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La nozione di licenziamento per giustificato motivo oggettivo

 Sommario: 1.1 La fattispecie “giustificato motivo oggettivo” di licenziamento e relativa nozione 1.2 Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo: dalla ragione economica alla ragione organizzativa 1.3 Segue. Extrema ratio o “normale” licenziamento economico? 1.4 Giustificato motivo oggettivo di licenziamento e controllo giudiziario/insindacabilità nel merito delle scelte economico-organizzative 1.5 Il giustificato motivo oggettivo pretestuoso

 

  • La fattispecie “giustificato motivo oggettivo” di licenziamento e relativa nozione

Non da oggi il tema del giustificato motivo oggettivo è al centro di una disputa definitoria di non poco conto[1].

Ai sensi dell’art. 3 della legge 604/1966, il licenziamento può essere intimato “per ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”: si tratta del c.d. licenziamento per giustificato motivo oggettivo[2]

Costituiscono, in particolare, giustificato motivo oggettivo la crisi dell’impresa, la cessazione dell’attività o anche solo il venir meno delle mansioni cui è assegnato il lavoratore, senza che sia possibile il suo ricollocamento in altre mansioni esistenti in azienda e compatibili con il suo livello di inquadramento[3].

La riforma del 2012 ha ricondotto all’area del licenziamento per motivi oggettivi anche le ipotesi del licenziamento per superamento del periodo di comporto e del licenziamento per inidoneità fisica o psichica del lavoratore[4].

L’individuazione dei limiti entro i quali si può dire integrato il giustificato motivo oggettivo sono particolarmente rilevanti. Infatti, quando ne viene accertata l’insussistenza, il licenziamento comminato risulta illegittimo e il lavoratore ha diritto a ottenere le tutele offertegli dalla legge[5].

Le garanzie offerte al lavoratore, in caso di licenziamento illegittimo, sono profondamente mutate in questi ultimi anni. 

Fino al 2012, l’illegittimità del licenziamento per motivo oggettivo era sempre sanzionata – per i rapporti di lavoro rientranti nel campo di applicazione dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori – con la condanna del datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore, oltre al risarcimento integrale del danno retributivo e al versamento dei contributi previdenziali per il periodo intercorrente tra il momento del licenziamento e quello della reintegrazione[6]

La riforma del mercato del lavoro del 2012 ha apportato una prima, sostanziale modifica a questo regime sanzionatorio, introducendo una disciplina che, invece di tutelare in ogni caso la stabilità del rapporto lavorativo, modula le sanzioni comminabili al datore di lavoro a seconda della gravità del vizio che inficia il licenziamento, limitando la reintegrazione a un novero ristretto di ipotesi[7].

In particolare, il nuovo art. 18 della legge 300/1970, così come modificato dalla c.d. legge Fornero, prevede che, in caso di invalidità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il giudice può ordinare la reintegrazione del lavoratore in 3 soli casi:

  1. allorché accerti “la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo”;
  2. in caso di licenziamento intimato per motivo oggettivo consistente nell’inidoneità fisica o psichica del lavoratore;
  3. in caso di licenziamento intimato nel periodo di comporto.

    In tutti gli altri casi, invece, al lavoratore illegittimamente licenziato spetta una tutela esclusivamente economica. 

Le suddette garanzie valgono, peraltro, per i soli lavoratori assunti presso datori di lavoro che superano le soglie dimensionali previste dall’art. 18 (unità produttiva con più di 15 lavoratori, o più di 5 se si tratta di imprenditore agricolo, o più di 60 dipendenti in totale).

Al di sotto di tali soglie, trova invece applicazione il più blando regime di tutela previsto dall’art. 8 della legge 604/1966, così come sostituito dall’art. 2 della legge 108/1990, che riconosce al lavoratore illegittimamente licenziato il solo diritto a percepire un indennizzo economico[8].

Il progressivo depotenziamento delle tutele offerte ai lavoratori in caso di licenziamento ingiusto ha di recente raggiunto il suo apice, con l’approvazione del Decreto legislativo 23/2015, in tema di “contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti”, attuativo della legge delega 183 del 2014 (c.d. Jobs Act), che ha introdotto nel nostro ordinamento un nuovo regime sanzionatorio da applicarsi in caso di licenziamento illegittimo; regime che, per espressa indicazione del legislatore, troverà applicazione nei confronti di tutti i lavoratori assunti a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto (7 marzo 2015)[9]

La nuova disciplina continua a distinguere tra lavoratori assunti presso imprese che superano le soglie numeriche fissate dall’art. 18 e lavoratori assunti presso datori di lavoro che non raggiungono dette soglie. Rispetto alla disciplina previgente, tuttavia, il decreto legislativo 23/2015 si segnala per una significativa riduzione delle garanzie riconosciute ai lavoratori, in particolare in ragione della sostanziale diminuzione delle ipotesi in cui il giudice può ordinare la reintegrazione nel posto di lavoro del dipendente illegittimamente licenziato. In particolare, per quanto riguarda il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il decreto prevede che il giudice possa ordinare la reintegrazione del lavoratore (assunto presso un’impresa di maggiori dimensioni) nel solo caso in cui il giudice accerti il difetto di giustificazione per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore[10].

 

  • Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo: dalla ragione economica alla ragione organizzative

Si tratta di stabilire se al di là delle ragioni economiche anche una ragione esclusivamente organizzativa sia di per sé sufficiente ad integrare uno degli estremi della fattispecie del licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

E nel principio di diritto enunciato nella motivazione di una recentissima sentenza della Cassazione 7 dicembre 2016 n. 25201 trova riconoscimento la definizione di giustificato motivo organizzativo distinto da quello economico. Infatti, si afferma che “è sufficiente che le ragioni inerenti all’attività produttiva e all’organizzazione del lavoro determinino un effettivo mutamento dell’assetto organizzativo attraverso la soppressione di una individuata posizione lavorativa”[11].

E tra “le ragioni” la Suprema Corte “non esclude anche quelle dirette ad una migliore efficienza gestionale ovvero ad un incremento della redditività dell’impresa”. E ancora nel principio di diritto enunciato in questa motivazione si conferma implicitamente quanto affermato da un’altra recente sentenza del 28/09/2016 n. 19185 secondo la quale il giustificato motivo oggettivo “organizzativo” rileva a condizione che il licenziamento sia la conseguenza e non la causale del riassetto organizzativo[12].

E tuttavia quest’ultima sentenza ha elevato “la soppressione del posto” a rango di primo presupposto del giustificato motivo oggettivo senza preoccuparsi di verificare le ragioni del riassetto organizzativo che sono alla base della soppressione del posto, mentre la sentenza del 7 dicembre 2016, da un lato, riafferma il controllo da parte del giudice della veridicità e della sussistenza della causale economica, (se) addotta dall’imprenditore a monte della scelta espulsiva, e dall’altro, al di fuori di tale ipotesi, per la soppressione di una individuata posizione lavorativa ritiene che “la ragione organizzativa e produttiva che determina il ridimensionamento del personale” possa identificarsi nell’effettivo mutamento dell’assetto organizzativo[13].

Orbene questa motivazione può prestarsi a qualche osservazione e puntualizzazione. In primo luogo la motivazione esclude che l’andamento economico negativo dell’azienda costituisca presupposto fattuale che il datore di lavoro debba necessariamente provare e il giudice accertare e però per contro afferma che ove il licenziamento sia stato motivato richiamando l’esigenza di fare fronte a situazioni economiche sfavorevoli ovvero a spese notevoli di carattere straordinario, e in giudizio si accerti che la ragione indicata non sussiste, il recesso può risultare ingiustificato per una valutazione in concreto sulla mancanza di veridicità e sulla pretestuosità della causale addotta dall’imprenditore[14].

Ma a ben riflettere non è affatto persuasivo che lo stesso fatto possa assumere o non assumere rilevanza causale e quindi diventare un requisito della fattispecie a seconda che sia menzionato o non menzionato nella lettera di intimazione del licenziamento. Inoltre nel principio di diritto si afferma anche che è sufficiente che “le ragioni inerenti all’attività produttiva e all’organizzazione del lavoro tra le quali non è possibile escludere quelle dirette ad una migliore efficienza gestionale ovvero ad un incremento della redditività dell’impresa, determinino un effettivo mutamento dell’assetto organizzativo attraverso la soppressione di una individuata posizione lavorativa” In altri termini la sentenza, in alternativa alla ragione economica, da verificare così come addotta dal datore di lavoro nei suoi presupposti fattuali, individua la ragione di tipo organizzativo nell’effettivo riassetto organizzativo o nella migliore efficienza gestionale ovvero in un incremento della reddittività dell’impresa ma esonera il datore di lavoro dall’onere di indicare i parametri e criteri oggettivi che consentano al giudice di verificare l’effettività e la veridicità delle ragioni alla base della soppressione del posto e quindi del licenziamento Sotto questo profilo quindi la sentenza sembra accogliere la tesi della mera non pretestuosità del licenziamento[15].

Ne consegue che: – solo ove il datore di lavoro adduca una ragione economica alla base della soppressione del posto, il giudice è legittimato a verificare la veridicità e la sussistenza di questa causale; – ove invece il datore di lavoro adduca una ragione di tipo organizzativo alla base della soppressione del posto, il giudice deve limitarsi ad accertare la modifica della struttura organizzativa (che può identificarsi nella ridistribuzione delle mansioni o soppressione della funzione alla quali era addetto il lavoratore, o nell’esternalizzazione della sua attività a terzi, o nella innovazione tecnologica che rende superfluo il suo apporto), perché è lo stesso riassetto organizzativo, nelle motivazioni della Corte, la ragione di cui l’imprenditore deve fornire la prova[16].

È però fin troppo evidente, a fronte di questa impostazione interpretativa, che da oggi in poi qualunque imprenditore si guarderà bene dall’indicare le ragioni economiche alla base del licenziamento, per non cadere sotto la scure dell’accertamento del giudice, ma si limiterà a dedurre genericamente nella lettera di licenziamento l’esistenza di un riassetto organizzativo alla base del licenziamento (ad es.: effettiva soppressione o ridistribuzione delle funzioni e mancata assunzione di altri lavoratori).

D’altra parte, come si è detto, la sentenza omette (forse volutamente) di indicare parametri e criteri oggettivi che consentano al giudice di accertare la veridicità e la effettiva sussistenza delle ragioni organizzative addotte dal datore di lavoro per timore che il suo sindacato possa essere considerato di merito.

Ma a questo proposito si deve chiarire una volta per tutte che il sindacato sulla sussistenza e veridicità delle ragioni “organizzative” addotte dall’imprenditore per giustificare la soppressione del posto non deve essere confuso con il sindacato di merito sulla congruità delle scelte dell’imprenditore, perché in quest’ultimo caso si tratterebbe di un controllo discrezionale non consentito, mentre nel primo caso il controllo del giudice è di legittimità e quindi non solo è consentito, ma doveroso ai sensi dell’art. 3 della legge n. 604 del 1966[17].

In altre parole la sentenza, pur conferendo dignità normativa al requisito organizzativo in sé e per sé considerato, mediante il richiamo a categorie non valutabili esclusivamente dal punto di vista economico, quali la “migliore efficienza gestionale” che determini “la soppressione di una posizione lavorativa”, come si è detto , non ha enucleato, consapevolmente o inconsapevolmente criteri idonei per individuare tale ragione organizzativa, in assenza dei quali il riassetto organizzativo rischia di appiattirsi tautologicamente sulla mera soppressione del posto, che invece dovrebbe costituire la conseguenza della ragione organizzativa (e con ciò finendo per tradire la stessa interpretazione letterale della norma, che si riferisce alla “ragione” che determina la soppressione del posto/licenziamento)[18].

In tale ottica pertanto appare opportuno individuare alcuni possibili parametri di identificazione della ragione organizzativa, per evitare che tale presupposto nasca ab origine svuotato di contenuto e che si traduca in ciò che la Corte afferma di non volere, ossia “un recesso ad nutum frutto di scelte autosufficienti ed insindacabili dell’imprenditore” (cfr. ancora Cass. n. 25201/2016, p. 13)[19].

In realtà solo l’uso di criteri e parametri oggettivi esclude che il controllo del giudice diventi di merito ovvero una semplice ratifica notarile della decisione del datore di lavoro di sopprimere il posto di lavoro. E ancora, l’uso di tali criteri e parametri evita che il giustificato motivo oggettivo in nome del riassetto organizzativo, diventi una sorta di licenza al datore di lavoro di sopprimere con assoluta discrezionalità posti di lavoro, risultando sufficiente l’accertamento della veridicità della soppressione del posto di lavoro. Se così fosse si avvalorerebbe la tesi della mera non pretestuosità del licenziamento, che qui si contesta perché in ultima analisi potrebbe tradursi in una sorta di licenziamento ad nutum mascherato e neppure oneroso[20].

 

  • Extrema ratio o “normale” licenziamento economico?

Gli orientamenti giurisprudenziali in precedenza descritti – ed in particolare quello più restrittivo – possono essere meglio compresi se si analizzano le interpretazioni della dottrina in materia di gmo. La tesi prevalente – che si formò particolarmente dopo l’emanazione della l. 300/1970 – fu quella secondo la quale il licenziamento economico dovesse essere inteso come extrema ratio e cioè quale “rimedio ultimo e necessitato per soddisfare esigenze di impresa di carattere organizzativo e produttivo non altrimenti risolvibili”[21]. Questa interpretazione venne fondata innanzitutto sulle innovazioni apportate dalla introduzione dello statuto dei lavoratori.

Infatti, l’art. 18 di questa legge, con la previsione della reintegrazione, e più in generale con tutta la nuova disciplina garantistica (l’intero statuto e soprattutto il suo titolo I) avevano particolarmente rafforzato l’interesse del lavoratore alla conservazione del posto di lavoro ed imponevano, quindi, una lettura diversa della disposizione, con “un forte spostamento della ‘frontiera mobile’ tra libertà di organizzazione dell’impresa, da un canto, utilità sociale, dall’altro”[22].

In sostanza “l’iniziativa economica…deve ora fare i conti con un bene (quello corrispondente all’interesse del lavoratore al mantenimento dell’occupazione) dotato di una forza di resistenza prima sconosciuta”. Con la conseguenza che non appariva “più proponibile quella posizione interpretativa che, limitando il giudizio sulla ricorrenza del giustificato motivo obiettivo ad una valutazione di coerenza del provvedimento di licenziamento rispetto alle esigenze aziendali addotte a sua motivazione, finiva (e finisce) per riconoscere a tali esigenze esclusivamente la funzione di garantire…la non arbitrarietà dell’esercizio del potere”[23].

Impostazione, quest’ultima, seguita ad esempio da Giuseppe Pera “sulla base di una visione che privilegia in termini incondizionati il valore costituzionale della libertà di iniziativa economica”[24].

Questa interpretazione del gmo venne accolta da molti studiosi di grande autorevolezza. Essa, a mio giudizio, vede nell’art. 18 e nello statuto dei lavoratori una disciplina che inserisce l’interesse alla conservazione del posto di lavoro nella causa del contratto, senza modificarne la struttura tradizionale, ma qualificandola in modo particolare e limitando di conseguenza in modo consistente il potere di licenziamento[25].

Tale lettura, inoltre, considera il nuovo sistema sanzionatorio e, più in generale le tutele garantite al lavoratore dalla l. n. 300 del 1970, come strumenti che impongono un bilanciamento tra iniziativa economica privata ed utilità sociale tale da far prevalere soprattutto il secondo aspetto e da legittimare una interpretazione che determina “la più penetrante incisione sul potere di organizzazione imprenditoriale”[26].

Altra parte della dottrina giunse alle medesime conclusioni utilizzando soprattutto i principi costituzionali (in particolare l’art. 41, comma 2, e 4, comma 1, Cost.), con una analisi che privilegia il valore dell’occupazione su quello dell’iniziativa economica privata e configura il licenziamento per gmo come una situazione di necessità economica (il recesso appunto come extrema ratio)[27].

Ovviamente vi sono state anche diverse letture delle norme costituzionali, tendenti a leggere in modo differente il loro contenuto o privilegiando il comma 1 dell’art. 41 Cost., rispetto al comma 2 o all’art. 4 Cost.

Inoltre sono state sviluppate teorie di contenuto assai diverso. Senza alcuna pretesa di completezza e limitandosi solo a quelle più recentemente espresse, vanno ricordate quelle basate sul principio dell’abuso del diritto, sulla “perdita attesa” (in chiave di Law and Economics), sulla proporzionalità e razionalità degli atti imprenditoriali o di proporzionalità “in senso stretto” ed altre ancora[28].

Alcune di queste teorie pur con percorsi argomentativi diversi, giungono a conclusioni analoghe a quelle espresse dalla dottrina più risalente nel tempo in tema di extrema ratio, mentre altre sono chiaramente dissonanti. A mio giudizio, tuttavia, la giurisprudenza è stata fortemente influenzata dalle teorizzazioni espresse dagli anni ’70 in poi, quando viene enunciato e gradatamente si consolida il principio del gmo già descritto. Queste conclusioni sono state oggi radicalmente messe in discussione dal nuovo indirizzo giurisprudenziale meno restrittivo già esistente da tempo e confermato da Cass. 25201/2016, anche se, come si vedrà, alcune tracce di queste interpretazioni della dottrina sono ancora presenti[29].

La interpretazione qui proposta, come si è visto, conduce a conclusioni molto diverse da quella espresse dalla Cassazione con la sentenza n. 25201/2016 e già descritta in precedenza.

Le conclusioni recentemente espresse dalla Suprema Corte sono tuttavia condivise da una parte della dottrina.

Queste tesi si fondano su argomentazioni che devono essere analizzate, anche se, come si vedrà, alcune obiezioni sono già desumibili da quanto si è sostenuto in precedenza. Esse, comunque, in coerenza con Cass. n. 25201/2016, sono tutte accomunate dall’idea che, in ogni caso, il gmo presuppone la soppressione del posto di lavoro.

Questa affermazione, peraltro, si espone ad alcune considerazioni critiche. La prima osservazione è che, come si è giustamente osservato, in tal modo si fa coincidere la ragione economica o organizzativa (la causa del recesso) con l’effetto (l’eliminazione della posizione organizzativa), con una tesi che “risolve il requisito del GMO in una sorta di tautologia precettiva, per cui la giustificazione del licenziamento si rinviene nella soppressione del posto, cioè nello stesso licenziamento”[30].

La tesi mi sembra incontestabile, visto che senza dubbio la soppressione è la conseguenza di una scelta imprenditoriale basata su ragioni economiche, graduabili da quelle più stringenti (come una grave crisi) a quelle meno restrittive (ad es. la volontà di ridurre, seppure in misura ridotta, i costi di gestione), ma che si collocano prima e al di fuori della soppressione stessa. Considerazioni analoghe si possono fare quando la eliminazione del posto deriva da una riorganizzazione degli uffici (per aumentarne l’efficienza), dalla introduzione di una tecnologia labour saving, dalla esternalizzazione di un settore aziendale per diminuire oneri economici e/o incrementare la qualità del lavoro.

Anche in queste situazioni vi sono sempre esigenze aziendali “a monte” a cui consegue la soppressione, che, secondo la tesi qui criticata, diventa invece elemento autosufficiente per legittimare il recesso[31].

La tautologia contenuta nella interpretazione descritta è ben colta da una autorevole dottrina, che rileva come, ai fini del gmo, non è sufficiente il venir meno dell’interesse imprenditoriale alla prosecuzione del rapporto, ma occorre “invece che il datore di lavoro realizzi una scelta organizzativa la cui attuazione implica la soppressione del posto di lavoro che legittima il licenziamento”[32].

Questa teoria poi predica la insindacabilità di tale scelta e di fatto giunge alle stesse conclusioni della interpretazione qui criticata.

Tuttavia essa coglie una contraddizione che caratterizza il nuovo orientamento giurisprudenziale e che non mi sembra possa essere superata. Vi è poi una ulteriore considerazione.

Di fatto, nella misura in cui la soppressione del posto è il gmo e le ragioni che ne sono a fondamento sono un elemento estraneo alla fattispecie – appartenente ad una sfera intangibile delle prerogative imprenditoriali su cui non è possibile indagare – si viene a far coincidere il recesso economico con una scelta rimessa alla pura volontà del datore di lavoro[33].

E’ sufficiente che il posto venga espunto dall’organizzazione perché il licenziamento sia legittimo, con un controllo giurisdizionale che può spingersi solo a verificare la effettività della situazione affermata dall’impresa e la sua non pretestuosità, che si avrebbe quando, al contrario, la “vera” ragione del recesso sarebbe diversa (atti illeciti o discriminatori; cause connesse a comportamenti disciplinarmente rilevanti del lavoratore).

In questo modo, tuttavia, si viene a realizzare una perfetta simmetria tra assunzione e licenziamento economico. Nel primo caso la legge affida al datore di lavoro una piena libertà, non chiedendogli di giustificare in alcun modo la ragione per cui decide di dare vita ad una nuova posizione organizzativa in azienda e regolando solo le tipologie contrattuali utilizzabili (la maggior parte delle quali, tra l’altro, sono del tutto “acausali”). Qui, dunque, l’ordinamento giuridico non prevede alcuna forma di controllo[34].

Le ragioni economiche ed organizzative dell’assunzione, che certamente sussistono, non interessano la legge e sono insindacabili. Se il recesso economico si identifica con la soppressione del posto, si viene a realizzare la stessa situazione simmetricamente contraria.

La scelta di eliminare la posizione organizzativa è di per sé giustificativa dell’interruzione del contratto di lavoro, come l’assunzione legittima la sua costituzione. Tuttavia, nel caso del licenziamento, il potere di recesso non è “acausale” come l’assunzione, ma presuppone alcuni requisiti tipizzati dalla legge[35].

L’effetto paradossale sarebbe quello per cui due poteri (di creazione ed eliminazione del posto di lavoro), pur essendo soggetti a requisiti completamente diversi, verrebbero totalmente parificati, nonostante la legge li regoli in modi completamente differenti.

In realtà, in questo caso l’unica distinzione tra assunzione e recesso economico sarebbe che nel secondo vi è il repechage, che altererebbe la simmetria tra le due ipotesi.

Ma sembra difficile poter ridurre l’art. 3 della l. 604/1966 soltanto a tale aspetto, che certamente non attiene alle ragioni a fondamento del licenziamento ma riguarda un elemento ulteriore, connesso alla mancanza di una vera e propria soppressione del posto se vi è una possibile occupazione alternativa[36].

Questa equiparazione di fatto tra due istituti così diversi è un ulteriore elemento di criticità della interpretazione esaminata e recentemente accolta dalla giurisprudenza della Cassazione.

Le argomentazioni descritte sono di per sé sufficienti a confutare la tesi qui contestata. Senza dimenticare che essa non spiega perché vi sia la necessità della soppressione del posto di lavoro. Tale caratteristica, può trovare fondamento esclusivamente nella teoria della extrema ratio[37].

Mi sembra, peraltro, che altre considerazioni possano essere espresse nei confronti delle argomentazioni utilizzate dalla interpretazione criticata in questa sede. Si è sostenuto che la formulazione letterale dell’art. 3 della l. 604/1966 non contiene “alcun riferimento lessicale atto a consentire una rilevanza e una ‘selezione’ delle causali che hanno indotto la modifica organizzativa, tale che solo alcune e non altre legittimerebbero il licenziamento”.

Questa tesi, peraltro, dimentica che anche in passato, a parità di contenuto della disposizione, si sarebbe dovuti arrivare alla medesima conclusione, che è invece stata rifiutata in base ad una interpretazione sistematica della norma letta con altre disposizioni. Anche oggi il contenuto dell’art. 3 deve essere definito alla luce di dati extratestuali, per mezzo di una lettura costituzionalmente orientata e utilizzando anche l’art. 24 della CSE.

Si afferma, poi, che nella disposizione sul gmo mancherebbero quelle formulazioni, contenute nelle discipline vigenti in Spagna e Francia, che legittimano il recesso economico in presenza di elementi che specificano la qualità e quantità delle causali economiche ed organizzative (“perdita attuale o prevista”, “riduzione persistente degli utili o delle vendite” per un determinato periodo temporale; “calo delle commesse o del volume di affari”; impossibilità di un licenziamento “dettato da finalità di mero miglioramento del profilo finanziario” ecc.)[38].

Il legislatore italiano, invece, non ha operato in tale modo. Dunque, ragionando “a contrario”, si dovrebbe ritenere che “le finalità a monte della causale tecnica, organizzativa e produttiva” non dovrebbero avere alcun rilievo in chiave interpretativa, mentre, nella normativa nazionale, mancherebbe un dato testuale che attribuisca rilevanza ad “un requisito tipizzato e aggiuntivo rispetto alla mera soppressione del posto”[39].

Si può replicare che le “finalità” – intese come scopi che il datore di lavoro persegue con il recesso – sono irrilevanti. Occorre solo verificare se in effetti sussistono le ragioni economiche ed organizzative previste dall’art. 3 della l. 604/1966. La legge non parla di soppressione del posto che è un requisito desumibile da una interpretazione restrittiva della disposizione e non può, quindi, essere considerato come un elemento della fattispecie rispetto alla quale le causali organizzative sono un fattore “tipizzato e aggiuntivo”[40].

La soppressione è uno dei requisiti in cui si estrinsecano le “ragioni” previste dall’art. 3. La comparazione tra disciplina nazionale e quelle proprie di Francia e Spagna non consente di affermare che tra esse sussiste una differenza strutturale.

In entrambi i casi, infatti, il licenziamento deve basarsi su causali oggettive la cui esistenza consente il recesso economico. L’unica distinzione è che in Italia esse sono formulate in forma generica (con una norma a “fattispecie aperta”) e senza una casistica dettagliata che ne individui in modo più specifico il contenuto.

D’altra parte far coincidere le “ragioni” economiche ed organizzative con la soppressione del posto – come sostiene questa interpretazione – si presta alle critiche già analizzate in precedenza. Un altro argomento a favore della tesi in questa sede non accolta sarebbe rinvenibile nella differenza tra gmo e disciplina dei licenziamenti collettivi. In quest’ultimo caso vi è una netta distinzione tra la causale organizzativa e i “motivi” alla base della situazione di eccedenza, che devono essere comunicati alle organizzazioni sindacali. Questa distinzione non è presente nell’art. 3 della l. 604/1966. I secondi, dunque, sono privi di rilievo, rispetto alla “soppressione del posto e al conseguente licenziamento”[41].

In verità i “motivi” contenuti nell’art. 4, c. 3, della l. 223/1991 altro non sono che la esplicitazione delle “ragioni” previste dall’art. 24 della medesima legge (“riduzione o trasformazione di attività o lavoro”) o, in caso di ricorso alla cigs, dal c. 1 dell’art. 4 (“non essere in grado di garantire il reimpiego a tutti i lavoratori sospesi e di non poter ricorrere a misure alternative”).

In definitiva, poiché le causali organizzative previste dalla legge sono generiche, in sede di consultazione sindacale si chiede semplicemente di esprimere in forma dettagliata e connessa alla specifica realtà aziendale in cui vi è l’esubero quali sono le “ragioni” previste dalla legge[42].

In sostanza si impone al datore di lavoro di “dare contenuto” a formule legislative astratte (così come, nel gmo, si chiede di concretizzare, in quell’impresa, quanto è astrattamente previsto dall’art. 3 l. 604/1966). Dunque, alla differenza semantica non corrisponde una diversa concettualizzazione.

Ai sindacati bisogna spiegare “perché” si licenzia, nei limiti delle condizioni che legittimano il recesso e che sono tipizzate dalla legge. Nulla di più o di meno. E l’informativa non può che riguardare le ragioni di crisi o di carattere organizzativo che consentono la riduzione di personale[43].

La conferma di quanto si sta asserendo può essere rinvenuta nell’analisi della giurisprudenza relativa alla informativa sindacale ai sensi dell’art. 4 della l. 604/1966. Le motivazioni delle sentenze nelle quali si valuta la completezza e la veridicità dei “motivi” comunicati ai sindacati dimostrano come essi siano perfettamente coincidenti con la descrizione delle causali organizzative che legittimano la eccedenza di mano d’opera. In senso parzialmente diverso, ma con un evidente collegamento a quanto sostenuto in relazione ai licenziamenti collettivi, si ritiene che un controllo sulle ragioni a fondamento del licenziamento significherebbe valorizzare i “motivi” del recesso. Tuttavia essi hanno rilievo soltanto in casi eccezionali, come nell’ipotesi del licenziamento discriminatorio di rappresaglia o pretestuoso.

Pertanto non avrebbero spazio “motivi… ulteriori rispetto alla causale oggettiva”.

In verità le “ragioni” espresse nell’art. 3 della l. 604/1966 sono appunto condizioni oggettive di legittimazione del recesso che nulla hanno a che vedere con “intenti” personali del datore di lavoro che esprimono finalità vietate dalla legge in modo espresso (come nel caso delle discriminazioni) o in senso generale (come nel motivo illecito, in quanto in contrasto con norme imperative, ordine pubblico o buon costume)[44].

Ancora una volta si sovrappongono istituti giuridici diversi. Quando la legge subordina l’esercizio dei poteri imprenditoriali a presupposti di legittimità di carattere economico organizzativo (si pensi, ad esempio al trasferimento di un lavoratore) impone soltanto la valutazione sulla loro esistenza, senza che possano assumere rilievo ragioni personali del datore di lavoro diverse dalla causale oggettiva[45].

Ed anche in questo caso il controllo del giudice non può fermarsi alla verifica dell’effettivo mutamento di sede del lavoratore ma si estende alle ragioni tecnico produttive che ne sono a fondamento.

Si afferma, inoltre, che consentire il licenziamento solo in presenza di una grave crisi economica permetterebbe di modificare l’organizzazione del lavoro solo in questo caso e non anche “per prevenire o contenere una crisi incombente o per ottimizzare l’efficienza o la competitività dell’impresa”[46]. In realtà non è così. La “necessità” del recesso – che non implica, come si sostiene, la presenza di una situazione di “tracollo” dell’impresa – può essere giustificata anche in tali ipotesi, purché vi siano i requisiti rigorosi già descritti, che possono riguardare sia la volontà di evitare una possibile crisi futura sia la necessità di preservare la competitività dell’impresa. L’unica differenza è che, in questo caso, l’onere probatorio a carico dell’impresa può essere più difficile, ma certo non impossibile alla luce delle acquisizioni proprie delle scienze ragionieristiche ed aziendali.

Queste ultime, infatti, sono in grado di individuare, con elevato grado di probabilità, quali fattori possono incidere, in futuro, sulla profittabilità e redditività dell’impresa (in relazione a costi industriali, oneri finanziari, possibile evoluzione del mercato ecc.).

Chi ha consuetudine con la lettura dei bilanci e dei documenti ad essi allegati (Nota integrativa, Relazione sulla gestione ecc.) può agevolmente rendersi conto della realtà di quanto si sta affermando, perché in essi si trova non solo la descrizione dell’esistente ma anche la individuazione delle misure necessarie a risolvere le situazioni di crisi o difficoltà, con giudizi prognostici sulle possibili evoluzioni negative dell’andamento aziendale e sulle misure da intraprendere per prevenire tali conseguenze[47].

Si sostiene, poi, che sarebbe difficile “adottare parametri di riferimento oggettivi e condivisi attraverso cui misurare il carattere contingente o meno di una crisi economica”[48].

Una tesi che non considera come, al contrario, la giurisprudenza abbia, con una elaborazione ormai pluridecennale, proprio consentito di individuare tali “parametri” (ad es. la permanenza, per un certo periodo temporale di bilanci negativi, una consistente riduzione della liquidità, un eccessivo indebitamento bancario ecc.) che sono enucleabili, tra l’altro, proprio dall’acquisizione delle scienze aziendalistiche già citate. Una riprova evidente di quanto si sta sostenendo è rinvenibile proprio nelle enunciazioni contenute nelle legislazioni di altri paesi europei dove sono utilizzate nozioni analoghe a quelle descritte e che sono frutto appunto della esperienza concreta e delle elaborazioni delle scienze citate[49].

Vi è poi una ulteriore considerazione. In molti altri settori del diritto, la legge affida al giudice un controllo analogo a quello richiesto per il gmo. Basti pensare, nell’ambito del Diritto fallimentare, alla valutazione dei requisiti per essere ammessi a procedure concorsuali, in assenza, anche in questa ipotesi di una tipizzazione normativa di casi specifici. In tale ambito, ad es., il fallimento presuppone “lo stato di insolvenza”, che “si manifesta con l’inadempimento o altri fatti esteriori, i quali dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni” (art. 5, R. D. n. 267/1942).

Si è in presenza, anche in questo caso, di una “norma aperta” o di una clausola generale”. con nozioni generiche – non molto dissimili da quelle espresse nell’art. 3 della l. 60471966 – che presuppongono una integrazione interpretativa da parte della giurisprudenza, che si è puntualmente verificata con una casistica assai dettagliata. Non a caso gli orientamenti in materia fallimentare si esprimono in termini di una “situazione d’impotenza, non transitoria, a soddisfare le proprie obbligazioni, dipendente dalla inadeguatezza delle risorse attive rispetto alle esposizioni debitorie” (T. Cagliari 31 marzo 2013 n. 56)[50].

Si sostiene, inoltre, che essa non è esclusa “dalla circostanza che l’attivo superi il passivo e che non esistono conclamati inadempimenti esteriormente apprezzabili” (Cass. 27 marzo 2014, n. 7252) e può sostanziarsi in fattori ulteriori desumibili “dai dati dell’esperienza economica”[51].

Non si comprende perché ciò che è possibile nel Diritto fallimentare o commerciale dovrebbe essere escluso in ambito lavoristico. Si ritiene che “ove la crisi riguardi un solo settore o reparto aziendale, e non altri, viceversa redditivi, all’imprenditore resterebbe preclusa la soppressione del settore deficitario e dei relativi posti di lavoro”[52].

In verità la giurisprudenza ha da tempo ammesso che la situazione di crisi possa essere limitata soltanto ad una parte dell’azienda e che, quindi, la necessità del licenziamento possa riguardare soltanto i lavoratori ad essa addetta169. In questo caso la settorialità della crisi assume rilievo in relazione ai posti di lavoro da sopprimere, mentre l’andamento positivo di altri settori aziendali può avere valore in rapporto al possibile repechage.

Si afferma che “il recesso dal contratto in generale è legittimato soltanto dalla impossibilità sopravvenuta ‘non imputabile’ a chi recede o dalla eccessiva onerosità sopravvenuta; nel g.m.o. di licenziamento nulla evoca la necessità della non imputabilità, della sopravvenienza, della imprevedibilità, della straordinarietà o della eccessività, tipiche, appunto, delle causali risolutive di diritto comune; ciò che induce ad escludere la rilevanza di ‘qualificazioni’ ulteriori della causale organizzativa”.

Si può obiettare che il recesso, quale potere unilaterale di interruzione del contratto, segue logiche diverse dai rimedi sinallagmatici dei contratti. Infatti esso può essere esercitato ad nutum, anche in assenza di inadempimento (artt. 1373; 2118; 1671 c.c.) o per la sussistenza di una giusta causa (art. 2119) ed a prescindere dai fattori sopra indicati, che sono, quindi, privi di qualsiasi rilievo euristico[53].

D’altra parte il licenziamento è un recesso soggetto alle “ragioni” previste da una legge speciale. E’ all’interno di tale normativa – integrata da fonti esterne (Costituzione, altre fonti primarie, eventuali disposizioni dei contratti collettivi) – che occorre trovare la definizione del suo contenuto, a prescindere dalle caratteristiche proprie della risoluzione o della rescissione dei contratti.

In senso più generale si afferma che l’art. 3 della l. 604/1966 è una norma che “’limita’ il principio di stabilità, facendo prevalere su di esso l’interesse dell’imprenditore a dimensionare liberamente la propria iniziativa economica”, con una disposizione sbilanciata a “tutela dei valori attinenti al sistema di produzione, senza che a questi fini rilevi l’interesse antagonistico del lavoratore, che recupera uno spazio solo a ridosso del c.d. obbligo di repechage[54].

Una prima osservazione: in considerazione del fatto che la disposizione del 1966 è rimasta immutata occorrerebbe quanto meno spiegare come sia possibile che un numero assai elevato di studiosi assai autorevoli, seguiti da consistenti orientamenti giurisprudenziali, abbia espresso opinioni esattamente contrarie.

A meno di non ritenere che si sia in presenza di un enorme “abbaglio collettivo”, si deve ritenere che l’art. 3 consente una lettura completamente alternativa a quella proposta, in base a indici normativi diversi.

E non è un caso che, in realtà, l’interpretazione più restrittiva sia fondata proprio sulla esistenza di un interesse alla conservazione del posto di lavoro, che trovava nello statuto dei lavoratori numerose conferme[55].

Oggi il quadro normativo è cambiato ed occorre trovare una nuova ragione giustificativa della extrema ratio[56].

Mi sembra peraltro impossibile non confrontarsi con questa evoluzione e proporre in modo apodittico una lettura della disposizione senza confrontarsi con l’insieme delle regole giuridiche desumibili dal sistema.

In realtà, come si è visto, una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 3 della l. 604/1966, oltre che al contenuto dell’art. 24 della CSE, comportano una soluzione opposta a quella qui criticata.

La necessità del licenziamento economico basata su quest’ultima disposizione ed imposta anche dal bilanciamento tra principio lavoristico desumibile dalla Costituzione e iniziativa economica privata non consente di accogliere la tesi contraria alla extrema ratio[57].

E non vi è dubbio che, a parte le obiezioni sopra indicate, sia proprio l’assenza del rilievo del “vincolo interpretativo costituzionale” e del contenuto di fonti pattizie europee (recepite nel nostro ordinamento) il limite più grande della interpretazione contraria, con un giudizio estensibile anche alla recente sentenza della Cassazione n. 25201/2016[58].

Si è sottolineato come la soluzione adottata recentemente dalla Cassazione legittima “una scelta sostanzialmente autoreferenziale del datore di lavoro” totalmente libero di riorganizzare la propria impresa e licenziare “senza che a ciò osti la presenza o meno di ulteriori variabili economico – aziendali e senza considerazione dei controinteressi del lavoratore”. Tale conclusione, peraltro, sarebbe giustificate dai valori propri del “modo di produzione capitalistico: l’efficienza, la razionalità, l’economicità”[59].

E soltanto una cultura ispirata dalla “diffidenza ideologica nei confronti di tali valori nonché della produttività e dell’utilità aziendale, maturata negli anni ’70, ma certo poco attuale in un sistema globalizzato e altamente competitivo” poteva giustificare conclusioni oggi non più attuali[60].

In verità si può obiettare che far coincidere il gmo con una scelta assolutamente libera del datore di lavoro è in contrasto con la tecnica legislativa di sottoporre il potere imprenditoriale a ragioni tecnico organizzative sindacabili dal giudice, la cui esistenza… sarebbe inspiegabile se il titolare del contratto di lavoro potesse operare a suo piacimento[61].

D’altra parte i valori della “efficienza, razionalità economicità” devono essere contemperati con quelli del lavoro, almeno fino a quando l’ordinamento nazionale ed europeo continuano a ritenere che la tutela della subordinazione costituisca ancora uno scopo fondamentale della regolazione giuridica.

Soltanto la totale obliterazione di questo assetto assiologico dei sistemi giuridici contemporanei può condurre a ritenere che l’interesse dell’impresa debba costituire l’unico elemento di riferimento per l’interpretazione di istituti, come la tutela contro il licenziamento ingiustificato, che sono sorti con la finalità di proteggere il lavoratore dinanzi alle scelte economiche ed organizzative dell’impresa e non per assecondare sempre e comunque le decisioni assunte dal datore di lavoro.

Tra le ragioni poste a fondamento della tesi più “liberista”, la Cassazione, con la sentenza 25201/2016, utilizza anche l’argomento che la interpretazione contraria si tradurrebbe, di fatto, in un controllo “sulla congruità ed opportunità della scelta organizzativa”, estraneo all’art. 3 della l. 604/1966 ed inibito dalla normativa vigente[62].

 

  • Giustificato motivo oggettivo di licenziamento e controllo giudiziario/insindacabilità nel merito delle scelte economico-organizzative

Il comma 43 dell’art. 1, modificando la legge n. 183 del 2010 (c.d. Collegato lavoro), precisa che l’inosservanza, da parte del giudice, delle disposizioni in materia di limiti al sindacato di merito sulle valutazioni di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro, costituisce motivo di impugnazione della sentenza per violazione di norme di diritto[63].

 

Per valutare la disposizione occorre approfondire, per un verso, il complesso dibattito sulle clausole generali e, sotto altro profilo, ricordare il dibattito sul primo comma dell’art. 30 del Collegato lavoro.

Il legislatore italiano, nell’art. 30 della legge n. 183/2010, annovera il giustificato motivo tra le clausole generali. Ma la qualificazione è tutt’altro che scontata. Parte della dottrina giuslavoristica, infatti, preferisce optare per l’inquadramento nell’ambito delle norme generali[64].

Orientamento che prende le mosse dall’insegnamento di Mengoni che opera una distinzione tra “norma generale” e “clausola generale”.

La norma generale, secondo Mengoni “è una norma completa, costituita da una fattispecie e da un comando, ma la fattispecie non descrive un singolo caso o un gruppo di casi, bensì una generalità di casi genericamente definiti, mediante una categoria riassuntiva, per la cui concretizzazione il giudice è rinviato volta a volta a modelli di comportamento e a stregue di valutazione obiettivamente vigenti nell’ambiente sociale in cui opera (…).

Questa tecnica legislativa lascia al giudice un margine maggiore di discrezionalità, e così ammette un cero spazio di oscillazione della decisione; ma si tratta di una discrezionalità di fatto, non di una discrezionalità produttiva o integrativa di norme” [65]. Le clausole generali, viceversa, “sono norme incomplete, frammenti di norme; non hanno una propria autonoma fattispecie, essendo destinate a concretizzarsi nell’ambito dei programmi normativi di altre disposizioni (…)[66].

Nell’ambito normativo in cui si inserisce la clausola generale introduce un criterio ulteriore di rilevanza giuridica, a stregua del quale il giudice seleziona certi fatti o comportamenti per confrontarli con un determinato parametro e trarre dall’esito del confronto certe conseguenze giuridiche, sovente ai fini dello scioglimento di antinomie sorte in quell’ambito”.

La distinzione, malgrado l’autorevolezza dell’Autore, lascia perplessi per due motivi. In primo luogo, perché non vi è insuperabile ostacolo logico a costruire anche le clausole generali in termini di giudizio ipotetico e quindi di norma logicamente completa[67].

In secondo luogo, perché l’attributo di norma incompleta potrebbe darsi ad ogni norma di organizzazione “per es. l’insieme di norme regolanti il procedimento collegiale, perché sempre destinata a riempirsi di contenuti variabili nei casi concreti”[68].

Peraltro, un autorevole orientamento60, rifiutando la distinzione tra norma generale e clausola generale, ha teorizzato una concezione ampia della clausola generale come “norma a fattispecie aperta”; concezione che, nell’elaborazione giurisprudenziale, ha finito per prevalere.

Ciò non toglie che il contributo di MENGONI sia estremamente prezioso sotto diversi profili. Basti pensare all’affermazione della trasformazione delle clausole generali, da norme di rinvio (ad altre norme), a norme direttiva “che delegano al giudice la formazione della norma (concreta) di decisione vincolandolo a una direttiva espressa attraverso il riferimento a uno standard sociale”[69].

Con questa affermazione (nello studio delle clausole generali) si passa dal tema dell’inquadramento nelle fonti del diritto a quello, strettamente connesso, del controllo giudiziale e dei poteri creativi del giudice[70].

Una tesi molto diffusa ritiene, infatti, che le norme contenenti nozioni indeterminate equivalgano a deleghe in bianco, date dal legislatore al giudice, il quale dovrebbe completare la norma rifacendosi a norme tecniche o a norme tratte dalla morale sociale. L’idea della delega in bianco, però, non regge in un ordinamento complesso (e in rete) quale quello contemporaneo contenente una grande quantità di disposizioni di principio, sancite in fonti interne (prima di tutto la Costituzione) ed esterne (l’ordinamento dell’Unione Europea e le convenzioni internazionali)[71].

In sostanza, secondo una corrente di pensiero che è stata definita di “giuspositivismo moderato”, l’interpretazione delle clausole generali deve avvenire, in primo luogo, con criteri di interpretazione sistematica, cioè ricorrendo a principi e valori riconosciuti dall’ordinamento positivo.

Il contributo della Corte di Cassazione, in questo contesto, è stato estremamente significativo.

La Suprema Corte, fin dal 1998, ha elaborato, infatti, una serie di principi (in tema di giusta causa) che devono servire da guida per l’operatore di diritto[72].

In particolare, la Corte ha chiarito che: a) Nell’esprimere il giudizio di valore necessario per integrare una norma elastica “il giudice di merito compie un’attività di interpretazione giuridica e non meramente fattuale della norma stessa (…) in quanto da concretezza a quella parte mobile (elastica) della stessa che il legislatore ha voluto tale per adeguarla ad un determinato contesto storico sociale, non diversamente da quanto dal lavoratore un determinato comportamento viene giudicato conforme o meno a buona fede allorchè la legge richieda tale elemento”; b) Tale “giudizio valutativo – e quindi di integrazione giuridica – del giudice del merito deve (…) conformarsi oltre che ai principi dell’ordinamento, individuati dal giudice di legittimità, anche ad una serie di standards valutativi esistenti nella realtà sociale che assieme ai predetti principi compongono il diritto vivente, ed in materia di rapporti di lavoro la c.d. civiltà del lavoro”; c) “la valutazione di conformità – agli standards di tollerabilità dei comportamenti lesivi posti in essere dal lavoratore – dei giudizi di valore espressi dal giudice di merito per la funzione integrativa che essi hanno delle regole giuridiche spetta al giudice di legittimità nell’ambito della funzione nomofilattica che l’ordinamento ad esso affida”[73].

Si tratta di affermazioni di grande rilievo in cui si coglie la valorizzazione dei c.d. standards valutativi esistenti nella realtà sociale che insieme ai principi generali offrono supporto (e legittimazione) all’attività di integrazione giuridica della norma posta in essere dal giudice di merito.

E la “conformità ai principi generali dell’ordinamento”, non a caso, è ribadita nell’art. 30 del Collegato lavoro. Il riferimento ai principi generali opera, in realtà, in duplice direzione. La prima è, come si è tentato di chiarire, una funzione integrativa e (sotto distinto profilo) legittimante l’interpretazione del giudice. La seconda è certamente una funzione di limite. In sistemi a costituzione rigida (come la nostra) c’è un limite alla possibilità di assumere nell’ordinamento giuridico ciò che è ritenuto socialmente tipico: il dato non deve confliggere con i principi, in primo luogo con quelli di natura costituzionale[74].

Il problema si pone, però, quando due principi, di rango costituzionale, entrano in conflitto fra di loro (si pensi alla libertà d’impresa, tutelata dall’art. 41 della Cost., con l’interesse del lavoratore, tutelato dall’art. 4 della Cost.). In questi casi, com’è noto, occorre effettuare un bilanciamento tra i principi istituendo tra i due principi in conflitto una gerarchia assiologica mobile.

Una gerarchia assiologica “consiste nell’accordare ad uno dei due principi confliggenti un maggior peso, ossia un maggior valore, rispetto all’altro; (…) in questo contesto bilanciare non significa contemperare, conciliare (…). Il bilanciamento consiste piuttosto nel sacrificare o scartare un principio, applicando l’altro”. Una gerarchia mobile, d’altro lato, “è una relazione di valore instabile, mutevole, che vale per il caso concreto, ma che potrebbe invertirsi in relazione ad un caso concreto diverso. (…) Per conseguenza, il conflitto non è risolto stabilmente, una volta per tutte, facendo senz’altro prevalere uno dei due principi confliggenti sull’altro; ogni soluzione del conflitto vale solo per il caso concreto, e resta pertanto imprevedibile la soluzione dello stesso conflitto in casi futuri”[75].

E tale bilanciamento, con riferimento alle fattispecie concrete, non può che essere rimesso al giudice o, meglio, al dialogo tra le Corti (dei diversi ordinamenti integrati che compongono l’Unione europea) che possono “al tempo stesso condividere ed applicare alcuni principi universali e comuni e trovare le soluzioni più adeguate ed idonee per i singoli casi”[76].

 

  • Il giustificato motivo oggettivo pretestuoso

Anche le ragioni dirette ad una migliore efficienza gestionale ovvero ad un incremento della redditività dell’impresa e che determinino un effettivo mutamento dell’assetto organizzativo attraverso la soppressione di un posto di lavoro possono legittimare il licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo[77].

A evidenziarlo è la Corte di Cassazione nella recente sentenza n. 25201 del 2016: quali gli impatti?[78]

Il giustificato motivo oggettivo di licenziamento (GMO) dopo la sentenza della Cassazione 7 dicembre 2016, n. 25201 può essere identificato con riferimento ai diversi profili che, secondo le contrastanti opinioni, concorrono o meno a configurare la fattispecie di cui l’art. 3, legge 10 giugno 1966, n. 604.

Tali profili possono essere accorpati in tre nuclei essenziali:

  1. a) quello centrale delle decisioni organizzative;
  2. b) quello che ne costituisce l’antecedente logico, cioè le motivazioniche inducono il datore di lavoro ad assumere tali decisioni;
  3. c) l’ultimo, relativo al nesso causaleche lega la decisione organizzativa con il licenziamento[79].

Al riguardo della soppressione del posto di lavoro, la posizione assunta dalla Cassazione (7 dicembre 2016, n. 25201) è chiara: “ai fini della legittimità del licenziamento individuale intimato per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’art. 3 della Iegge n. 604 del 1966, l’andamento economico negativo dell’azienda non costituisce un presupposto fattuale che il datore di lavoro debba necessariamente provare ed il giudice accertare, essendo sufficiente che le ragioni inerenti all’attività produttiva ed all’organizzazione del lavoro, tra le quali non è possibile escludere quelle dirette ad una migliore efficienza gestionale ovvero ad un incremento della redditività dell’impresa, determinino un effettivo mutamento dell’assetto organizzativo attraverso la soppressione di una individuata posizione lavorativa”[80].

Ciò significa che il licenziamento per GMO è legittimo quando la decisione del datore di lavoro che incide sull’organizzazione della produzione o del lavoro ha come effetto la soppressione di un posto di lavoro, essendo irrilevanti le motivazioni che hanno indotto il datore di lavoro a prendere tale decisione, in quanto – molto semplicemente – tali motivazioni non sono riconducibili alla fattispecie dell’art. 3, legge 604/1966 che autorizza il licenziamento per GMO.

Non è, però, sufficiente per configurare il GMO evocare nella lettera di licenziamento la soppressione del posto di lavoro, ma occorre indicare la decisione organizzativa (oggettivamente verificabile) che a monte determina tale soppressione[81].

La precisazione non è di poco conto, come dimostra la giurisprudenza (v., da ultimo, Cass. 28 settembre 2016, n. 19185) che applica questo concetto per indagare in concreto la legittimità del licenziamento per GMO, ribadendo “la necessità di verificare il rapporto di congruità causale fra la scelta imprenditoriale e il licenziamento, nel senso che non basta che i compiti un tempo espletati dal lavoratore licenziato risultino essere stati distribuiti ad altri, ma è necessario che tale riassetto sia all’origine del licenziamento anziché costituirne mero effetto di risulta (cfr. in tal senso Cass. n. 24502/11).

Infatti, se tale redistribuzione fosse un mero effetto di risulta (e non la causale del licenziamento) si dovrebbe concludere che la vera ragione del licenziamento risiede altrove e non in un’esigenza di più efficiente organizzazione produttiva”[82].

La soppressione del posto di lavoro non implica necessariamente il venir meno dell’attività svolta dal dipendente licenziato, infatti, tale l’attività potrebbe essere: a) smembrata per essere ripartita tra più lavoratori; b) oppure svuotata di alcune componenti per essere affidata ad un diverso dipendente con mansioni inferiori; c) ma anche, all’inverso, arricchita e, quindi, attribuita a chi è inquadrato in un livello superiore; d) o, infine, dismessa (in tutto o in parte) e conferita a terzi con l’incarico – oggetto di un contratto di appalto o di lavoro autonomo o di collaborazione continuativa – di eseguire un’opera o un servizio con un effetto equivalente sul piano del risultato.

In tutti questi casi viene meno, però, quello specifico posto di lavoro, inteso come articolazione dell’organizzazione produttiva di cui il datore di lavoro si avvaleva e che viene modificata dal licenziamento per GMO.

La sussistenza del GMO deve, poi, essere verificata per escludere la pretestuosità delle ragioni organizzative addotte per motivare il licenziamento[83].

Pretestuosità da indagare sostanzialmente con riferimento a due ipotesi: la prima diretta, quando si palesano di fatto insussistenti le ragioni comunicate nella lettera di licenziamento o il loro carattere strutturale; la seconda indiretta, derivante dall’interruzione del nesso di causalità che si manifesta quando, pur a fronte della (reale) soppressione del posto di lavoro, sarebbe stato possibile il ripescaggio fisiologico del lavoratore di cui si dirà subito dopo[84].

A ciò deve aggiungersi la lungimirante indicazione della Cassazione (nella citata sentenza 25201/2016) per la quale “ove però il licenziamento sia stato motivato richiamando l’esigenza di fare fronte a situazioni economiche sfavorevoli ovvero a spese notevoli di carattere straordinario ed in giudizio si accerti che la ragione indicata non sussiste, il recesso può risultare ingiustificato per una valutazione in concreto sulla mancanza di veridicità e sulla pretestuosità della causale addotta dall’imprenditore”[85].

In questo caso la pretestuosità è indotta dalla falsità dei motivi indicati dal datore nella lettera di licenziamento a supporto delle ragioni organizzative che ne sono la causa.

Quanto al repechage, anzi al ripescaggio, la giurisprudenza ha costruito questo concetto fondandosi sulla tesi del licenziamento per GMO come extrema ratio e, quindi, legittimo soltanto in assenza di un’alternativa al mantenimento del posto di lavoro. In questa prospettiva si spiega la dilatazione del ripescaggio: prima circoscritto alle mansioni equivalenti, poi anche a quelle inferiori, quindi ad ogni posizione lavorativa dislocata all’interno dell’azienda, anche in rapporti di lavoro ad orario ridotto o, addirittura, in altre società appartenenti allo stesso gruppo[86].

Ma nel momento in cui il licenziamento per GMO non opera più come extrema ratio a seguito dei recenti sviluppi legislativi che sostituiscono alla tutela dell’interesse alla conservazione del posto di lavoro, quello ad una nuova occupazione nella quale reimpiegare utilmente il lavoratore, il ripescaggio deve essere riconsiderato quanto al suo inquadramento sistematico ed al suo ambito applicativo, per verificare se il ripescaggio possa operare alla stregua di una prova di resistenza a cui sottoporre la legittimità del GMO con riferimento al collegamento tra le ragioni produttive od organizzative e la soppressione del posto di lavoro da esse determinato[87].

In questa prospettiva il ripescaggio consentirebbe di verificare se la ragione organizzativa e la conseguente soppressione del posto di lavoro siano in concreto la causa efficiente, cioè effettiva e reale del licenziamento del dipendente e ciò sarebbe escluso quando l’utilizzazione del lavoratore in un’altra mansione si prospetti come conseguente al fisiologico ed ordinario esercizio dei poteri organizzativi e direttivi così come in quel contesto aziendale sono di norma agiti dal datore di lavoro[88].

In questo caso, infatti, verrebbe meno il collegamento tra la scelta organizzativa ed il licenziamento, emergendo in modo trasparente che la soppressione del posto (realmente avvenuta) è stata assunta a pretesto dal datore di lavoro per licenziare il dipendente.

Appare, quindi, possibile distinguere un ripescaggio fisiologico da uno illimitato e, per le ragioni più sopra esposte, solo il primo sembra riconducibile alla fattispecie del GMO[89].

Nel tentativo di prevenire l’obiezione di estrema vaghezza del concetto ora espresso, appare opportuno precisare l’ambito fisiologico del ripescaggio che si può misurare assumendo come parametro l’art. 2103 cod. civ. e le possibilità previste da tale norma in ordine al mutamento di mansioni[90].

Non c’è dubbio, infatti, che mentre lo spostamento a mansioni appartenenti allo stesso livello di inquadramento (art. 2103, comma 1) costituisce una modalità ordinaria di esercizio del potere direttivo in quanto non richiede alcuna giustificazione causale, nessuna forma né il rispetto di specifiche condizioni, lo spostamento a mansioni inferiori invece rappresenta, in un caso, una modalità di esercizio di tale potere connotata da evidenti tratti di specialità (art. 2103, comma 2) e, nell’altro, l’oggetto di una pattuizione da concludere in forme tipiche che ne segnalano la singolarità (art. 2103, comma 6)[91].

Del resto appare difficile immaginare che da una norma recentemente modificata dal legislatore (art. 3, D.lgs. 81/2015) con la finalità di ampliare il potere direttivo il cui esercizio resta sempre rimesso all’apprezzamento del datore di lavoro, si possa estrarre un precetto che, integrando la disciplina del GMO, imporrebbe l’esercizio coattivo di tale potere (incompatibile con la stessa struttura giuridica di un potere) per la legittimità del licenziamento (in tal senso cfr., da ultimo, Cass., 9 novembre 2016, n. 22798 e Cass., 21 dicembre 2016, n. 26467).

Un ragionamento analogo può essere fatto anche con riferimento al patto modificativo delle mansioni previsto dall’art. 2103, comma 6, cod. civ. che costituisce pur sempre un atto di esercizio dell’autonomia individuale. Nella prospettiva del ripescaggio, l’assegnazione consensuale a mansioni inferiori sarebbe imposta, negandone così la sua natura pattizia, in quanto al datore di lavoro – che intenda procedere ad un licenziamento per GMO – verrebbe addossato l’onere di proporre preventivamente al dipendente la stipula del patto (v. ancora le citate sentenze della Cassazione 22798/2016 e 26467/2016)[92].

Seguendo questa tesi, il GMO non solo dovrebbe essere preceduto dal tentativo preventivo di conciliazione ex art. 7, l. 604/1966, ma anche da una proposta contrattuale che, si badi bene, dovrebbe avere un contenuto opposto a quello richiesto dal legislatore per il predetto tentativo di conciliazione che, come già segnalato, sollecita lo stesso datore di lavoro a prospettare “misure di assistenza alla ricollocazione del lavoratore interessato” in vista di una risoluzione consensuale del rapporto di lavoro e del successivo reimpiego del lavoratore[93].

Peraltro un riscontro alle osservazioni accennate si può rinvenire in tutte quelle norme   (si tratta delle disposizioni contenute negli art. 4, comma 4, l. 12 marzo 1999, n. 68, art. 42, comma 1, D.lgs., 9 aprile 2008, n. 81, ma anche nell’art. 15, comma 1, D. lgs., 8 aprile 2003, n. 66) che, a garanzia del dipendente divenuto inidoneo allo svolgimento delle mansioni, subordinano il licenziamento alla prova dell’impossibilità di assegnare tale dipendente non più abile ad altre mansioni, anche inferiori[94].

Orbene il tratto distintivo di queste disposizioni – connaturato alla loro finalità di apprestare una tutela rafforzata a fronte di specifici interessi particolarmente meritevoli – verrebbe meno ed esse si omologherebbero sostanzialmente al GMO se, anche in questo caso, il ripescaggio dovesse riguardare le mansioni inferiori[95].

 

 

[1] Per un’originale ricostruzione del gmo e del cosiddetto repechage nei termini della sua eccessiva onerosità sopravvenuta e per una critica alla trasposizione lavoristica della “impossibilità sopravvenuta” cfr. L. Calcaterra, La giustificazione oggettiva del licenziamento. Tra impossibilità sopravvenuta ed eccessiva onerosità, Napoli, 2009, specie p. 55 ss, 139 ss., 313 ss.; P. Ichino, Sulla nozione di giustificato motivo oggettivo di licenziamento, in Riv. it. dir. lav., 2002, I, 472; L. Levante, Il licenziamento per motivo oggettivo tra diritto ed economia, in Mass. Giur. Lav., 2016, p. 418; M. Marinelli, I licenziamenti per motivi economici, Torino, 2005 e M. Ferraresi, Il giustificato motivo oggettivo. Dalla legge 604 del 1966 al contratto a tutele crescenti, Torino, 2016.

[2] Cfr. G. Pacchiana Parravicini, Il giustificato motivo oggettivo di licenziamento, in F. Galgano, Trattato di diritto commerciale e diritto pubblico dell’economia, Cedam. Padova, 2005, pp. 143-144; C. Pisani, Il giustificato motivo di licenziamento e le incertezze della giurisprudenza, in Mass. Giur. Lav., 2016, p. 445 ss.

[3] Cfr. Valente, Il licenziamento per motivo oggettivo tra diritto ed economia, in Mass. Giur. Lav.., 2016, p. 417.

[4] Vedi A. Perulli, Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, Giappichelli, 2017, p. 19 ss.

[5] Cfr. G. Santoro Passarelli, Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo e l’ambito della tutela risarcitoria, in Arg. Dir. lav., 2013, p. 239 ss.

[6] Cfr. A. Perulli, op. cit., p. 26 ss.

[7] Vedi Valente, op. cit., p. 417 ss.

[8] Cfr. M. T. Carinci, op. cit., pp. 143-144.

[9] Vedi, a tal riguardo, A. Perulli, op. ult. cit., p. 23 ss.

[10] Per le radici storiche, cfr. L. Mengoni, La stabilità dell’impiego nel diritto italiano, in AA. VV., La stabilità dell’impiego nel diritto dei Paesi membri Ceca, Servizio pubblicazioni CE, 1958, p. 279.

[11] Sul tema, vedi G. Santoro-Passarelli, Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo: dalla ragione economica alla ragione organizzativa, in A. Perulli. Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, Giappichelli, 2017, pp. 111-117.

[12] G. Santoro-Passarelli, op. cit., p. 112.

[13] G. Santoro-Passarelli, op. cit., p. 113.

[14] G. Santoro-Passarelli, op. cit., p. 115.

[15] Vedi anche V. Speziale, Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, in corso di pubblicazione.

[16] G. Santoro-Passarelli, op. ult. cit., p. 115.

[17] A. Perulli, op. cit., p. 116.

[18] G. Santoro-Passarelli, op. ult. cit., p. 116.

[19] Vedi, ancora, A. Perulli, op. ult. cit., p. 117.

[20] G. Santoro-Passarelli, op. ult. cit., p. 112.

[21] V. Nuzzo, La norma oltre la legge. Causali e forma del licenziamento e l’interpretazione del giudice, Napoli, 2012, p. 101 s.

[22] V. Speziale, La giurisprudenza del lavoro ed il diritto vivente sulle regole interpretative, in Dir. lav. Rel. Ind, 2008, p. 613 ss.

[23] C. Ponterio, La valutazione del giudice e il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, in Questione Giustizia, 2016, p. 2 ss.

[24] S. Varva, Giurisprudenza e licenziamento economico, p. 1 ss.

[25] C. Ponterio, La valutazione del giudicecit., p. 3.

[26] C. Ponterio, Il nuovo orientamento della Cassazioneop. ult. cit., p. 2 ss.

[27]  G. F. Mancini, Statuto dei diritti dei lavoratori, Zanichelli, 1972, p. 267.

[28] F. Liso, La mobilitàop. cit., p. 75.

[29] M. Persiani, La tutela dell’interesse del lavoratore alla conservazione del posto, Cedam, Padova, 1971, p. 685 ss.

[30] T. Treu, Statuto dei lavoratori e organizzazioneop. cit., p. 1051.

[31] P. Ichino, op. ult. cit., p. 472 ss.

[32] A. Perulli, Razionalità e proporzionalità nel diritto del lavoro, in Dir. lav. Rel. Ind., 2005, p. 1 ss.

[33] O. Mazzotta, Ragioni del licenziamento e formazione culturale del giudice del lavoro, Giappichelli, Torino, 2008, p. 62 ss.

[34] Del Punta, Disciplina del licenziamento e modelli organizzativi delle impreseop. cit., p. 704.

[35] M. Ferraresi, op. ult. cit., p. 10 ss.

[36] R. De Luca Tamajo, Sulla nozione di giustificato motivo oggettivo, p. 6.

[37] A. Maresca, Il giustificato motivo oggettivo di licenziamento: il prius, il posterius ed il nesso causale, p. 21.

[38] M. Persiani, op. ult. cit., p. 18.

[39] R. Romei, op. cit., p. 6.

[40] A. perulli, op. ult. cit., p. 4 ss.

[41] A. Maresca, op. ult. cit., p. 2 ss.

[42] M. Luciani, Interpretazione conforme a Costituzione, in Enc. Dir., Giuffrè, Milano, 2016, p. 391.

[43] M. Napoli, Costituzione, lavoro, pluralismo sociale, in Vita e pensiero, 1998, p. 7.

[44] M. Benvenuti, Lavoro, in Enc. Giur. Treccani, vol. XVIII, 2009, p. 12 ss.

[45] M. Ferraresi, op. ult. cit., pp. 63-64.

[46] C. Salazar, Alcune riflessioni sul lavoro, in Pol. Dir., 1995, p. 3 ss.

[47] I. Massa Pinto, Costituzione e lavoro, in Costituzionalismo.it, 3/2012, p. 3.

[48] G. U. Rescigno, Lavoro e Costituzione, in Dif. Pen., 2009, p. 21 ss.

[49] C. Ponterio, op. ult. cit., pp. 5-8.

[50] R. Romei, op. ult. cit., p. 4-5.

[51] L. Nogler, La disciplina dei licenziamenti individuali, in Dir. lav. Rel. Ind., pp. 602, 611, 613.

[52] A. Maresca, op. ult. cit., pp. 12-13.

[53] S. Varva, op. ult. cit., p. 69.

[54] M. Marrazza, op. ult. cit., p. 10.

[55] R. De Luca Tamajo, op. ult. cit., p. 6.

[56] R. De Luca Tamajo, op. cit., p. 8.

[57] A. Maresca, op. ult. cit., pp. 8-9.

[58] R. Del Punta, op. ult. cit., p. 2.

[59] A. Perrulli, op. ult. cit., p. 28 ss.

[60] P. Ichino, op. ult. cit., p. 19.

[61] B. Caruso, La fattispecie di giustificato motivo oggettivo, p. 5.

[62] R. De Luca Tamajo, op. ult. Cit., p. 4 ss.

[63] N. Frasca, L’insindacabilità delle scelte del datore nel licenziamento per gmo, in Lav. Giur., 2016, p. 580.

[64] M. V. Ballestrero, Giustificazione oggettiva e sindacato del giudiceDiritto e processo del lavoro, Utet, Torino, 2013.

[65] M. Pallini, L’utilità sociale come limite interno al potere di licenziamento?, in Riv. dir. lav., 2012, II, p. 90.

[66] G. Pera, I licenziamenti nell’interesse dell’impresa, Giuffè, Milano, 1968.

[67] V. S. Brun, Il licenziamento economico tra esigenze dell’impresa e interesse della stabilità, Cedam, Padova, 2012, p. 31.

[68] S. Brun, op. cit., p. 22-23.

[69] S. Brun, op. ult. cit., p. 23.

[70] M. N. Bettini, La nozione di licenziamento per giustificato motivo oggettivo fra tutela del lavoratore e ragioni d’impresa, Editoriale scientifica, 2017, p. 291.

[71] G. Bucarella, Licenziamento per giustificato motivo oggettivo e limiti al sindacato giudiziale, in Orient. Giur. Lav., 2005, p. 341 ss.

[72] G. Pera, op. cit., p. 11 ss.

[73] A. Vallebona, op. cit., p. 318.

[74] G. Bulgarini D’Elci, Giustificato motivo oggettivo e controllo giudiziale, in Guida lav., 2011, n. 6, p. 34.

[75] P. Pizzuti, L’incremento della produttività giustifica il licenziamento, in Riv. it. dir. lav., 2016, II, 293.

[76] M. V. Ballestrero, op. cit., p. 65.

[77] A. Perulli, op. ult. cit., p 217 ss.

[78] F. Bianchi D’Urso, op. ult. cit., p. 78.

[79] M. Napoli, La stabilità reale del rapporto di lavorocit., p. 54.

[80] A. Perrulli, op. ult. cit., p. 41.

[81] A. Perrulli, op. cit., p. 45.

[82] S. Bertea, Certezza di diritto e argomentazione giuridica, Rubbettino, 2002, p. 68.

[83] M. Napoli, op. ult. cit., p. 67-69.

[84] S. Brun, op. ult. cit., p. 45.

[85] M. Ferraresi, op. ult. cit., p. 78.

[86] M. Marrazza, op. ult. cit., p. 34.

[87] M. Napoli, op. cit., p. 23.

[88] R. De Luca Tamajo, op. ult. Cit., p. 78.

[89] A. Perrulli, op. cit., p. 217 ss.

[90] M. Persiani, op. ult. cit., p. 45.

[91] M. Napoli, op. ult. cit., p. 56.

[92] C. Zoli, I licenziamenti per ragioni organizzative: unicità della causale e sindacato giudiziale, in Arg. Dir., p. 45.

[93] C. Zoli, op. cit., p. 42 ss.

[94] A. Perrulli, op. ult. cit., p. 56.

[95] A. Perrulli, op. cit., p. 57.

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