte: cause, tendenze, rimedi, ivi, 371; N. IRTI, Le due cassazioni civili (in difesa della motivazione), in Contratto e impr., 2017, 11; P. CIRILLO, Dovere di motivazione e sinteticità degli atti, in Foro romano, n. 1-2/2015 e in Giurisdiz. amm., 2012, IV, 7; C. VOLPE, Dovere di motivazione della sentenza e sinteticità degli atti delle parti processuali, ivi, 33.
[29] Peraltro si veda il Provvedimento 22 marzo 2011 del Primo Presidente della Corte di Cassazione “sulla motivazione semplificata di sentenze e di ordinanze decisorie civili”. La stesso stile odierno delle sentenze, per quanto formalmente accurate, della Corte di Cassazione non appare uniforme od omogeneo.
Non mancano serie riflessioni, come ad es. la tavola rotonda organizzata dalla Scuola superiore della Magistratura e Struttura decentrata di formazione territoriale della Corte di cassazione, Le tecniche della motivazione tra esigenze di celerità e di adeguata risposta di giustizia, Corte di Cassazione, 9 giugno 2016; in vista dell’incontro di studi Il linguaggio e lo stile delle Corti supreme: la motivazione, Corte di Cassazione, 16 giugno 2016; e il corso Il linguaggio della giurisdizione, Firenze, 18-20 settembre 2017.
[30] F. MASTROBERTI, Note su linguaggio e sul discorso giuridico …, cit., 63.
[31] Per una trattazione con ampia casistica di questo argomento, si suggerisce la lettura di G.P. CIRILLLO, Dovere di motivazione e sinteticità degli atti, in Foro romano, n. 1-2/2015 e in Giurisdiz. amm., 2012, IV, 7, e ivi la Nota 12, che fa riferimento ad una nutrita serie di criteri elaborati dal Pres. P.G. LIGNANI per la III Sezione del Consiglio di Stato, “Appunti per la redazione dei testi”.
[32] Come magistralmente spiegato da Chaïm PERELMAN e Lucie OLBRECHTS-TYTECA, Trattato dell’argomentazione. La nuova retorica, Torino 1966 [Traité de l’argumentation. La nouvelle rhétorique, Paris 1958], passim.
[33] A rammentare quanto la brevità sia importante valga il noto aforisma: «Je n’ai fait cette lettre-ci plus longue que parce que je n’ai pas eu le loisir de la faire plus courte» (Blaise PASCAL, Les Provinciales, lettera 16).
[34] Ricorda M. TARUFFO, La fisionomia della sentenza in Italia, in Materiali per un corso di analisi della giurisprudenza, a cura di M. Bessone e R. Guastini, Padova 1994, 461 ss., che lo stile impersonale delle decisioni giudiziarie continentali è connaturale al modello del giudice funzionario che vuole la sentenza atto dello Stato, prodotto del giudice-organo e non del giudice-persona. Il che corrisponde alla descrizione di M. WEBER, op. cit., III, che sottolinea che nell’ordinamento americano la sentenza è una creazione personale del giudice concreto, cui ci si riferisce citandolo per nome, in contrasto con l’impersonale ‘tribunale regio’ del linguaggio europeo continentale. Cfr. F. BIONDI, La responsabilità del magistrato: saggio di diritto costituzionale, Milano 2006, 145.
[35] Si richiama ancora G. SEVERINI, I ‘due corpi del giudice’, cit., § 6.
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