29/04/2019 – Decreto crescita: nuove regole per le assunzioni valorizzano l’autonomia dei comuni

Decreto crescita: nuove regole per le assunzioni valorizzano l’autonomia dei comuni

 
Un passo verso il superamento degli irrazionali blocchi, totali o parziali, delle assunzioni e verso la valorizzazione dell’autonomia di bilancio.
Il “decreto crescita” (la cui pubblicazione in Gazzetta Ufficiale desta trepida attesa) all’articolo 33 lega la capacità assunzionale dei comuni non più a percentuali del costo del personale cessato anni precedenti, ma a un valore standard (da definire) di sostenibilità finanziaria delle assunzioni.
Si stabilisce, infatti, che i comuni possono assumere:
1.      sino ad una spesa complessiva per tutto il personale dipendente, al lordo degli oneri riflessi a carico dell’amministrazione
2.      non superiore al valore soglia definito come percentuale, differenziata per fascia demografica, delle entrate relative ai primi tre titoli delle entrate del rendiconto dell’anno precedente a quello in cui viene prevista l’assunzione
3.      considerate al netto del fondo crediti dubbia esigibilità stanziato in bilancio di previsione.
Le assunzioni, comunque, saranno consentite a condizione:
a)      che vi sia coerenza con i piani triennali dei fabbisogni di personale;
b)      fermo restando il rispetto pluriennale dell’equilibrio di bilancio asseverato dall’organo di revisione.
Si prova, quindi, ad innescare un sistema che valorizza la capacità di garantire la spesa del personale non solo rispettando l’equilibrio del bilancio pluriennale, ma in relazione a specifiche fonti di entrata, considerare idonee a farvi fronte. Si tratta, appunto, dei primi tre titoli delle entrate:
·Entrate correnti di natura tributaria, contributiva e perequativa
·Trasferimenti correnti
·Entrate extratributarie
Mantenendo il complesso della spesa di personale al di sotto di una certa soglia del rapporto tra detta spesa ed i primi tre titoli delle entrate, i comuni potranno disporre sempre della capacità di assumere slegata da fattori imposti casualmente dall’alto, come appunto il costo delle cessazioni di anni precedenti.
Ai comuni si dà, quindi, la possibilità di agire sia sul fattore del costo complessivo del personale, sia su quello del volume delle entrate, per mantenere o migliorare il rapporto tra queste grandezze, così da mantenere o allargare nel tempo le assunzioni.
Il che, in una gestione particolarmente attenta e virtuosa, innesca la possibilità di andare anche oltre il turn over del 100%: starà, dunque, all’indirizzo programmatico di ciascun comune decidere nella sostanza il volume di spesa da destinare alle assunzioni, agendo o sulla riduzione della spesa complessiva del personale, oppure sull’incremento delle entrate dei primi tre titoli.
Il “decreto crescita” rimette ad un decreto del Ministro della pubblica amministrazione, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze e il Ministro dell’interno, previa intesa in sede di Conferenza Stato-città ed autonomie locali, (da adottare netro il termine – ordinatorio – di 60 giorni dalla data di entrata in vigore del d.l.) il compito di individuare:
1.      le fasce demografiche,
2.      i relativi valori soglia prossimi al valore medio per fascia demografica,
3.      le relative percentuali massime annuali di incremento del personale in servizio per i comuni che si collocano al di sotto del predetto valore soglia.
Proprio nell’intento di valorizzare l’autonomia e la capacità di agire sulle entrate o sulla riduzione della spesa di personale, la norma prende atto che non tutti i comuni hanno la medesima condizione iniziale di carattere finanziario, da un lato, e tipologica, dall’altro.
Quindi il valore medio della percentuale derivante dal rapporto tra spesa complessiva del personale (compresi gli oneri) e primi tre titoli delle entrate sarà diversificato per fasce demografiche. Probabilmente, sarebbe stato opportuno anche un’ulteriore disaggregazione per tipologia di enti: a parità di popolazione, un comune montano ha esigenze di personale differenti da un comune costiero fortemente turistico.
In ogni caso, il valore medio sarà la soglia di “virtuosità” nel rapporto tra spesa di personale e primi tre titoli delle entrate.
E’ chiaro che i comuni il cui rapporto risulti inferiore al valore medio per fascia demografica potranno effettuare le assunzioni con spazi anche maggiori rispetto al semplice 100% del turn over, potendo scegliere in questo caso di ridurre, per la programmazione futura gli spazi assunzionali, o di conservarli (se non anche ampliarli), laddove prevedano incrementi delle entrate costantemente crescenti così da mantenere inalterato il rapporto tra spesa di personale (pur crescente); oppure, laddove prevedano di ridurre la spesa di personale in modo opportuno, così da contenere il costo maggiore delle assunzioni.
In sostanza, quindi, il “decreto crescita” prova a restituire ai comuni quel che da oltre 15 anni di blocchi delle assunzioni o tetti alla connessa spesa, è stato loro tolto: l’autonomia gestionale, ovviamente connessa alla sostenibilità della spesa.
Ovviamente, non tutti i comuni avranno un rapporto spesa di personale-primi tre titoli dell’entrata, inferiore ai valori standard. Per questi, il “decreto crescita” delinea un percorso di avvicinamento a parametri di virtuosità: si prescrive la graduale riduzione annuale del suddetto rapporto fino al conseguimento nell’anno 2025 del predetto valore soglia, anche applicando un turn over inferiore al 100 per cento, sebbene la normativa, ormai a regime, in teoria consenta di coprire il 100% del turn over. Qualora i comuni con un rapporto spesa di personale-primi tre titoli dell’entrata dovessero ritrovarsi ancora nel 2025 con un rapporto superiore al valore soglia, applicheranno un turn over pari al 30 per cento, fino al conseguimento del predetto valore soglia.
Il decreto, opportunamente, dunque, distingue tra comuni virtuosi e non. Si prova a rimediare ad un grave torto, denunciato da anni: sistemi di blocchi delle assunzioni indifferenziati, o di tagli lineari, o di imposizione di tetti di spesa uguali per tutti, hanno finito sempre per danneggiare i comuni con bassa spesa di personale in termini assoluti e di rapporti con l’entrata, avvantaggiando, invece, comuni con dotazioni organiche sovradimensionate e spesa molto elevata.
Il “decreto crescita”, al contrario, con il sistema proposto permette ai comuni virtuosi un numero di assunzioni teoricamente superiore al turn over del 100%, mentre per gli altri l’imposizione di tetti al turn over diviene conseguenza della loro condizione finanziaria delicata e un’indiretta “sanzione” alla mancanza di volontà o di capacità di agire sulle entrate o sulla spesa, così da conseguire l’obiettivo di andare al di sotto del valore soglia di virtuosità.
La norma prova a depotenziare ulteriormente il deleterio articolo 23, comma 2, del d.lgs 75/2017, stabilendo: “Il limite al trattamento accessorio del personale di cui all’articolo 23, comma 2, del decreto legislativo 27 maggio 2017, n. 75 è adeguato, in aumento o in diminuzione, per garantire l’invarianza del valore medio pro-capite, riferito all’anno 2018, del fondo per la contrattazione integrativa nonché delle risorse per remunerare gli incarichi di posizione organizzativa, prendendo a riferimento come base di calcolo il personale in servizio al 31 dicembre 2018”.
Il Legislatore torna sulla micidiale norma della riforma Madia:
a)      dopo aver stabilito, dunque, che la norma non si applica ai contratti successivi alla sua emanazione (ma: a quali altri contratti collettivi avrebbe mai potuto riferirsi?);
b)      dopo aver già in qualche modo consentito di incrementare la spesa complessiva in rapporto all’aumento del costo delle posizioni organizzative (a patto, però, di ridurre simmetricamente le capacità assunzionali), con l’articolo 11-bis, comma 2[1], del d.l. 135/2018, convertito in legge 12/2019.
La preliminare domanda da porsi, allora è: ma perché, molto più semplicemente, non si abroga l’articolo 23, comma 2, del d.lgs 75/2017 e la si fa finita con una norma appartenente ancora proprio alla categoria dei tagli lineari e dei blocchi indifferenziati alla spesa di personale, che il “decreto crescita” vorrebbe superare?
Constatato che il Legislatore si avvicina alla soluzione (abolire la norma), senza coglierla, si deve quindi osservare che di fatto ormai l’articolo 23, comma 2, è un relitto del passato.
Il tetto complessivo della spesa di personale riferito al 2016 di fatto salta. Col “decreto crescita” emergono altre basi di riferimento volte a garantire un tetto al trattamento accessorio e, cioè:
1.      il valore medio pro-capite, riferito all’anno 2018, del fondo per la contrattazione integrativa;
2.      il personale in servizio al 31 dicembre 2018;
3.      le risorse per remunerare gli incarichi di posizione organizzativa, sempre da riferire al 2018.
La disposizione del “decreto crescita” considera non più l’importo del valore assoluto del costo del salario accessorio del 2016, bensì il diverso valore medio pro capite del fondo, consistente, che si reperisce ovviamente dividendo l’ammontare complessivo del fondo per il numero dei dipendenti in servizio.
Il riferimento al valore medio pro capite del fondo è più equo e corretto di un tetto assoluto di spesa del salario accessorio. Infatti, gli enti virtuosi che potranno assumere anche superando il 100% del turn over, se non vi fosse l’esplicita previsione normativa introdotta dal “decreto crescita” potrebbero correre il rischio di dover ridurre il salario accessorio medio disponibile per i dipendenti, in funzione della crescita del loro numero. Ciò, considerando che il decreto indirettamente identifica i primi tre titoli delle entrate come fonte di sostegno della spesa di personale, apparirebbe assurdo: se, infatti, un comune assume nei margini di virtuosità consentiti dalla norma, deve poter incrementare non solo la spesa di personale connessa alle assunzioni, ma anche quella del salario accessorio, in modo da scongiurare l’effetto paradossale che con l’incremento del numero dei dipendenti, a parità di valore assoluto del salario accessorio, si riduca per ciascun dipendente la potenziale “fetta di torta”.
Il “decreto crescita”, dunque, permette di incrementare il fondo del salario accessorio, ed anche eventualmente il capitolo di bilancio posto a finanziare le retribuzioni di posizione e risultato delle posizioni organizzative, così da mantenere inalterato il valore medio pro capite del fondo, per altro parametrandolo, come visto, al fondo 2018 (rideterminato a seguito del Ccml 21.5.2018) e al personale in servizio il 31.12.2018.
Allo stesso tempo, qualora il personale in servizio debba ridursi, anche per garantire il rispetto del rapporto tra spesa di personale e primi tre titoli dell’entrata agendo sul primo valore e non sul secondo, anche il fondo del salario accessorio deve ridursi in valori assoluti, sebbene questa conseguenza appaia meno giustificabile: la riduzione del personale in servizio, a parità di qualità e quantità dei servizi erogati e delle attività svolte, implica un incremento di produttività, che andrebbe valorizzato e non penalizzato.
Ultima considerazione: una volta entrato in vigore questo nuovo sistema di determinazione delle risorse da destinare alle assunzioni, occorre chiedersi se il meccanismo previsto dall’articolo 3, commi 5 e seguenti, del d.l. 90/2014, convertito in legge 114/2014, recentemente modificato dall’articolo 14-bis, comma 1, lettera a), del d.l. 4/2019, convertito in legge 26/2019, cioè la previsione di un turn over del 100% del costo delle cessazioni dell’anno precedente, cui cumulare un quinquennio di resti assunzionali, resti ancora in piedi.
La risposta da darsi dovrebbe essere negativa. La valorizzazione dell’autonomia programmatoria e finanziaria disposta dal “decreto crescita” poco si concilia con un regime vincolistico quale quello evidente nell’articolo 3, comma 5, del d.l. 90/2014. Maglio sarebbe stata la sua abolizione esplicita, perché in assenza di questa non è difficile immaginare pareri della magistratura contabile che finiscano per combinare impropriamente regole del “decreto crescita” con quelle del 2014, creando nuovamente inestricabili problemi operativi, prima ancora che interpretativi.
 
 
 
 
 

[1] Fermo restando quanto previsto dai commi 557-quater e 562 dell’articolo 1 della legge 27 dicembre 2006, n. 296, per i comuni privi di posizioni dirigenziali, il limite previsto dall’articolo 23, comma 2, del decreto legislativo 25 maggio 2017, n. 75, non si applica al trattamento accessorio dei titolari di posizione organizzativa di cui agli articoli 13 e seguenti del contratto collettivo nazionale di lavoro (CCNL) relativo al personale del comparto funzioni locali – Triennio 2016-2018, limitatamente al differenziale tra gli importi delle retribuzioni di posizione e di risultato già attribuiti alla data di entrata in vigore del predetto CCNL e l’eventuale maggiore valore delle medesime retribuzioni successivamente stabilito dagli enti ai sensi dell’articolo 15, commi 2 e 3, del medesimo CCNL, attribuito a valere sui risparmi conseguenti all’utilizzo parziale delle risorse che possono essere destinate alle assunzioni di personale a tempo indeterminato che sono contestualmente ridotte del corrispondente valore finanziario.
Print Friendly, PDF & Email
Torna in alto