24/12/2019 – Danno da occupazione

Danno da occupazione[1]
 
Ringrazio il Presidente Patroni Griffi per l’ospitalità e l’Ufficio Studi per l’invito, che mi onora in maniera particolare.
Il mio intervento si articolerà in tre parti:
1) la prima, relativa ad alcune considerazioni generali per un corretto inquadramento del tema del danno da occupazione;
2) la seconda, relativa agli orientamenti della giurisprudenza amministrativa e, in particolare, alla natura del danno da occupazione;
3) la terza, relativa all’attualità della sentenza n. 500/1999, vero nucleo tematico di una giornata di studi che non voglia essere soltanto una – pur giusta – celebrazione.
 
1. Considerazioni generali.
1.1.) Il tema del danno da occupazione evoca, in prima battuta e alla luce dell’odierno confronto tra giudici civili e giudici amministrativi, una breve riflessione sulle difficoltà che talvolta si registrano nel dialogo tra le giurisdizioni: questione non nuova, sulla quale mi pare appropriato richiamare la sentenza della Corte Costituzionale n. 6/2018, riguardante i “motivi inerenti alla giurisdizione” (ossia le condizioni per la sindacabilità, da parte della Corte di Cassazione, delle sentenze del Consiglio di Stato). In tale sentenza il Giudice delle Leggi ha, in particolare, ripreso un passaggio fondamentale di uno degli interventi di Costantino Mortati nel corso dell’assemblea costituente, incentrato sulla convinta asserzione dell’unità “non organica, ma funzio­nale di giurisdizione, che non esclude, anzi implica, una divisione dei vari ordini di giudici in sistemi diversi, in sistemi autonomi, ognuno dei quali fa parte a sé”.
Occasioni come quella odierna sono, perciò, quanto mai opportune per ristabilire un necessario collegamento, e non soltanto un confronto.
Soprattutto si tratta di capire se vi sia comunanza o distanza tra queste due “comunità”, tenendo conto, nel caso della GA, del rischio di derubricare l’importanza del principio di legalità a causa del “fascino” esercitato dalla c.d. giurisdizione oggettiva (una specie di evoluzione distorta del giudizio di spettanza), che oggi contribuisce a concepire il giudice amministrativo come un mediatore di pubblici interessi e non come un geloso custode dell’applicazione rigorosa delle norme.
1.2.) Il tema dell’occupazione evoca, inoltre, una rimeditazione sullo statuto giuridico della proprietà e, nel contempo, sull’attività provvedimentale e materiale della PA, il tutto lungo tre, fondamentali, direttrici:
a) l’innesto dell’interesse pubblico nella proprietà privata;
b) il rapporto tra proprietà e interesse pubblico tra logica dell’appartenenza e logica della destinazione;
c) il senso attuale sulla relazione tra proprietà-diritto e proprietà-dovere come precipitato della funzione sociale della proprietà privata, declamata dall’art. 42 della Costituzione.
Mi pare importante che si approfondisca, in sostanza, se l’interesse pubblico operi ancora come un vincolo di scopo della proprietà privata e come strumento di attuazione dell’interesse pubblico e, soprattutto, in quale misura tale configurazione sia “accettabile”. 
Se, come teorizzò Sandulli (Beni pubblici, in Enc. dir., 1959), l’imposizione di limiti alla proprietà possa essere ancora considerata una soluzione ottimale e condivisa per realizzare un compromesso soddisfacente tra l’interesse del proprietario e un interesse “diverso”, eppure meritevole di tutela.
Se, quindi, abbia senso riconoscere la proprietà non solo come espressione di una libertà individuale (il potere di disposizione), ma anche come strumento di realizzazione di un principio solidaristico (la funzione sociale per l’equità, la giustizia e l’uguaglianza).
1.3.) Per approfondire tali aspetti bisogna soffermarsi su alcuni prodromi della teoria generale:
a) il dibattito – profondamente “politico” – sviluppatosi in sede di assemblea costituente, ove è prevalsa la formulazione di cui al comma 2 dell’art. 42 (“la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge”), che in apparenza prospetta una massimizzazione della tutela, lasciando pensare ad un diritto che preesiste all’ordinamento positivo (un diritto non “creato” ex novo, ma più banalmente riconosciuto);
b) la questione del “contenuto minimo” della proprietà;
c) il dilemma se sia scindibile la facoltà di godimento della proprietà (la libertà dell’individuo è funzione di ciò che egli possiede) dal potere di disposizione (il che dovrebbe condurre ad accettare la “dura” realtà della funzione sociale che frantuma la struttura del diritto di proprietà, consentendo che il legislatore ordinario possa determinare i suoi modi di acquisto e le sue limitazioni).
d) soprattutto accertare se la proprietà privata definita dal codice civile è davvero, nel diritto vivente, la stessa proprietà privata tutelata dalla Costituzione.
Questi interrogativi sembrano ben sintetizzati nell’osservazione secondo cui “all’occhio di chi guarda il panorama che offre il diritto di proprietà nella sua specifica disciplina giuridica, tendente alla realizzazione di interessi pubblici o privati diversi e talvolta contrastanti con quelli del proprietario, non si offre certo come una zona monotona e monocroma, ma piuttosto come un paesaggio ricco e vario” (Pugliatti, Strumenti tecnico-giuridici per la tutela dell’interesse pubblico nella proprietà, in La proprietà nel nuovo diritto, Milano, 1964).
1.4.) Non si può, infine, prescindere, sempre sul piano metodologico, dalla necessità di umanizzare la vicenda contenziosa: un tratto ben presente nel patrimonio genetico del giudice amministrativo, soprattutto – per ovvie ragioni di prossimità ai fatti – di quello di primo grado, il quale molto spesso è vicinissimo alle questioni, conosce i luoghi e gli aspetti di contorno, matura, insomma, una sensibilità del tutto particolare.
L’umanizzazione – beninteso – non come alibi per una giurisdizione oggettiva che svaluti il principio di legalità, ma come consapevolezza che per temi “sensibili” come l’occupazione della proprietà da parte della pubblica Amministrazione il cittadino percepisce il potere e le sue ripercussioni in (più banali, ma fondamentali) termini di torto/ragione.
 
2. Lo stato dell’arte della giurisprudenza amministrativa.
2.1) Per brevità si possono, anzitutto, riepilogare le acquisizioni sostanzialmente pacifiche.
È, in primo luogo, assodata la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in base al consolidato orientamento delle Sezioni Unite della Cassazione (ribadito con sentenza 28 marzo 2019, n. 8675; id., 29 gennaio 2018, n. 2145; id., 16 aprile 2018, n. 9334; id., 25 luglio 2016, n. 15284), sia per le controversie aventi ad oggetto la restituzione di un suolo (con qualche pronuncia di segno opposto: cfr. Corte di Cassazione, sez. II, 17 ottobre 2017, n. 24485 in tema di domanda di retrocessione totale del fondo che sia dissociata dalla proposizione di una domanda di retrocessione parziale), sia per il risarcimento del danno per la perdita della proprietà dell’immobile occupato d’urgenza o in forza di una dichiarazione di pubblica utilità e/o di indifferibilità e urgenza, ancorché illegittima perché priva dei termini iniziale e finale dei lavori.
Il profilo unificante, in questi casi, sarebbe rappresentato dall’affermazione che il comportamento della pubblica Amministrazione che genera la lesione sarebbe, pur sempre, la conseguenza di un assetto di interessi originato dall’esercizio di un potere amministrativo “in concreto esistente, riguardante l’individuazione e la configurazione dell’opera pubblica sul territorio, cui la condotta successiva, anche se illegittima, si ricollega in senso causale”.
Altre, sostanziali, certezze si registrano, poi, in riferimento alla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (cfr. Carbonara & Ventura c. Italia, 30 maggio 2000, ma non solo), la quale ha escluso che l’istituto dell’accessione invertita (in tutte le sue sfumature e variabili giurisprudenziali) possa consentire che da una attività illecita della PA possa derivare la perdita del diritto di proprietà da parte del privato: si applica, quindi, lo schema generale degli artt. 2043 e 2058 del codice civile.
Il che – a mio modesto avviso – compendia le statuizioni dell’Adunanza plenaria n. 2/2016, secondo cui “quale che sia la sua forma di manifestazione (vie di fatto, occupazione usurpativa, occupazione acquisitiva), la condotta illecita dell’amministrazione incidente sul diritto di proprietà non può comportare l’acquisizione del fondo e configura un illecito permanente ex art. 2043 c.c.”, senza, peraltro, pregiudizio della possibilità che l’illecito venga meno per effetto dell’applicazione di rimedi ormai tipizzati, quali la restituzione del fondo, l’accordo transattivo, la rinunzia abdicativa da parte del proprietario implicita nella richiesta di risarcimento del danno per equivalente monetario a fronte della irreversibile trasformazione del fondo, la compiuta usucapione (ma solo nei ristretti limiti individuati dal Consiglio di Stato, vale a dire sulla base del carattere non violento della condotta e dell’interversio possessionis), oltre che, naturalmente, a seguito dell’acquisizione sanante ex art. 42-bis del testo unico sulle espropriazioni.
Insomma, non vi è dubbio che l’illecito spossessamento del privato da parte della PA e l’irreversibile trasformazione del suo terreno per la costruzione di un’opera pubblica non diano luogo, anche quando vi sia stata dichiarazione di pubblica utilità, all’acquisto dell’area da parte dell’Amministrazione, restando integro il diritto del privato di chiederne la restituzione salvo che non decida di abdicare al suo diritto e chiedere il risarcimento del danno.
Il privato, inoltre, è legittimato a chiedere il risarcimento dei danni per il periodo, non coperto dall’eventuale occupazione legittima, durante il quale alleghi di aver subìto la perdita delle utilità ricavabili dal terreno, e ciò sino al momento della restituzione ovvero sino al momento in cui abbia chiesto il risarcimento del danno per equivalente, abdicando alla proprietà del terreno (cfr. Corte di Cassazione, sezioni unite, 19 gennaio 2015, n. 735).
2.2.) Venendo, invece, al cuore delle questioni giurisprudenziali più dibattute, aiuta molto l’analisi una pronuncia recente del Consiglio di Stato (sez. IV, n. 3428 del 27 maggio 2019), la quale ha, indubbiamente, affrontato in modo diretto le questioni che sottendono il tema del danno da occupazione.
Occorre premettere che tale pronuncia, favorevole alla teoria del riconoscimento del danno in re ipsa, è stata preceduta da altre pronunce di merito fondate sull’opposto indirizzo del danno-conseguenza (TAR Puglia – Bari, 4 gennaio 2016, n. 1), così come, in tempi più recenti, si individuano altre pronunce che, sempre, paiono avvalorare l’indirizzo favorevole a richiedere l’assolvimento di un ordinario onere probatorio (TAR Lazio – Roma, 19 novembre 2019, n. 13285).
Quali i termini della questione decisa dal Consiglio di Stato.
La fattispecie: due proprietari chiedevano il risarcimento del danno subìto per effetto dell’occupazione illegittima di una parte della loro proprietà (circa 750 metri quadri) ai fini della realizzazione della viabilità di collegamento autostradale, il tutto in conseguenza: di una prima occupazione alla quale era seguita l’immissione; di una sospensione dei lavori e di una riapprovazione del progetto; dell’emissione di un secondo decreto dei occupazione e di una seconda immissione in possesso; della mancata realizzazione dell’opera pubblica e della restituzione dell’area ai predetti proprietari dopo oltre tre anni dalla seconda occupazione.
Da premettere, inoltre, che i ricorrenti avevano proposto due domande: una per il risarcimento dei danni subiti per perdita del godimento del bene per tre anni (da liquidare in base all’art. 42 bis del testo unico espropriazioni) e l’altra per il risarcimento del danno per non aver potuto utilizzare le porzioni non occupate del proprio terreno, il quale avrebbe costituito – a loro dire – un “unicum funzionale ed economico”.
Nella sentenza di primo grado (TAR Abruzzo, 27 novembre 2017, n. 494) si reputava ammissibile la domanda di risarcimento solo relativamente alla seconda occupazione, la quale avrebbe costituito il superamento dei precedenti atti ablatori, ma non anche la loro caducazione con effetti retroattivi (dunque la prima occupazione, in quanto legittima, non avrebbe potuto fondare una domanda di risarcimento). La domanda, tuttavia, veniva respinta sul sostanziale presupposto, coerente con la teoria del danno-conseguenza, che non fosse stata provata in modo adeguato la perdita di successive occasioni di adibire il bene ad un diverso utilizzo, risultando, in particolare, non adeguata la produzione di una consulenza di parte riferita al valore venale del bene al momento dell’occupazione.
In sostanza, ad avviso del TAR “il danneggiato non può ottenerne il risarcimento per il sol fatto che vi sia stata l’occupazione abusiva altrui, occorrendo fornire la prova di una effettiva lesione del suo patrimonio, quantomeno allegando le situazioni fattuali dimostrative dell’esistenza del danno conseguenza”; né ritenendosi preclusa la possibilità di far valere presunzioni in accoglimento di una successiva giurisprudenza favorevole a configurare il danno da occupazione abusiva come “danno figurativo”.
In appello il Consiglio di Stato, pur dando atto dell’orientamento giurisprudenziale sul quale era stata radicata la pronuncia di prime cure, riformava la predetta sentenza eleggendo la teoria del danno in re ipsa, e ciò non soltanto in relazione al danno da occupazione illegittima (nella misura – forfettizzata con richiamo all’art. 42 bis del testo unico sulle espropriazioni – del 5% annuo del valore del terreno), ma, per quel che più interessa, per la domanda di risarcimento per la perdita del potere di disposizione del bene, ossia per una compressione illecita del diritto di proprietà.
È interessante analizzare il percorso motivazionale.
Vi è un primo richiamo ad un precedente della Sezione IV (27 febbraio 2017, n. 897) nel quale era stato fatto cenno all’orientamento favorevole al collegamento del danno alla perdita di disponibilità del bene, la cui natura è naturalmente fruttifera, e alla impossibilità di conseguire l’utilità da esso ricavabile nell’esercizio delle facoltà di godimento e disponibilità: in altri termini l’esistenza del danno sarebbe oggetto di una presunzione iuris tantum superabile ove si accertasse che il proprietario si fosse intenzionalmente disinteressato dell’immobile.
I passaggi giustificativi della posizione assunta dal giudice di seconde cure paiono, sostanzialmente, tre:
A) il richiamo alla nozione di danno-evento, con particolare riferimento alla distinzione tra danno biologico e danno morale (non patrimoniale);
B) la valorizzazione dell’assunto, confortato da giurisprudenza costituzionale (27 luglio 1994 n. 372), secondo cui l’oggetto del risarcimento consisterebbe sufficientemente “in una perdita cagionata dalla lesione di una situazione giuridica soggettiva”;
C) l’affermazione secondo cui il compito del giudice dovrebbe essere quello di verificare la lesione (diminuzione o perdita delle facoltà/poteri oggetto) della situazione attiva e sanzionare, in tal caso, le condotte della PA nel segno del danno in re ipsa.
La sentenza del Consiglio di Stato non si è sottratta, però, dal confronto con gli orientamenti di segno contrario (cioè quelli favorevoli al danno-conseguenza), i quali, visti nei loro più stringenti termini, postulano che:
a) “il danneggiato (…) è tenuto a provare di aver subito un’effettiva lesione del proprio patrimonio per non aver potuto ad esempio locare o altrimenti direttamente e tempestivamente utilizzare il bene, ovvero per aver perso l’occasione di venderlo a prezzo conveniente o per aver sofferto altre situazioni pregiudizievoli, con valutazione rimessa al giudice del merito, che può al riguardo peraltro pur sempre avvalersi di presunzioni gravi, precise e concordanti” (Corte di Cassazione, sez. III, 17 giugno 2013, n. 15111);
b) il danno in re ipsa integrerebbe un illegittimo esonero dall’onere della prova (Corte di Cassazione, sez. II, 22 settembre 2017, n. 22201; id., sez. III, 13 ottobre 2016, n. 20643; id., sez. I, 23 dicembre 2015, n. 25921; id., sez. III, 18 novembre 2014, n. 24474; id., sez. III, 3 luglio 2014, n. 15240; id., sez. I, 3 giugno 2014, n. 12370; id., sez. I, 10 settembre 2013, n. 20695).
Soprattutto, la sentenza in questione non ha eluso il confronto con una recente pronuncia della Cassazione (sez. III, 25 maggio 2018, n. 13071), pure questa orientata ad affermare la tesi del danno-conseguenza, nella quale si è statuito che il danno da occupazione non possa essere considerato in re ipsa perché tale concetto condurrebbe ad identificare il danno con l’evento dannoso e, quindi, a configurare “un vero e proprio danno punitivo”.
Una sentenza, quest’ultima della Cassazione del 2018, che però non ha riguardato una occupazione di terreno da parte della PA, bensì una fattispecie assai più singolare: un litigio tra due coniugi separati, nell’ambito del quale l’ex marito aveva chiesto alla ex moglie il rilascio di un immobile di sua proprietà (oltre che il pagamento di altre spese derivanti dal mancato godimento di tale immobile, in precedenza concesso in comodato d’uso al figlio della coppia).
Ciò che, nell’immediato, colpisce è la giustapposizione – nel contesto di un tentativo, non privo di vocazione sistematica, finalizzato all’elaborazione di un orientamento sul danno da occupazione – di fattispecie profondamente eterogenee, ove sembra pervenirsi ad un’impropria assimilazione tra l’occupazione da parte della pubblica Amministrazione e quella perpetrata da un privato.
Ma ci sono altri passaggi degni di nota.
La sentenza del Consiglio di Stato ha ribadito con fermezza che “il problema, dunque, non consiste nella configurazione ontologica del danno (…), ma attiene alla natura della situazione soggettiva ed al rapporto che intercorre tra questa e l’evento lesivo”. Ragione per cui il “problema”, o meno, della prova “non discende dalla natura del danno (danno-evento o danno-conseguenza), ma che si propone come strettamente connesso alla sussistenza/conformazione e titolarità di una posizione soggettiva che si assume lesa”.
Non solo.
La configurazione del risarcimento in re ipsa sarebbe funzionale ad evitare un “risultato paradossale”, “certamente non coerente con il dettato dell’art. 42 Cost..e dell’art. 17 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea”, ossia riconoscere la tutela della proprietà “solo nei casi in cui (e nella misura in cui) il proprietario sia in grado di dimostrare un “uso attivo” della facoltà di godimento. Ma quest’ultima conclusione riduce fortemente (ed a monte della tematica del risarcimento) l’ambito ontologico del diritto di proprietà, poiché questo finirebbe per configurarsi solo come “posizione dinamica”, potendo essere percepito (e dunque tutelato) dall’ordinamento solo nel momento in cui esso si esercita: precisamente, nei momenti “dinamici” del potere di disposizione e dell’esercizio “in concreto” della facoltà di godimento”.
È stato, cioè, riaffermato il nucleo essenziale del diritto di proprietà (connaturato alla sottolineatura della rilevanza – anche – del profilo “statico” del regime proprietario).
Ma non è tutto.
Il Consiglio di Stato non ha assolutizzato il dogma per cui “la facoltà di godimento ottenga tutela sempre e comunque per il solo fatto di essere aspetto connaturato al diritto di proprietà”: il principio sposato, piuttosto, è stato fondato sulla presunzione iuris tantum di lesione, nel senso che la via d’uscita per la pubblica Amministrazione non potrebbe – a questo punto – che sostanziarsi nella prova del “disinteresse” del proprietario, tenuto conto che “in tali casi è del tutto evidente come l’onere della prova incombe sul soggetto virtualmente tenuto al risarcimento”.
E, sempre per restare in tema di paradossi, nella pronuncia si è pure affermato che l’indennità per occupazione legittima (cioè quella di cui all’art. 22 bis, comma 5 del DPR 327/2001, secondo cui “per il periodo intercorrente tra la data di immissione in possesso e la data di corresponsione dell’indennità di espropriazione o del corrispettivo, stabilito per l’atto di cessione volontaria è dovuta l’indennità di occupazione”) e il risarcimento del danno per perdita del godimento del bene a causa di occupazione illegittima avrebbero un medesimo fondamento giuridico, ossia la compressione del diritto di proprietà.
 
3. Osservazioni finali sull’attualità della sentenza 500/1999.
A valle di una disamina – per forza di cose sommaria – sulla giurisprudenza in tema di danno da occupazione, si possono isolare due considerazioni conclusive, tutte sollecitate dalla sentenza in questione.
La prima è data dal rischio di avallare un danno punitivo o un danno suscettibile di una tutela per così dire “privilegiata”.
Se (mi sia permesso di richiamare una posizione del prof. Bianca, maestro del diritto civile presente oggi in questa sala) la funzione punitiva è estranea al diritto privato, occorre rimarcare, con altrettanta convinzione, che la funzione punitiva non possa appartenere neppure al diritto amministrativo.
Ora, ad avviso del Consiglio di Stato la distinzione tra danno-evento e danno-conseguenza riguarderebbe per lo più il risarcimento del danno non patrimoniale; mentre non occorrerebbe prova del danno patrimoniale perché “la diminuzione o la privazione, in tutto o in parte, della posizione soggettiva nel suo lato interno (in relazione cioè al bene protetto) è già ex se lesione comprovata e che, come tale, postula risarcimento”.
Si tratta, indubbiamente, di un’affermazione “forte”, che tende a relegare in secondo piano la teoria secondo cui il c.d. danno-evento non potrebbe che atteggiarsi (solo) come un presupposto del risarcimento, meglio sarebbe dire come un elemento che consolida la fonte del danno e del successivo risarcimento, quest’ultimo da ricondurre ad una diminuzione patrimoniale o ad altra conseguenza negativa sul piano dello sviluppo della persona: ma pur sempre – il predetto presupposto – insufficiente ai fini del ristoro.
Mi sembra, perciò, che l’orientamento espresso dal Consiglio di Stato finisca per far riecheggiare il passaggio della sentenza n. 500 nella parte in cui ha dato conto del “radicale dissenso sempre manifestato dalla quasi unanime dottrina, che ha criticato i presupposti dell’affermazione, individuati nella tradizionale lettura dell’art. 2043 c.c. e denunciato come iniqua la sostanziale immunità della P.A. per l’esercizio illegittimo della funzione pubblica che essa determina”.
Però vanno tenuti in conto due aspetti di non secondario rilievo prima di mettere davvero in soffitta il pregresso orientamento.
Un primo aspetto è teorico e si ricollega alla funzione sociale della proprietà.
Come ha osservato Barcellona nel digesto discipline privatistiche “è legittimo porre il problema dell’ambito e dei limiti della tutela costituzionale della proprietà privata in una prospettiva che non sia soltanto quella della storia interna dell’esperienza giuridica”.
È come dire che il diritto moderno è una forma di oggettivizzazione che chiede un costante compromesso tra il potere individuale, da una parte, e le limitazioni (sui modi di acquisto e di godimento, con legge ordinaria), dall’altra, in entrambi i casi senza poter prescindere dalla funzione sociale della proprietà privata.
Sotto tale aspetto, utili elementi di ricostruzione si ricavano indirettamente dalla giurisprudenza costituzionale (30 aprile 2015, n. 71) che si è pronunciata sull’art. 42 bis, evidenziandosi come la pubblica Amministrazione, con “l’adozione dell’atto acquisitivo, con effetti non retroattivi (…) riprende a muoversi nell’alveo della legalità amministrativa, esercitando una funzione amministrativa ritenuta meritevole di tutela privilegiata, in funzione degli scopi di pubblica utilità perseguiti, sebbene emersi successivamente alla consumazione di un illecito ai danni del privato cittadino”.
Entra in gioco, cioè, una ponderazione dell’interesse connesso all’esercizio della funzione amministrativa.
Un profilo ben articolato nella sentenza n. 500/1999, che quindi rivela la sua modernità soprattutto nel passaggio in cui ha statuito che “compito del giudice, chiamato ad attuare la tutela ex art. 2043 c.c., è (…) quello di procedere ad una selezione degli interessi giuridicamente rilevanti, poiché solo la lesione di un interesse siffatto può dare luogo ad un “danno ingiusto”, ed a tanto provvederà istituendo un giudizio di comparazione degli interessi in conflitto, e cioè dell’interesse effettivo del soggetto che si afferma danneggiato, e dell’interesse che il comportamento lesivo dell’autore del fatto è volto a perseguire, al fine di accertare se il sacrificio dell’interesse del soggetto danneggiato trovi o meno giustificazione nella realizzazione del contrapposto interesse dell’autore della condotta, in ragione della sua prevalenza”.
Ma se le Sezioni Unite hanno così lucidamente riqualificato la ponderazione in sede giudiziale si può essere del tutto certi, allora, della necessità di intonare il de profundis alla contrapposizione tra proprietà-diritto e proprietà-dovere ?
La sentenza 500/1999, con ragguardevole sensibilità pubblicistica, mostra che la tutela del diritto, anche del diritto di proprietà, non è chiusa, ma dialoga con il potere amministrativo; non si tratta, perciò, di mettere in discussione la difesa del nucleo essenziale (o contenuto minimo) del diritto di proprietà (o, se si preferisce, della  proprietà-diritto); forse occorrerebbe approfondire la relazione tra le prerogative dominicali e l’interesse sotteso ad una condotta pubblica che, per quanto sbagliata, anzi illecita, è pur sempre espressione di una proprietà-dovere (funzionalizzata).
Una rimeditazione sul senso attuale della missione pubblica potrebbe valere, se non altro, a favorire un ispessimento della consapevolezza di noi magistrati di garantire, con competenza e responsabilità, il dettato costituzionale in materia di proprietà.
Il secondo aspetto, invece, è pratico.
La giurisprudenza sul danno in re ipsa esprime senz’altro un’applicazione rigorosa del principio di legalità, ma – temo – possa alla lunga frustrare il disegno pubblico di incentivazione delle opere pubbliche e, non secondariamente, alimentare l’immobilismo dei funzionari pubblici.
Mi scuso anticipatamente per la banalizzazione, ma le storie delle occupazioni sono, anzitutto, storie di inerzia o di indecisione amministrativa.
Quindi la responsabilità sottesa all’esercizio della funzione giurisdizionale non può che essere quella di concepire (se non addirittura sospingere) un rapporto giuridico amministrato che favorisca l’esercizio della funzione amministrativa, non il suo sotterramento.
Non meno rilevante è, poi, il peso specifico del diritto di proprietà.
Il superamento sostanziale dell’onere probatorio insito nell’accettazione della teoria del danno in re ipsa sembra presupporre un’assimilazione, dal punto di vista della rilevanza, della lesione del diritto di proprietà alla lesione del diritto alla vita o all’integrità della persona (danno biologico).
Ma l’art. 17 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, pur ammettendo l’assolutezza del diritto, precisa anche che la privazione di tale diritto può essere giustificata da una “causa di pubblico interesse”. Ed analoghe indicazioni provengono dalla giurisprudenza della CEDU (6 giugno 2019, Condominio Porta Rufina c/ Italia), ad avviso della quale il diritto di proprietà sarebbe sì un diritto inviolabile della persona ma, nondimeno, “comprimibile” per causa di pubblico interesse e all’esito di una procedura disciplinata dalla legge: il punto di non ritorno e di aperta sottoscrizione è, dunque, (più sommessamente) la convinta espunzione delle espropriazioni indirette quale modalità perdonabile dell’azione amministrativa.
Ma se, dunque, il peso specifico del diritto di proprietà non fosse pari a quello dei diritti inviolabili, allora si rischierebbe, forse, di riconoscere un “privilegio” al danno da occupazione ristorato in assenza di riscontri di carattere probatorio.
La seconda considerazione conclusiva riguarda la questione dell’ovvietà o non ovvietà del danno da occupazione.
Nella sentenza del Consiglio di Stato è stato ribadito che la proprietà fondiaria è un bene fruttifero, da ciò inferendosi che il mancato godimento causato dall’illecito altrui produrrebbe un mancato introito (più o meno elevato); e per questa ragione il danno e quindi il risarcimento si sostanzierebbero anche senza una particolare prova.
Ma si può, forse, ritenere che – concependo la complessità della tutela risarcitoria e, di riflesso, segmentando i passaggi logico-giuridici che ne scandiscono l’affermazione – una prova rigorosa possa/debba richiedersi almeno per determinare l’entità del danno, cioè collegandola alla liquidazione del risarcimento, che è momento logico successivo all’accertamento della diminuzione patrimoniale.
Potrebbe giovarsene la qualità della giurisdizione e fuggirsi un modo troppo drastico di intendere le disfunzioni – quasi mai intenzionali – dell’Amministrazione. 
Vi ringrazio per l’attenzione.
 
Angelo Fanizza
Primo referendario Tar Bari
 
Pubblicato il 23 dicembre 2019
 

[1] Relazione svolta al Convegno organizzato dall’Ufficio studi e massimario della Giustizia amministrativa “A 20 anni dalla sentenza n. 500/1999: attività amministrativa e risarcimento del danno”,  tenutosi a Roma, 16 dicembre 2019 (Consiglio di Stato, Piazza Capo di Ferro, 13 – Roma).
 
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