19/01/2019 – In house providing: Palazzo Spada interpella Lussemburgo sulla compatibilità col diritto unionale della disciplina nazionale più restrittiva

In house providing: Palazzo Spada interpella Lussemburgo sulla compatibilità col diritto unionale della disciplina nazionale più restrittiva

di Domenico Irollo – Commercialista/revisore contabile/pubblicista

Il Consiglio di Stato ha sottoposto al vaglio della Corte di Giustizia UE due questioni pregiudiziali concernenti la normativa italiana in materia di società in house ed affidamento diretto a tali organismi anche dei servizi disponibili sul mercato in regime di concorrenza, considerati i dubbi sulla sua compatibilità col diritto unionale, rispetto al quale la legislazione interna è maggiormente restrittiva, caratterizzandosi per una posizione di evidente disfavore verso l’utilizzo di tale modello gestionale e di assoluta preferenza invece per gli affidamenti mediante gara ad evidenza pubblica.

Più precisamente, con l’ordinanza di rimessione n. 138 del 2019 in commento, Palazzo Spada punta il dito contro due disposizioni, ossia quelle di cui agli articoli:

4, comma 1, D.Lgs. 19 agosto 2016, n. 175, recante il Testo Unico in materia di società a partecipazione pubblica, con cui si stabilisce che “le amministrazioni pubbliche non possono, direttamente o indirettamente, costituire società aventi per oggetto attività di produzione di beni e servizi non strettamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali, né acquisire o mantenere partecipazioni, anche di minoranza, in tali società”. Nella causa a quo, all’esame del Supremo Consesso della G.A., veniva difatti contestata la decisione di un Comune del teatino (Lanciano) di affidare senza gara la gestione del servizio igiene urbana ad una s.p.a. co-partecipata (unitamente ad altre municipalità di quel territorio). Più precisamente, la ditta appellante, già ricorrente in primo grado, tra le altre censure addotte, obiettava il fatto che lo statuto della partecipata, contemplando anche la figura dei cd. “soci non affidanti”, ossia meri finanziatori al solo scopo di conseguire utili – e come tali non titolati a partecipare ad appositi Comitati, organi sociali atipici previsti dallo stesso statuto della s.p.a. per consentire ai soci “affidanti” l’esercizio del controllo “analogo”, inteso come influenza determinante sia sugli obiettivi strategici che sulle decisioni significative della persona giuridica controllata – contrasterebbe con il dettato del citato art. 4, comma 1, del T.U. delle partecipate pubbliche, ponendo pertanto il sodalizio in parola al di fuori dello schema dell’in house, il solo che rende possibile l’affidamento diretto senza gara. Il CdS – contrariamente al Collegio di prime cure che aveva invece respinto la censura, osservando come non potesse escludersi che alla partecipazione di un ente in qualità di “socio non affidante” potesse seguire in un secondo momento un affidamento del proprio servizio di igiene urbana previa acquisizione del controllo “analogo” congiunto – ha ritenuto in linea di principio fondata la doglianza, atteso che la semplice possibilità che l’acquisto del controllo “analogo” congiunto e l’affidamento diretto possano intervenire in futuro sembra non corrispondere al criterio della “stretta necessarietà – evidentemente da considerare come attuale e non come meramente ipotetica e futura – che appare imposto dal richiamato art. 4, comma 1. Così interpretata tuttavia tale ultima previsione normativa sembra chiaramente collidente con il disposto dell’art. 12, par. 3, Direttiva n. 2014/24/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 febbraio 2014 sugli appalti pubblici, che nello stabilire le condizioni per procedere all’affidamento diretto di appalti pubblici nel caso di controllo analogo congiunto da parte di più PP.AA. ammette finanche che la compagine della persona giuridica controllata sia aperta alla partecipazione di capitali privati purché non comporti loro controllo o potere di veto. A fortiori, non ci sarebbero perciò ragioni, in base alla normativa sovranazionale di riferimento, per escludere, come invece fa la normativa italiana, che l’in house a controllo “analogo” congiunto possa sussistere anche in un assetto societario corrispondente a quello della s.p.a. in rassegna, che contempla la partecipazione al capitale di amministrazioni pubbliche che non esercitino controllo o poteri di veto e non effettuino affidamenti diretti;

192 del Codice dei contratti pubblici D.Lgs. n. 50 del 2016 nella parte in cui (comma 2), oltre ai tre presupposti comunitari per gli affidamenti diretti a enti in house, riportati nel menzionato art. 12, par. 3, Direttiva 2014/24/UE il cui contenuto è stato trasfuso nell’art. 5, comma 6, dello stesso CCP, impone anche una valutazione sulla congruità economica delle offerte, avuto riguardo all’oggetto e al valore della prestazione, dando conto nella motivazione del provvedimento di affidamento delle ragioni del mancato ricorso al mercato, anche con riferimento agli obiettivi di universalità e socialità, di efficienza, di economicità e di qualità del servizio, nonché di ottimale impiego delle risorse pubbliche. Nel giudizio a quo, l’appellante denunciava che le delibere dell’ente locale con cui era stato disposto l’affidamento diretto a favore della s.p.a. partecipata non rispettavano i requisiti di motivazione rafforzata richiesti dalla cennata disposizione nazionale. Anche questa doglianza è stata ritenuta dal CdS in tesi condivisibile, in contrasto con le statuizioni sul punto dei Giudici di primo grado, e tuttavia il Supremo Collegio pure stavolta dubita della compatibilità con il diritto unionale del parametro normativo interno di riferimento, che di fatto relega l’affidamento in regime di delegazione interorganica a mera “eccezione” rispetto alla regola generale dell’affidamento a terzi mediante gara ad evidenza pubblica, e dunque ad un ruolo giuridicamente subordinato e subvalente, trattandosi di soluzione percorribile soltanto in caso di “fallimento del mercato” di riferimento e a condizione che l’amministrazione dimostri in modo puntuale gli specifici benefici per la collettività connessi a tale forma di gestione; ciò a fronte, per converso, della sostanziale equivalenza, per il diritto dell’UE, fra le diverse forme di approvvigionamento di interesse delle amministrazioni, di cui è diretta espressione il Considerando 5 della Direttiva n. 2014/24/UE, cit., che ribadendo la piena libertà per le amministrazioni pubbliche nell’organizzare i servizi e le attività di proprio interesse secondo le modalità operative e gestionali ritenute più adeguate, sottolinea in maniera inequivocabile che “nessuna disposizione della presente direttiva obbliga gli Stati membri ad affidare a terzi o a esternalizzare la prestazione di servizi che desiderano prestare essi stessi o organizzare con strumenti diversi dagli appalti pubblici ai sensi della presente direttiva”.

Cons. di Stato, Ord., 7 gennaio 2019, n. 138

Art. 192D.Lgs. 18 aprile 2016, n. 50 (G.U. 19 aprile 2016, n. 91, S.O.)

Art. 4D.Lgs. 19 agosto 2016, n. 175 (G.U. 8 settembre 2016, n. 210)

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