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Legittimo licenziare il lavoratore per sopravvenuta inidoneità fisica se non ricollocabile
 Federica Scordino13 –
Il “repechage” non si spinge fino ad obbligare il datore di lavoro a modificare l’assetto organizzativo interno della propria azienda.
 martedì 24 dicembre 2019
 
Sommario: 1. Premesse; 2. Sentenza n°27502/2019; 3. Il temperamento del legislatore.
       1.       Premesse
L’art. 2094 c.c.[1] fornisce la definizione di lavoratore subordinato, contenendo quelli che sono i principali aspetti che caratterizzano e contraddistinguono il lavoro subordinato da quello autonomo. Nel tempo, molti istituti attinenti al rapporto di lavoro subordinato hanno generato dubbi giurisprudenziali non sempre di facile risoluzione. Dal rapporto di lavoro subordinato è possibile separare infatti gli obblighi ricadenti in capo al datore di lavoro e quelli rispettivamente spettanti al prestatore di lavoro tra i quali emerge la responsabilità della corretta esecuzione della propria prestazione. Sulla base di questa relazione giuridica tra lavoratore e datore di lavoro e partendo dalle responsabilità attribuite al lavoratore subordinato, si può cercare di cogliere la scelta della Corte di Cassazione espressa nella sentenza n°27502 del 2019[2], la quale conferma la legittimità del licenziamento del lavoratore per sopravvenuta inidoneità fisica qualora non sia ricollocabile.
È fondamentale partire da due premesse; la prima consiste nell’analizzare, in tema di prestazione di lavoro, la riforma incisiva in chiave garantistica che è stata introdotta dallo Statuto dei Lavoratori, riguardante le varie ipotesi di mobilità del lavoratore. Andando con ordine, occorre ricordare che precedentemente il legislatore, nell’attribuire il potere al datore di lavoro circa la possibilità di modificare l’oggetto del contratto di lavoro subordinato cioè poter modificare la prestazione attribuita al lavoratore, vietava la possibilità di adibire il lavoratore a mansioni inferiori; consentiva invece l’adibizione a mansioni equivalenti, infatti sul concetto di equivalenza si è anche generato un ampio dibattito giurisprudenziale alla fine del quale è prevalsa l’opinione secondo cui il concetto di equivalenza non è tanto riferito alla omogeneità della retribuzione, quanto invece rivolto alla equivalenza professionale. In sostanza secondo l’art. 2103 c.c.[3], nella sua versione statutaria, al datore era consentito di modificare le mansioni purchè tale modifica rispettasse il bagaglio di perizia ed esperienza che costituiva il nucleo del patrimonio professionale del lavoratore. Quest’ultimo principio è stato confermato nella sentenza 25033/2006[4] della Corte di Cassazione la cui pronuncia forniva una lettura dell’art. 2103 c.c. in linea con la ratio statutaria che voleva rafforzare la protezione della dignità del lavoratore. Naturalmente, l’adibizione a mansioni equivalenti sarebbe avvenuta senza alcuna riduzione della retribuzione. Il disegno riformatore dell’art. 2103 c.c. era completato con il tratto dell’inderogabilità della disciplina garantita dalla eventuale nullità di ogni patto contrario alla disposizione normativa. Il vero punctum dolens consisteva nel coordinare la rigidità dovuta al principio dell’inderogabilità con eventuali esigenze che, lungi dal penalizzare la posizione del lavoratore, ne assecondassero la volontà (perché ad es. lo stesso lavoratore, magari per ragioni di salute, gradiva l’adibizione a mansioni inferiori) o corrispondono all’interesse alla conservazione del rapporto di lavoro. A tal proposito, vi sono state significative aperture giurisprudenziali verso la valorizzazione del potere delle parti di concordare una modificazione in pejus delle mansioni, in presenza di una sopravvenuta inidoneità del lavoratore allo svolgimento delle precedenti mansioni, per ragioni di salute o allo scopo di evitare un licenziamento per giustificato motivo oggettivo ovvero addirittura in presenza di una mera richiesta del lavoratore. Erano interpretazioni correttive della norma, alla luce di una sorta di gerarchia di valori (la salute, la tutela dell’occupazione), cui avrebbe dovuto cedere il tratto dell’inderogabilità. Questo intento fu comunque confermato da una serie di interventi che introducevano esplicitamente varie deroghe all’art. 2103 c.c., ad es. sancendo la legittimità di adibire a mansioni inferiori della lavoratrice in stato di gravidanza. L’art. 2103 c.c. è stato per ultimo modificato dall’art. 3 del D. Lgs. n° 81/2015[5] emanato dal governo Renzi che dà voce a molti aspetti appena evocati. Per quanto riguarda il caso che più ci interessa, il lavoratore può essere adibito a mansioni inferiori, con il solo limite di appartenenza nella medesima categoria legale.
La seconda premessa consiste nell’esame della impossibilità sopravvenuta della prestazione ed il conseguente potere di recesso del datore di lavoro. Per l’esame della sentenza sopra citata, è sufficiente esaminare la sola ipotesi di impossibilità sopravvenuta per ragioni attinenti alla sfera del lavoratore. In relazione alla durata del contratto di lavoro, bisogna distinguere tra impossibilità parziale e impossibilità temporanea, infatti l’opzione ricostruttiva nell’uno o nell’altro senso ha conseguenze rilevanti per la determinazione dell’evento estintivo del rapporto, riconducibile nel primo caso al recesso e nel secondo alla risoluzione ipso iure. Resta fermo che, in ambedue i casi, il diritto a risolvere il rapporto coincide con il momento in cui non è più rinvenibile un apprezzabile interesse del creditore (in questo caso il datore di lavoro) all’adempimento delle prestazioni. La giurisprudenza tende a ricondurre al giustificato motivo obiettivo di licenziamento le più ricorrenti ipotesi di impossibilità sopravvenuta. Ciò vale, tra i tanti casi, anche per l’inidoneità sopravvenuta del lavoratore a svolgere le proprie mansioni. La posizione della giurisprudenza, per quanto riguarda l’inidoneità fisica o psichica del lavoratore, è stata poi avallata dalla riforma Monti del 2012 che esplicitamente ricomprende tali forme di licenziamento entro il giustificato motivo oggettivo e ricollega loro, nel caso di ingiustificatezza, la c.d. tutela reale attenuata.
Alla luce di quanto appena esposto, cosa avrebbe dovuto fare il datore di lavoro nel caso di specie sottoposto alla Corte di Cassazione nella sentenza di seguito riportata, e cioè nell’ipotesi di sopravvenuta inidoneità fisica del lavoratore? Il datore sarebbe stato obbligato ad adibire il lavoratore ad una mansione inferiore pur di evitare il licenziamento, oppure avrebbe potuto legittimamente licenziare il lavoratore per giustificato motivo oggettivo?
       2.       Sentenza n°27502/2019
Il caso di specie riguardava un lavoratore dipendente della 3B S.P.A. nei confronti del quale, già la Corte d’Appello aveva confermato la legittimità del licenziamento per sopravvenuta inidoneità fisica al lavoro ed inesistenza nell’organizzazione aziendale di posizioni confacenti alle residue attitudini del dipendente, ciò aveva spinto il lavoratore al ricorso in Cassazione. Tra i diversi motivi che hanno giustificato il ricorso vi è quello consistente nella violazione dell’art. 1375 c.c.[6] che impone alle parti del rapporto obbligatorio un obbligo di esecuzione secondo buona fede, e tale obbligo implicava, a danno della parte datoriale, l’attribuzione al lavoratore, divenuto inidoneo fisicamente, delle mansioni espletate da altri dipendenti ed il contestuale spostamento di questi ultimi a quelle ricoperte rispettivamente dal lavoratore. Dalla pronuncia della Corte di Cassazione può in realtà dedursi una mancata condivisione della stessa del motivo sopra esposto e sostenuto dal lavoratore; infatti la Corte ha ribadito che la verifica di una diversa e possibile utilizzazione del lavoratore rientri nell’assetto organizzativo “insindacabilmente stabilito dall’imprenditore”, con ciò escludendo la possibilità che possano essere richieste al datore modifiche se pur minime dell’organizzazione al fine di consentire l’utilizzo del lavoratore. Le scelte organizzative rientrano, infatti, nella piena discrezionalità del datore di lavoro in quanto espressione della libertà di impresa di cui all’art. 41 Cost[7]. La questione investe l’istituto del così detto “repechage” del datore di lavoro, il quale non può licenziare il lavoratore per la sola sopravvenuta inidoneità fisica dello stesso, ma potrà invece adibirlo a diverse mansioni equivalenti o eventualmente inferiori; tutto ciò, alla stregua di quanto esposto poc’anzi, alla sola condizione che fosse stato il datore di lavoro a valutare la possibilità, ai fini organizzativi, di attribuire diverse mansioni al lavoratore. Infatti il recepimento dell’art. 5 della Dir. 2000/78/CE[8], comporta l’obbligo in capo alla parte datoriale, della previa verifica, a carico del datore di lavoro, della possibilità di adattamenti organizzativi purché contenuti nei limiti della ragionevolezza. Le difficoltà applicative connesse alla inesistenza nel nostro ordinamento di una nozione unitaria di disabilità alla quale collegare le tutele previste dalla norma comunitaria sono alla base di questa sentenza, la quale, recependo le indicazioni del giudice comunitario, ha chiarito che la nozione di disabilità, anche ai fini della tutela in materia di licenziamento, deve essere costruita in conformità al contenuto della direttiva: quindi quale “limitazione risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche durature che, in interazione con barriere di diversa natura, possono ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori”. Ricorrendo, pertanto, tale ipotesi occorrerà verificare la possibilità di adattamenti organizzativi ragionevoli da parte del datore di lavoro onde consentire l’utilizzazione del lavoratore divenuto “disabile” nel senso sopra chiarito. L’art. 4 della legge n° 68/1999[9] stabilisce che per i lavoratori divenuti inabili allo svolgimento delle proprie mansioni in conseguenza di infortunio o malattia, questi ultimi non costituiscono giustificato motivo di licenziamento nel caso in cui i lavoratori possano essere adibiti a mansioni equivalenti ovvero, in mancanza, a mansioni inferiori. Ciò vuol dire che non c’è effettivamente un obbligo in capo al datore di lavoro di utilizzare in ogni caso il lavoratore divenuto inidoneo anche per mansioni inferiori; la norma sta semplicemente mettendo il rilievo il fatto che la sopravvenuta inidoneità del lavoratore non costituisce giustificato motivo di licenziamento ove nell’ambito aziendale si rinvengano posizioni lavorative, anche corrispondenti a mansioni inferiori, compatibili con la situazione del lavoratore, ma non si spinge fino ad obbligare il datore di lavoro ad effettuare modifiche organizzative allo scopo di non evitare il licenziamento del lavoratore. La Corte alla luce di quanto esposto rigetta il motivo del ricorso della parte ricorrente, incentrato sulla violazione dell’obbligo di buona fede della parte datoriale.
       3.       Il temperamento del legislatore
La decisione della Corte conferma come il legislatore, da un lato abbia attribuito determinati poteri al datore di lavoro soprattutto permettendogli di attribuire diverse mansioni ai propri lavoratori secondo il sistema di mobilità, dall’altro lato però ha escluso l’automatismo del licenziamento qualora il lavoratore diventi inidoneo per lo svolgimento della propria prestazione lavorativa. Questo temperamento del legislatore trova esito nella pronuncia della Corte e quindi nel fatto che, in ogni caso, la legge non può imporre una scelta organizzativa al datore di lavoro che invece potrà avvalersi della propria libertà di decisione naturalmente entro i limiti imposti dalla legge. Infatti il legislatore si limita semplicemente ad assicurare che i limiti imposti alla libertà del datore di lavoro non si traducano in abusi da parte dello stesso con conseguente svantaggio del lavoratore, che a sua volta, in virtù di questi rischi ha assunto nel tempo la denominazione di “contraente debole”. La scelta della Corte di citare l’art. 41 Cost. ha simbolicamente rappresentato la volontà di ribadire come nessun giudice mai potrà sindacare sulle scelte datoriali che rimangono sostanzialmente libere. Tutto ciò va di pari passo con la giurisprudenza odierna che mira ad interpretare più ampliamente il concetto di libertà di licenziamento, che nei casi di giustificato motivo oggettivo è giunta a considerarlo legittimo anche nelle ipotesi in cui il datore se ne avvale per garantire una migliore produttività dell’azienda e per conseguire un maggior guadagno. Per cui se l’azienda è un investimento, i lavoratori ne sono parte e quindi possono essere eliminati qualora non rendano il profitto o obiettivo sperato. L’art. 41 Cost. sembra farsi portavoce di entrambe le esigenze: da un lato tutelare il lavoratore da ogni forma di abuso del potere datoriale, in quanto nel 3° comma stabilisce che: “La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”; però dall’altro lato riconosce la libertà privata relativamente all’iniziativa economica al 1° comma, che non a caso è ricollegabile agli artt. 2082[10] e seguenti del codice civile che espongono la figura dell’imprenditore con i conseguenti istituti applicabili.
Quindi volendo, in qualche modo, sintetizzare quanto esposto alla stregua della giurisprudenza più recente: sulla base dell’art. 1464 c.c.[11], l’ipotesi di sopravvenuta inidoneità fisica o psichica del lavoratore rientra nei casi di sopravvenuta impossibilità di adempiere alla propria prestazione e pertanto può legittimare il datore di lavoro al recesso qualora la prestazione lavorativa sia divenuta inutilizzabile. L’inidoneità sopravvenuta del lavoratore impone l’obbligo di repechage, cioè di ripescaggio, in capo al datore di lavoro, cioè quest’ultimo dovrà valutare la possibilità, attraverso anche la tecnica di mobilità interna, di attribuire un’altra mansione al lavoratore al fine di garantirgli una ricollocazione all’interno del sistema aziendale ed evitare il licenziamento. Si parla però di “possibilità” di valutazione in capo al datore di lavoro poiché, qualora tale opportunità di “repechage” non venga considerata di possibile attuazione, il datore sarà allora libero di recedere dal contratto di lavoro servendosi del licenziamento; infatti l’istituto di “repechage” non potrà mai tradursi nell’obbligo in capo al datore di lavoro di modificare l’assetto organizzativo della propria azienda, talché qualsiasi scelta di natura organizzativa, volta al miglioramento e alla maggiore efficienza aziendale rimarrà comunque insindacabile.
Note e riferimenti bibliografici
 Oronzo Mazzotta “Manuale del Diritto del Lavoro”.
 [1] Art. 2094 c.c.: “E’ prestatore di lavoro subordinato chi si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore”. 
[2] Sentenza n° 27502/2019: pronuncia della Corte di Cassazione, descritta e commentata nel 2° paragrafo.
[3] Art. 2103 c.c.: “Il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti all’inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni riconducibili allo stesso livello di inquadramento delle ultime effettivamente svolte. (2) In caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incidono sulla posizione del lavoratore, lo stesso può essere assegnato a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore purché rientranti nella medesima categoria legale. (3) Il mutamento di mansioni è accompagnato, ove necessario, dall’assolvimento dell’obbligo formativo, il cui mancato adempimento non determina comunque la nullità dell’atto di assegnazione delle nuove mansioni. (4) Ulteriori ipotesi di assegnazione di mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore, purché rientranti nella medesima categoria legale, possono essere previste dai contratti collettivi. (5) Nelle ipotesi di cui al secondo e quarto comma, il lavoratore ha diritto alla conservazione del livello di inquadramento e del trattamento retributivo in godimento, fatta eccezione per gli elementi retributivi collegati a particolari modalità di svolgimento della precedente prestazione lavorativa. (6) Nelle sedi di cui all’articolo 2113, ultimo comma, o avanti alle commissioni di certificazione, possono essere stipulati accordi individuali di modifica delle mansioni, del livello di inquadramento e della relativa retribuzione, nell’interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione, all’acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita. Il lavoratore può farsi assistere da un rappresentante dell’associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato o da un avvocato o da un consulente del lavoro. (7) Nel caso di assegnazione a mansioni superiori il lavoratore ha diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta e l’assegnazione diviene definitiva, salva diversa volontà del lavoratore, ove la medesima non abbia avuto luogo per ragioni sostitutive di altro lavoratore in servizio, dopo il periodo fissato dai contratti collettivi, anche aziendali, stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o, in mancanza, dopo sei mesi continuativi. (8) Il lavoratore non può essere trasferito da un’unità produttiva ad un’altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive. (9) Salvo che ricorrano le condizioni di cui al secondo e quarto comma e fermo quanto disposto al sesto comma, ogni patto contrario è nullo”.
[6] Art. 1375 c.c.: “Il contratto deve essere seguito secondo buona fede”. 
[7] Art. 41 Cost.: “L’iniziativa economica privata è libera. (2) Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. (3) La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali. 
[8] Art.5 della Dir. 2000/78/CE: “Per garantire il rispetto del principio della parità di trattamento dei disabili, sono previste soluzioni ragionevoli. Ciò significa che il datore di lavoro prende i provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione o perché possano ricevere una formazione, a meno che tali provvedimenti richiedano da parte del datore di lavoro un onere finanziario sproporzionato. Tale soluzione non è sproporzionata allorché l’onere è compensato in modo sufficiente da misure esistenti nel quadro della politica dello Stato membro a favore dei disabili”.

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