04/12/2019 – Consumo sul posto negli esercizi di vicinato e somministrazione nei pubblici esercizi: T.A.R. Lazio e Consiglio di Stato ancora in conflitto

Consumo sul posto negli esercizi di vicinato e somministrazione nei pubblici esercizi: T.A.R. Lazio e Consiglio di Stato ancora in conflitto
di Michele Deodati – Responsabile SUAP Unione Appennino bolognese e Vicesegretario comunale
Consumo sul posto in negozi di alimentari o vera e propria somministrazione non autorizzata? E’ la questione che da anni continua a tenere banco nelle aule dei Tribunali amministrativi e del Consiglio di Stato, al punto da richiedere ormai a gran voce un intervento legislativo che prenda atto della “fusione” di fatto avvenuta tra negozi di alimentari e pubblici esercizi.
Il caso esaminato dalla Sentenza del Consiglio di Stato n. 8011 del 25 novembre 2019 ha ad oggetto la sanzione comminata ad un esercizio commerciale che si è presentato agli organi accertatori nella seguente situazione: oltre la metà del locale è risultata ingombra di piani di appoggio con sedute abbinate, alla presenza di arredi e relative modalità di utilizzo che consentono la consumazione seduti al tavolo con caratteristiche di richiamo quantitativo della clientela e permanenza nel luogo di consumo. Si è notata, inoltre, l’assenza di bilancia e l’indicazione dei prezzi di vendita non per unità di misura. Gli agenti accertatori hanno ritenuto che in realtà sia stato avviato un esercizio di somministrazione di alimenti e bevande in assenza di idoneo titolo abilitativo e hanno trasmesso rapporto alla competente Direzione che ha adottato la determinazione dirigenziale di cessazione dell’attività di somministrazione al pubblico di alimenti e bevande entro quindici giorni dalla notifica dell’atto.
Il ricorso davanti al T.A.R.
Il gestore dell’esercizio ha impugnato il provvedimento ablatorio per contrasto con l’art. 3, comma 1, lett. f-bis), D.L. 4 aprile 2006, n. 223 in quanto quest’ultima disposizione ha eliminato ogni divieto al consumo immediato dei prodotti di gastronomia presso esercizi di vicinato, con l’utilizzo di locali e arredi dell’azienda, ad esclusione del servizio assistito di somministrazione e con l’osservanza delle prescrizioni igienico sanitarie. Il giudizio davanti al T.A.R. del Lazio, in linea con i precedenti specifici di questo Tribunale, si è concluso con il rigetto del ricorso perché il Collegio di primo grado ha ritenuto che l’esercizio attivato fosse un pubblico esercizio e non un negozio di vicinato.
Distinzione tra pubblici esercizi della somministrazione e negozi di generi alimentari: tipologia di arredi o servizio al tavolo?
E’ noto infatti che la posizione espressa dal Collegio romano di primo grado, allo scopo di evidenziare in modo quanto più possibile netto i confini tra consumo sul posto negli esercizi di vicinato e somministrazione di alimenti e bevande in pubblici esercizi, quali bar e ristoranti, è impostata sulla distinzione tra tipologie di arredi. In sostanza, seguendo l’indirizzo espresso inizialmente dal MISE con la nota Circolare 28 settembre 2006, n. 3603/C e poi riconfermato in altri interventi successivi (ad es. Parere 17 maggio 2012, n. 116136; Parere 8 novembre 2012, n. 230696), tavoli e sedie tradizionali sarebbero utilizzabili solo nella ristorazione, mentre il consumo sul posto negli esercizi di vicinato potrebbe avvalersi soltanto di piani di appoggio o sgabelli. Nel tempo, il MISE ha accettato di temperare il rigore di tale impostazione accettando da un lato l’abbinamento di piani di appoggio con sedie, e, dall’altro, di tavoli con sgabelli (Ris. 8 maggio 2013, n. 75893). La funambolica ricostruzione ministeriale, per quanto si dimostri di ardua attuazione al lato pratico, ha la sola finalità di accorciare la permanenza del pubblico presso gli esercizi di vicinato attraverso una sistemazione meno confortevole. Questo orientamento, ancora oggi fatto proprio dal Ministero (Ris. MISE n. 146342 del 19 agosto 2014; Ris. n. 86321 del 9 giugno 2015Ris. n. 372321 del 28 novembre 2016), si pone in contrasto frontale con le posizioni a suo tempo assunte dall’Autorità Antitrust (Segnalazione AS900 del 4 gennaio 2012; Segnalazione AS1316 del 27 ottobre 2016), che invece ha più volte rimarcato come a seguito dell’entrata in vigore della norma contenuta nel decreto Bersani 2 (D. Lgs. n. 223/2006), l’unico elemento atto a distinguere il consumo sul posto negli esercizi di vicinato dalla somministrazione in pubblici esercizi sia la presenza o meno del servizio al tavolo del cameriere. E’ toccato al Consiglio di Stato, con la sentenza n. 2280/2019 affrontare una volta per tutte il c.d. “tormentone degli arredi” e risolverlo nel senso favorevole all’AGCM. Sennonché, il T.A.R. del Lazio rimane a tutt’oggi graniticamente ancorato su posizioni opposte (si veda sentenza n. 9789/2019).
La casistica: utilità degli “indici rivelatori” della somministrazione in pubblico esercizio?
Il Tribunale amministrativo romano, con la Sentenza n. 11516/2018, ha colto l’occasione per richiamare il proprio precedente n. 100/2016, che ha definito quelli che potremmo identificare come indici rivelatori della presenza di un vero e proprio /pubblico esercizio non autorizzato, così riassumibili:
a) la disposizione delle sedute e dei tavoli munite di apparecchiature per il consumo dei pasti con stoviglie e bevande;
b) la presenza di un rilevante numero di tavoli e sedie apparecchiati con stoviglie lavabili e menù che pubblicizzano prodotti al piatto con carta dei vini per la somministrazione;
c) la presenza di una macchina per il caffè, erogatori di birra alla spina;
d) un contesto connotato da un banco-bar attrezzato con relativo addetto, arredi funzionali alla somministrazione distribuiti sull’intera superficie utile del locale, modalità di offerta/esposizione delle bottiglie di alcoli, analcolici, superalcolici, uso di bottiglie con appositi dosatori a beccuccio per il tipo di mescita al banco, esposizione prezzi cocktails e prodotti da bar in genere, modalità di consumo delle bevande da parte degli avventori mediante banco lungo con sgabelli.
Ma il conflitto tra il Consiglio di Stato e il T.A.R. del Lazio si è esteso anche all’aspetto relativo agli indici rivelatori dell’attività di somministrazione. Se il Tribunale tende a voler classificare a priori una serie di elementi da utilizzare alla strega di presunzioni giuridiche, il Collegio d’appello ha affermato in sede cautelare (ordinanza n. 2572/2018), che per configurare la somministrazione in pubblico esercizio non basta l’utilizzo di tavoli, sedute, calici per le bevande, servizio assistito con mescita del vino, menù e consumo cibi in loco anche in rapporto alla superficie del locale destinata allo scopo. Per quanto tale posizione sia stata espressa in un provvedimento interinale e temporaneo, è evidente la differente impostazione di metodo: da un lato, come si diceva, si cerca di risolvere la questione con una classificazione a priori, dall’altro si preferisce un approccio sostanziale, per quanto sia evidente la volontà di limitare il criterio di distinzione alla presenza o meno del servizio al tavolo.
Nozione di “servizio assistito”: da leggere in senso letterale e non funzionale
La sentenza n. 8011 del 25 novembre 2019 del Consiglio di Stato ha risolto il caso accogliendo l’appello della ditta rimasta soccombente in primo grado. a sostegno, ha invocato l’applicabilità di quanto deciso nella recente pronuncia n. 2280/2019, dalla quale ha ritenuto di non doversi discostare. Tale precedente ha fissato il principio generale per il quale negli esercizi di vicinato legittimati alla vendita dei prodotti appartenenti al settore merceologico alimentare, è ammesso il consumo sul posto di prodotti di gastronomia purché in assenza del servizio “assistito” di somministrazione. Il “servizio assistito” di cui al citato art. 3, comma 1, lett. f-bis), D.L. n. 223/2006 è stato interpretato in senso più strettamente letterale, identificandolo quindi nell’offerta da parte del gestore di un servizio ai tavoli ad opera di personale impiegato nel locale. Ciò che invece emerge dall’errata ricostruzione del Giudice di primo grado, è una lettura di “servizio assistito” intesa in senso “funzionale”, e cioè come organizzazione dell’offerta da parte del gestore rivolta, nel suo complesso – e, dunque, anche in ragione delle modalità di strutturazione del locale – a favorire la consumazione sul posto dei prodotti di gastronomia.
Per l’interpretazione accolta di “servizio assistito” – prosegue la sentenza del Consiglio di Stato n. 8011/2019 – è del tutto irrilevante la predisposizione degli arredi all’interno del locale, poiché, in assenza di personale ai tavoli, non è impedito che il mero consumo in loco del prodotto acquistato possa avvenire servendosi materialmente di suppellettili ed arredi, anche dedicati, presenti nell’esercizio commerciale, ossia in primis tavoli e sedie, ma a rigore anche tovaglioli o stoviglie, la cui generale messa a disposizione per uso autonomo e diretto di per sé non integra un servizio di assistenza al tavolo, ben potendo essere utilizzati anche dagli acquirenti che decidano di non fermarsi nel locale.
Alcune riflessioni critiche sui metodi di distinzione
Da quando è possibile il consumo sul posto negli esercizi di vicinato, il confine tra commercio alimentare e somministrazione di alimenti e bevande in pubblico esercizio è diventato sempre più labile, al punto tale che non ha più molto senso continuare a mantenere barriere d’ingresso al mercato che costringano a scegliere l’una piuttosto che l’altra tipologia di attività, quando le esigenze del mercato ci portano verso formati di offerta in cui le differenze vanno sempre più assottigliandosi.
Qualcuno, e a ragione, potrebbe lamentare che l’attuale quadro interpretativo sia alquanto nebuloso e confusionario, alla luce dei contrasti che ancora vedono contrapporsi MISE, AGCM e Giurisprudenza amministrativa. Nel merito, è evidente che gli stessi criteri utilizzati per risolvere il problema della distinzione tra somministrazione in pubblici esercizi e consumo sul posto in esercizi di vicinato non siano soddisfacenti perché troppo formalistici, se non addirittura “pretestuosi” in un certo senso. E’ di tutta evidenza, infatti, come il criterio della distinzione in base alla tipologia di arredi sia inapplicabile al lato pratico, per la difficoltà di demarcazione netta tra le infinite possibilità offerte dal mercato dell’arredo e del design, oltre a risultare inaccettabile sul piano teorico, per le evidenti ricadute in termini di anticoncorrenzialità. D’altra parte, anche il criterio più innovativo propugnato dal Consiglio di Stato, legato alla presenza o meno del servizio al tavolo ad opera del personale dell’esercizio, non risulta pienamente soddisfacente, in quanto limitato ad un aspetto troppo marginale per essere dirimente. In realtà, si potrebbe obbiettare che se la distinzione si limita soltanto a questo elemento di contorno all’effettivo contenuto dell’attività svolta, che è, ricordiamolo, la vendita per il consumo sul posto di alimenti e bevande, allora è dimostrato che ormai non vige più alcuna distinzione tra negozi di alimentari e pubblici esercizi.
Scenari evolutivi: verso una “Scia unica alimentare”?
Come uscirne? E’ dunque evidente che per risolvere una volta per tutte questa diatriba burocratica foriera di infiniti contenziosi, il Legislatore dovrebbe assumersi la responsabilità di finire il lavoro iniziato a suo tempo dal decreto Bersani, che malgrado le tante resistenze, ha di fatto aperto la strada alla somministrazione di alimenti e bevande (il cui significato è comunque e sempre, per l’appunto, “consumo sul posto”) anche negli esercizi commerciali.
Meglio prevedere, in luogo della Scia per l’esercizio della vendita alimentare in esercizio di vicinato, distinta dalla Scia per la somministrazione di alimenti e bevande in pubblico esercizio, una generica Scia per l’avvio di un’attività alimentare. Che poi si venda, si somministri o si facciano entrambe le cose, dipenderà dai requisiti igenico-sanitari e strutturali del locale, dalle dotazioni strutturali e strumentali, oltre che dal flusso di lavoro evidenziato nel manuale di autocontrollo.
Che questa sia la strada giusta lo conferma indirettamente l’affermazione contenuta nella recente sentenza del T.A.R. Lazio n. 9789/2019: “…se entrambe le tipologie di esercizi fossero assoggettate a Scia, ed ai medesimi requisiti sanitari e di sorvegliabilità, la distinzione non avrebbe ragion d’essere; ma così non è.” A parte la circostanza per cui in effetti è la Scia il regime applicabile ad entrambe le attività, il punto è proprio nella supposta diversità di disciplina, che in realtà non ha ragione di essere rimarcata tanto in sede di titolo abilitativo per l’accesso al mercato, quanto nell’ambito dei requisiti igienici, che non possono essere stabiliti in modo aprioristico-formale ma solo in base ad elementi sostanziali che variano in ragione del flusso di lavoro, degli elementi strutturali, del tipo di preparazioni, ecc., il cui riscontro operativo è rinvenibile nel Manuale di autocontrollo. Sul fronte della sorvegliabilità, benché vada fatta una riflessione sull’attualità dell’istituto a distanza di così tanti anni dall’introduzione di questo principio nell’ordinamento, si potrebbe estendere la sua applicabilità a tutte le attività che offrono servizi di consumo sul posto, sempre che questo sia elemento ancora effettivamente incidente sul tema della sicurezza e dell’ordine pubblico.
Nel senso indicato, la razionalizzazione dei regimi amministrativi contenuta nel decreto Scia2 (D.Lgs. n. 222 del 2016), in cui il Legislatore si è limitato a riproporre l’impianto normativo preesistente basato su ripartizioni rigide tra commercio e somministrazione, si è rivelata un’occasione perduta.

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