23/12/2019 – La sicurezza giuridica e la razionalità amministrativa

La sicurezza giuridica e la razionalità amministrativa[*]

di Giuseppe Severini – Presidente di Sezione del Consiglio di Stato

Il rapporto tra razionale e irrazionale nelle amministrazioni pubbliche sembra segnato dalla condanna a un’eterna rincorsa. Quanto più si cercano ed elaborano modalità per configurare assetti razionali, tanto più insorgono nuovi elementi di irrazionalità. Non so se questo sia dovuto a quella che, descrittivamente, viene sintetizzata nella fatale complessità giuridica delle società contemporanee[2], che si dice giunta a un livello che sembra non prestarsi più a soluzioni autenticamente semplificanti; oppure alla tendenza sociale e politica – di cui l’ordinamento giuridico è solo specchio – all’orizzontalizzazione dei rapporti a partire da quelli dell’autorità e del potere[3]; alla perdita di un centro dominante e delle linearità che vi fanno capo; e, per quanto ci riguarda più direttamente, allo smarrimento dell’univocità, quando non della stessa identificabilità, dell’interesse pubblico: cioè della pietra angolare di qualsivoglia razionalità amministrativa[4].

Da giuristi dobbiamo confrontarci con il dato instabile che ne viene, che in misura crescente è quello – poco razionale, almeno in termini di coerenza – della tendenziale polverizzazione del diritto oggettivo in diritti soggettivi autonomi e non relazionali[5]; dell’enfatizzazione degli interessi particolari rispetto alle funzioni pubbliche; della propensione alla contrattualizzazione di tutti i rapporti[6] inclusi i rapporti pubblici, dove l’invasione del particolare arriva a prevalere al prezzo della precarizzazione degli interessi coinvolti, omologati per tutela e instabilità. È il difficile scenario – cui assistiamo da giudici, non sempre passivamente – della scomposizione del diritto amministrativo[7] e della sua progressiva frammentazione per settori, ognuno con proprie espressioni di potere. Il tema della “razionalità amministrativa” si deve confrontare con questo quadro in trasformazione: in una parola, insicuro perché malcerto, instabile, mutante. Dal che la questione del rapporto con la generale sicurezza giuridica, che domanda la prevedibilità delle qualificazioni e resta caposaldo irrinunciabile dello Stato di diritto.

Non risolve la questione di sistema della “razionalità amministrativa” il ridurre il tema alla prospettiva soggettiva elevata a misura di tutte le cose: e parlare – con l’art. 41 della Carta di Nizza dei diritti fondamentali dell’Unione europea – di diritto fondamentale dell’individuo «a una buona amministrazione». A parte che non esiste un rimedio giudiziale ai difetti generali, in tale prospettiva si degrada la questione a vicenda di preminente e variabile misura individuale. Cioè la si relativizza all’infinito, aggravandola fino a dissolvere ogni razionalità di sistema, spostandola dalla sua sede naturale all’intervento eventuale ed episodico di un giudice che per suo ufficio è legato alle specificità del caso concreto: e che non è né legittimato né attrezzato a porsi come risolutore demiurgico delle irrazionalità del tutto. Un rovesciamento paradossale.

In questo scenario di paradossi, per parlare di “razionalità amministrativa” la riflessione non può che tentare di storicizzare il tema e riferirsi a quella che è stata la grande trasformazione delle società occidentali e dei loro ordinamenti negli ultimi trent’anni, dalla fine della guerra fredda.

In Italia, nelle leggi non conosciamo l’espressione “razionalità amministrativa”. La nostra Costituzione, che risente delle esigenze essenzialmente politiche del dopoguerra, dedica poche disposizioni alla pubblica amministrazione. Rileva qui l’art. 97, che dice in quello che era l’originario suo primo comma: «I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione».

La “razionalità amministrativa” non è riducibile alla sola idea di “buon andamento”. Non esiste, del resto, un’opinione concorde dei giuristi italiani su cosa si debba intendere per “buon andamento dell’amministrazione” alla luce dell’art. 97 Cost.. Molti sono stati dell’avviso che sia un’espressione priva di un preciso contenuto giuridico e che sia semplicemente un obiettivo generale di congruenza e adeguatezza dell’azione amministrativa che si affianca alla legalità e all’imparzialità, queste sì regolate da norme[8]. Altri hanno poi tentato di dare al concetto un rilievo giuridico autonomo che funzionalizza la discrezionalità a obiettivi, di loro giuridicamente rilevanti, di coerenza ed efficacia[9]. Se ne ravvisa comunque una specificazione nella legge generale sul procedimento amministrativo, n. 241 del 1990, che all’art. 1, comma 1 (come modificato dalla legge n. 15 del 2005) dice a proposito dei «principi generali» dell’attività amministrativa: «L’attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge ed è retta da criteri di economicità, di efficacia, di imparzialità, di pubblicità e di trasparenza secondo le modalità previste dalla presente legge e dalle altre disposizioni che disciplinano singoli procedimenti, nonché dai principi dell’ordinamento comunitario». È una lettura interessante ma non appagante perché con la sua latitudine la disposizione – che peraltro non contempla testualmente l’efficacia, cioè la capacità di raggiungere gli obiettivi prefissati, che più rispecchia l’idea diffusa di buon andamento – testimonia la tendenziale complessità e al fondo l’orizzontalità di cui si è detto. Tutto può essere riversato nell’art. 1, comma 1, della legge n. 241 del 1990 e tutto ne può essere tratto. L’eventuale conflitto tra questi diversi «principi generali» può trovare di volta in volta soluzioni contraddittorie che non giovano alla pratica della sicurezza giuridica: che rispetto alla razionalità amministrativa non può che, nello Stato di diritto, restare punto fermo.

Si tratta in effetti di clausole aperte che demandano al giudice la loro concretizzazione, sovraccaricandolo di compiti definitori. Cerchiamo allora di rintracciare quali sono gli elementi fondo che sono andati orientando il modo dei giuristi di vedere le cose e di cui la giurisprudenza va a risentire.

Negli anni Novanta, forse per reazione o come conseguenza della guerra fredda appena finita, prese piede e forma una tendenza – rimasta mainstream per almeno un ventennio – orientata a ravvisare una stretta analogia tra la razionalità amministrativa economica privata e la razionalità amministrativa pubblica, e a ricondurre questa agli schemi della prima. Muoveva dalla constatazione, difficilmente confutabile, delle crescenti diseconomicità che le pubbliche amministrazioni producevano. Sicché orientava le scelte organizzative pubbliche o di intervento pubblico verso modelli che, assumendo l’economicità a criterio di fondo, assumessero che i rapporti tra risorse disponibili e i risultati da conseguire fossero quanto più simili a quelli del mondo privato: perciò anche dal punto di vista giuridico occorreva, ove possibile, dotarle delle forme flessibili proprie dei privati. Gli scienziati dell’amministrazione pubblica guardarono così ai teorici delle organizzazioni aziendali e ai loro modelli, essenzialmente economici, di miglior relazione tra risorse e risultati d’impresa, stimati autentiche espressioni di razionalità amministrativa (administrative rationality): efficienti in ragione dell’ottimizzazione economica delle risorse e dei processi decisionali e produttivi; per questo recanti le condizioni e gli assetti orientati al maggior risultato aziendale e – secondo ragione economica – istituzionale.

In effetti, in questo trentennio si sono opposte (a) un’accezione tendenzialmente assimilante le organizzazioni, improntata a una loro visione «panprivatistica» (che tende a spostare per quanto è possibile i modelli organizzativi e di azione verso forme private, assunte come le più efficienti, quand’anche mediante mere “privatizzazioni fredde”, cioè solo formali): con la conseguenza del tendenziale assorbimento già nella legge delle valutazioni di opportunità in cui si concretizza l’interesse pubblico, implicitamente abbassando la valutazione dell’interesse generale al rango di motivo contrattuale; (b) un’accezione che continua a distinguere – seguendo il lascito della Rivoluzione francese e i caratteri tradizionali dello Stato di diritto continentale – le organizzazioni private dalle organizzazioni pubbliche in ragione della cura dell’interesse pubblico inteso non come interesse di un attore contrapposto ma come interesse generale: e che pertanto lascia allo stesso interesse pubblico e alla sua cura concreta la caratteristica propria di organizzazioni e azioni pubbliche[10]. Sono da segnalare le posizioni intermedie, che – alla sottile ricerca di un non facile equilibrio – distinguono nella arena pubblica i non sempre predefiniti casi in cui le amministrazioni agiscono per un’effettiva cura di questi interessi da quelli in cui sono omologabili ai privati[11]. In buona parte è questa la via seguita in Italia. Resta aperta, nelle vaste zone grigie dei tanti settori, la questione di dove è preferibile regolare un chiaro ed effettivo confine, le derivazioni ne sono notevoli. La presenza della cura sostanziale di un interesse generale dovrebbe restare dirimente[12].

Entrambe le polarizzate concezioni affermano di appuntarsi su basi di razionalità, anche se sono le prime che la conclamano a nuovo motivo fondamentale, sub specie di razionalità economica. Entrambe dunque rivendicano il primato della rispettiva razionalità. Razionale viene da ratio, rapporto: quella omologante si rapporta al principio di economicità, quella differenziante al principio di adeguatezza.

La tendenza omologante ha dunque rappresentato un motivo dominante della rivoluzione attuata negli anni Novanta, ispirata alle teorie del New Public Management, che – ravvisando la comune egida di organizzazioni complesse – si orientava ai risultati e figurava di affrontare le questioni organizzative pubbliche con gli approcci e le modalità manageriali dell’impresa: quella che polemicamente M. Foucault già aveva chiamato, vedendone gli albori, la “governamentalità neoliberale” che estende il ragionamento economico a tutti i settori pubblici (giustizia, istruzione, ricerca, sanità, …). Insomma, un modello di gestione che, valorizzando il principio di efficienza, e intendendo questa in senso economico, estende al contesto pubblico gli strumenti propri del settore privato per la combinazione ottimale dei fattori produttivi in ragione degli obiettivi[13]

Quest’idea, a parte le riflessioni sui suoi effetti, si è confrontata fatalmente con alcune contraddizioni implicite che venivano ad emerge nel sottovalutare che non solo per la tradizione continentale ma anche per l’intrinseca differenza questo modello era destinato a incontrare criticità non superabili.

Possiamo tentare una rassegna di alcune delle tante ragioni per cui il modello dell’assimilazione è entrato in crisi. Nel lungo periodo ci si è resi conto che i tentativi di ricondurre l’organizzazione pubblica a quella aziendale impattano, a tacer d’altro, con:

  • l’alto tasso di complessità originaria delle organizzazioni pubbliche, dove coesistono diversi modelli organizzativi, ciascuno dei quali risponde a una sua propria razionalità amministrativa[14]: ad es., la ripartizione delle competenze a diversi livelli territoriali di governo, che genera tra le più impattanti irrazionalità amministrative, specie quando è posto in modo asimmetrico;
  • la circostanza che lo studiato fenomeno della razionalità limitata (bounded rationality)[15] segue nelle pubbliche amministrazioni percorsi particolari, diversi da quelli da deficit cognitivo: spinge qui gli attori – quand’anche bene informati – alla reiterazione di comportamenti istituzionalizzati, i quali rispondono a una razionalità tutta particolare, cioè la logica dell’appropriatezza (logic of appropriateness)[16], vale a dire la conformità a identità o a regole precostituite; il che contraddice la semplice e più razionale conseguenzialità (cioè: la considerazione delle conseguenze del proprio comportamento, logic of consequentiality) che dovrebbe essere a base dell’idea di “amministrazione di risultato” e che spesso è causa – peraltro fisiologica per via di complessità – di conflittualità interne (che rimedi come la procedimentalizzazione delle decisioni o la loro contestualizzazione in conferenza di servizi solo in parte risolvono) che si sovrappongono alla cultura del risultato.
  • la conseguente prevalenza, in termini weberiani[17], della razionalità in base al valore (Wertrationalität) sulla razionalità in base al fine (Zweckrationalität): le amministrazioni pubbliche orientano la propria azione massimizzando l’interesse pubblico per il quale sono istituite.
  • la tendenziale scarsa flessibilità – in ragione delle garanzie dello Stato di diritto – dell’organizzazione amministrativa, che difatti in Italia è coperta in principio dalla riserva di legge, quand’anche relativa e dai confini non univoci (art. 97 Cost.: «I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione»). Molto, in ricerca dell’attenuazione della rigidità, si è posto il tema del confine tra legge regolamento e molto si è tentato di allargare la sfera del secondo arrivando anche a teorizzare una riserva di regolamento. Ma la garanzia della organizzazione per legge è anch’essa irrinunciabile. Del resto, lo stesso regolamento, all’ultimo, è anch’esso dotato di poca flessibilità.
  • la tendenziale non-economicità dei servizi pubblici indefettibili ma – se universali – antieconomici, che per questo sono assunti dalle pubbliche amministrazioni. Dove il costo (l’elemento che nelle aziende si tende a contenere o comprimere) difficilmente è inferiore all’utilità e dove prevale un dovere di esternalizzazione del beneficio o delle conoscenze, e comunque valutazioni di opportunità sociale e politica. Si pensi, ad esempio, ai sovraccosti necessari per assicurare la universalità dei servizi pubblici, come la scuola o la sanità pubblica – per i quali il servizio va garantito senza discriminazioni, a prescindere da costo, localizzazione e fascia sociale–, in urto con il principio di economicità e la soluzione più economica; come più in generale alle situazioni di naturale market failure riguardo a livelli minimi di prestazioni di servizi che sono comunemente stimati irrinunciabili, ovvero riguardo alla gestione dei beni pubblici, materiali (il demanio) e immateriali (es. l’ordine pubblico).
  • la cura necessaria dell’interesse pubblico: cioè il variegato numero e spesso l’eterogeneità delle funzioni pubbliche (la c.d. pluralità dei bisogni), a muovere da quelle delle istituzioni rappresentative.
  • ultimo ma non ultimo perché è la questione di fondo, l’irriducibilità degli interessi pubblici al rango degli interessi dei privati se non al prezzo di lasciare gli interessi generali, che in essi trovano la prima garanzia, senza differenziazione rispetto a quelli tutelabili con gli strumenti variabili ed episodici dell’autonomia contrattuale[18].

Relativizzata così la fiducia nella tendenziale omologazione, possiamo dire che – in termini di razionalità amministrativa – questa contraddizione può essere vista in termini rovesciati: la razionalità aziendale diviene talora irrazionalità amministrativa; ovvero la razionalità amministrativa appare talora irrazionalità dal punto di vista aziendale. Ma è solo un’angolazione diversa dell’osservazione, il tema di fondo non cambia.

 

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Approfondendo ulteriormente, però, si deve osservare che nella pubblica amministrazione frequentemente le irrazionalità organizzative danno luogo a irrazionalità funzionali e queste a atti illegittimi (ad es. in ipotesi di frammentazioni o asimmetrie di competenze o di livelli di governo): anche se, naturalmente, irrazionalità funzionali possono essere generate da amministrazioni organizzate in modo razionale.

Benché conseguenza piuttosto che causa di quanto sopra, questo può essere un buon punto di osservazione per vagliare le forme e gli effetti dell’intervento “razionalizzante” (meglio: …. “de-irrazionalizzante”) del giudice amministrativo. E può essere occasione di serie riflessioni proprio in riguardo alla sicurezza giuridica[19].

In effetti, se si guarda al rovescio, sistematico o episodico, della razionalità organizzativa, vale a dire alle manifestazioni – apparenti o reali – di irrazionalità negli assetti o nei comportamenti delle pubbliche amministrazioni, si deve partire dal dato che l’agire del giudice amministrativo è fatalmente contenuto. Non è quello di un riorganizzatore “ortopedico” e sistematico dell’amministrazione che fa riferimento a modelli economici ma più semplicemente quello concreto e correzionale di singoli atti o comportamenti o di loro conseguenze: con annullamenti, dichiarazioni di nullità, accertamenti, risarcimenti, ecc..

In questi termini, occorre guardare alla strumentazione propria del giudice amministrativo per questa più semplice operazione correzionale. Essa stessa pone, in effetti, questioni di non poco rilievo rispetto al tema fondamentale della sicurezza giuridica.

Il giudice amministrativo italiano ha uno strumento tipico nel sindacato di legittimità che è la rilevazione nell’atto del vizio di eccesso di potere, a fianco di quello più strettamente cassatorio di violazione di legge.

Il sindacato di violazione di legge riguarda la violazione formale di una disposizione di legge o equiparata e risponde a una logica binaria, come avviene nei giudizi tra privati dove la validità degli atti è essenzialmente vagliata sulle prescrizioni date. È perciò conseguenziale che, per le ragioni dette, nel modello dell’omologazione pubblico-privato, che tende ad assorbire al livello legislativo la valutazione di opportunità, il parametro dominante sia la violazione di legge, la quale è propria dei rapporti paritari e contrattualistici e che non a caso caratterizza il giudizio civile.

All’opposto, il sindacato per eccesso di potere, proprio del ben più ampio giudizio amministrativo e sconosciuto al diritto privato (salvo i casi eccezionali di abuso del diritto), corrisponde al carattere discrezionale dell’attività dell’amministrazione pubblica. Riguardando l’esercizio pubblico del potere, si incentra anzitutto sulla tutela costitutiva di annullamento; prescinde dallo stretto parametro formale e porta il motivo dell’atto a elemento necessariamente manifesto, rilevante per entrambe le parti e dunque sindacabile in giustizia; riguarda il modo della realizzazione in concreto dell’interesse pubblico, dunque si incentra sul connotato di vizio della funzione pubblica per come svolta in concreto.

Poiché ratio dell’azione pubblica è l’interesse pubblico, la sua razionalizzazione giudiziale ha in questo sindacato sostanziale un elemento centrale[20].

Negli ultimi decenni il sindacato sull’eccesso di potere si è andato modificando nelle modalità e nei contenuti:

  • da un lato è divenuto sempre più sostanziale, cioè sempre meno ancorato a un riscontro giudiziale della presenza, nel provvedimento cointestato, di uno degli indicatori presuntivi elaborati dalla giurisprudenza, da vagliare comunque nel caso concreto (le c.d. figure sintomatiche: es. disparità di trattamento, travisamento dei fatti, contraddittorietà, difetto di motivazione, ecc.: anzi, tale era il carattere formale del difetto di motivazione che la legge n. 241 del 1990 sul procedimento amministrativo lo ha spostato a violazione di legge);
  • dall’altro si è spinto sempre più nella direzione, “forte”, dell’uso distorto – illogico, incoerente, irragionevole, sproporzionato, ecc. – della discrezionalità, sia amministrativa che tecnica; e così da un lato è andato a confrontarsi col tema dell’irrazionalità dell’azione amministrativa; dall’altro – nel riportarla correttivamente alla razionalità – si è trovato ad agire, con nuovo e ampio margine di apprezzamento, in una sorta di spazio intermedio: quello tra l’irrazionalità concreta dell’agire amministrativo e il modello ‘controfattuale’ immaginato conforme alla funzione tipica del potere, in quanto razionale o come si dice “ragionevole”.

Questo andamento ha messo spesso alla prova i limiti della giurisdizione amministrativa rispetto al principio immanente di separazione dei poteri. La “ragionevolezza” è categoria dai malcerti confini che rende malcerto il suo uso tecnico di vaglio giurisdizionale dell’atto amministrativo discrezionale[21]. Il che già di suo poneva talvolta questioni a proposito del paradigma di certezza del diritto, sub specie di prevedibilità delle decisioni. È inutile dire infatti che un’accezione lata di irragionevolezza si presta all’opinabilità, dunque all’addebito di sostituzione del giudice nella valutazione amministrativa.

Sta di fatto che, in questa lenta ma incisiva trasformazione, il sindacato del giudice amministrativo sull’eccesso di potere si è andato orientando verso clausole generali dell’azione amministrativa, dalla definizione essenzialmente giurisprudenziale. È emerso così – laddove praticabile nei rapporti autoritativi – il rispetto del principio generale dell’affidamento (specificazione della buona fede); ovvero dai primi anni Novanta si è passati dal riferimento alla detta, non bene definita, ragionevolezza come figura sintomatica alla più diretta proporzionalità nella comparazione degli interessi o nell’intensità dell’incidenza sull’unico interesse rilevante: talvolta ancora intesa come sinonimo o come specificazione della ragionevolezza, più avanti come autonomo vizio intrinseco del provvedimento e nuovo, definitivo e onnicomprensivo parametro di misurazione da parte del giudice della legittimità a proposito dell’eccesso di potere.

Non c’è qui bisogno di ricordare quali sono i caratteri del riscontro da parte del giudice del rispetto del principio di proporzionalità operato mediante i suoi tre caratteristici test (necessarietà, idoneità o adeguatezza, stretta proporzionalità). Sappiamo che si tratta di un principio che proviene, per spillover effect, dalla giurisprudenza di Corte di Giustizia dell’UE, la quale a sua volta lo ha recepito dalla giurisprudenza tedesca[22]; e che si dice che il principio sia stato elaborato dalla dottrina tedesca dell’inizio del secolo XX. Questa è un’idea comune e di fronte alle idee comuni consolidate è saggio non contraddire[23].

Il principio di proporzionalità nell’ordinamento italiano è entrato nella stessa legislazione. Ad esempio, stato codificato dal ricordato art. 1, comma 1, della legge n. 241 del 1990, come modificato dalla legge n. 15 del 2005 nelle leggi attuative di direttive comunitarie (es. d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163, Codice dei contratti pubblici) o senz’altro nazionali (d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, Norme in materia ambientale, che all’art. 178, comma 3, menziona il principio di proporzionalità per l’attività di gestione dei rifiuti).

Il riferimento, da parte del giudice, comporta un giudizio del caso concreto che è incentrato essenzialmente sull’adeguata misura del potere ivi esercitato. Sicché – in punto di previa calcolabilità del giudizio – si discosta sia dall’ordinaria prevedibilità delle conseguenze della violazione di legge, sia dalla non difficile prevedibilità delle conseguenze del riscontro delle figure sintomatiche dell’eccesso di potere. Di più: comporta una parametrazione tutta interna all’uso del potere nel caso singolo, sicché rende poco utile la stessa presenza di precedenti su casi analoghi. Pertanto è fatale che all’utilizzazione di quest’ormai diffuso strumento di sindacato di legittimità amministrativa faccia eco un abbassamento in punto di garanzia di sicurezza giuridica. Quanto più il principio è utilizzato dai giudici, tanto più sorge un problema di sistema: tra la sicurezza giuridica da un lato, la reductio ad rationem del comportamento amministrativo dall’altro.

Sullo sfondo si profila allora quello che potremmo chiamare – parafrasando il filosofo della psicanalisi Donald Davidson[24] – il paradosso dell’irrazionalità giuridica. Tanto più, con gli strumenti della ragione e della proporzione, si tende a riparare in giustizia alla carenza di razionalità, tanto più si rischia di introdurre irrazionalità di sistema perché si abbassa la generale sicurezza giuridica, base della razionalità complessiva[25]. C’è il pericolo di un autoinganno che ingenera precarietà nella calcolabilità preventiva del diritto. Il che è quanto di più irrazionale perché si passa dall’irrazionalità del singolo atto all’irrazionalità di sistema.

Si pongono dunque serie questioni per non lasciare sconfinare la riparazione dell’irrazionalità in inaccettabili dilatazioni della capacità di intervento giudiziale che alla lunga conducono al gouvernement des juges. Il che conduce alla perpetua questione di fondo, quella della legittimazione del giudice a dare diritto. La razionalizzazione ad opera del giudice, insomma, domanda controlimiti. Questi vanno riposti in meccanismi di autocontenimento, a prevenire l’arrivo di rimedi esterni.

È bene dunque che la razionalizzazione ad opera del giudice resti improntata a un’interpretazione prudente, da judicial restraint: moderata, cauta, quanto meno lontana dalle norme e dunque dal principio di separazione dei poteri; che permanga ordinatrice senza trasporsi in creatrice di diritto; che non vada a spostarsi – attraverso questa pur apprezzabile tecnica di rilevazione dell’eccesso di potere[26] – nei campi dubitabili di un judge-made law. La rassicurazione sociale mediante la prevedibilità delle conseguenze giuridiche dei comportamenti è valore di base, necessario per la certezza, l’affidamento di tutti e la stabilità economica e sociale.

 

Giuseppe Severini

Presidente di Sezione del Consiglio di Stato

Pubblicato il 20 dicembre 2019

 


 

[*] Relazione all’incontro di studi tra il Consiglio di Stato e il Tribunal Supremo, Sala Tercera, de lo Contencioso-Administrativo, Madrid, 15 novembre 2019.

 

[2] La letteratura sulla teoria della complessità applicata al diritto è vasta. Si veda ad es. la raccolta di scritti di G. GEMBILLO, La complessità del diritto, Napoli 2009. In Francia si usa fare riferimento alla complexification du droit: v. il rapporto del Conseil d’État del 2006, Sécurité juridique et complexité du droit – Rapport public 2006, in http://www.conseil-etat.fr/Decisions-Avis-Publications/Etudes-Publications/Rapports-Etudes/Securite-juridique-et-complexite-du-droit-Rapport-public-2006.

[3] v. L.M. FRIEDMAN, La società orizzontale, Bologna 2002 [The Horizontal Society, New Haven and London 1999].

[4] F. MERUSI, La legalità amministrativa. Altri sentieri interrotti, Bologna 2012, 63 ricorda dalla fine del sec. XVII è ius receptum che la razionalità della pubblica amministrazione sia doverosa, perché la sua azione non sia arbitraria e questo precede lo stesso principio di legalità.

[5] J. CARBONNIER (1908–2003), Droit et passion du droit sous la Ve République, Paris 1996, 56 e 12a ss..

[6] Per F. GALGANO, La globalizzazione nello specchio del diritto, Bologna 2005, 99, il contratto è ormai divenuto il principale strumento di governo della società civile.

[7] F. MERUSI, Sentieri interrotti della legalità, Bologna 2007, 27 parla di intrinseca decostruzione del diritto amministrativo, individuandone la causa dell’abbandono del fondamentale principio di legalità, il che avviene – tra l’altro – elevando la valutazione degli interessi da elemento dell’istruzione a elemento della decisione; contrattualizzando le decisioni e con forme di diritto privato che superano le tipicità degli atti amministrativi; demandando le decisioni a fondazioni e società per azioni, e così via.

[8] A.M. SANDULLI, Manuale di diritto amministrativo, XIII ed., Napoli 1982, 516. È eloquente che il manuale di M.S. GIANNINI, Diritto amministrativo, Milano 1970, 84, dedichi al buon andamento soltanto poche righe per dire che il principio “si rivolge all’amministrazione, ma non in quanto svolga la sua attività istituzionale, bensì in quanto svolga attività di organizzazione di se stessa”; e “siccome sinora non ha ricevuto applicazioni giurisprudenziali, mancano elementi per fissarne l’esatto ambito”.

[9] es. A. POLICE, Principi generali dell’azione amministrativa, in Paolantonio, Police, Zito (a cura di), La pubblica amministrazione e la sua azione: saggi critici sulla legge n. 241/90 riformata dalle leggi n. 15/2005 e n. 80/2005, Torino 2005.

[10] P. KRUGMAN, Un Paese non è un’azienda, Milano 2015 [A Country Is Not a Company, in Harvard Business Review e Harvard Business School Press, 2009]. Sul tema v. ampiam., con particolare riguardo alla giustizia, A. GARAPON, Lo Stato minimo. Il neoliberalismo e la giustizia, Milano 2012 [La Raison du moindre État: Le néolibéralisme et la justice, Paris, 2010]. Sua è la citazione di Foucault, tratta da Nascita della biopolitica: Corso al Collège de France (1978-1979) Milano 2005 [Naissance de la biopolitique: Cours au collège de France (1978-1979), Paris 2004], dove si mettono a confronto sul tema le due grandi scuole del neoliberismo del sec. XX, l’ordoliberista tedesca e la scuola di Chicago.

[11] cfr. S. CASSESE, L’arena pubblica. Nuovi paradigmi per lo stato, in Riv. trim. dir. pubbl., 2001, 601 ss.; Id., Mercatizzazione dello Stato o arena pubblica, in La concorrenza tra ordinamenti giuridici, a cura di A. Zoppini, Bari-Roma 2004, 219; G. NAPOLITANO, Pubblico e privato nel diritto amministrativo, Milano 2003; S. CASSESE, P. SCHIERA e A. VON BOGDANDY, Lo stato e il suo diritto, Bologna 2013.

[12] cfr. infra, nota n. 18.

[13] di questo concetto è espressione, ad es, la c.d. lex fiscalis europea con il vincolo del pareggio del bilancio, espressa nel Trattato sulla stabilità, coordinamento e governance nell’unione economica e monetaria (c.d. fiscal compact) del 2012 e recepita in Italia dalla legge costituzionale n. 1 del 2012 che ha modificato gli artt. 81, 97, 117 e 119 Cost.: v. ad es. G. DELLA CANANEA, Lex fiscalis europea, in Quaderni costituzionali, 2014, 7.

[14] G. FREDDI, Governabilità democratica e razionalità amministrativa, in Riv. trim. scienza dell’amm.ne, 1981, I, 7; S. ZAN, Teoria dell’organizzazione e pubblica amministrazione, in G. Freddi, a cura di, Scienza dell’Amministrazione e politiche pubbliche, Roma 1989, 284 ss..

[15] rilevato dai noti studi di H.A. SIMON, Il comportamento amministrativo, Bologna 1958. [Administrative Behavior. A Study of Decision-Making Processes in Administrative Organization, New York 1947].

[16]  J.G. MARCH e H.A. SIMON, Teoria dell’organizzazione, Milano 2003 [Organization, New York 1958]; J.G. MARCH, Prendere decisioni, Bologna 1998, 67 ss. e 110 ss..

[17] M. WEBER, Il lavoro intellettuale come professione (La scienza come professione; La politica come professione), Torino 1966 [Wissenschaft als Beruf e Politik als Beruf, 1919].

[18] Per una critica della privatizzazione del diritto amministrativo, specialm. circa l’inadeguatezza delle categorie privatistiche per la tutela degli interessi pubblici, v. G. ROSSI, Diritto pubblico e diritto privato nell’attività della pubblica amministrazione. Alla ricerca della tutela degli interessi, in Dir. pubbl., 1998, III, 661 ss., oggi in Saggi e scritti scelti, Torino 2019, 19 ss..

[19]  Su questo rapporto v. gli atti del convegno di Modanella dell’8 e 9 giugno 2018 su Principio di Ragionevolezza delle decisioni giurisdizionali e diritto alla sicurezza giuridica, raccolti nell’omonimo volume a cura di F. Francario e M.A. Sandulli, Roma 2018.

[20] il che induce a riflessioni sulla razionalità di riparti di giurisdizione definiti a livello legislativo o giurisprudenziale sulla scia del pensiero omologante che si è detto, per cui al giudice amministrativo vanno controversie che per lo più si presentano come dispute private su cosa altrui, dove il vizio più lamentato è la violazione di legge (es. in tema di aggiudicazioni di contratti pubblici e soprattutto di risarcimenti per equivalente) e al giudice civile controversie che in realtà comportano valutazioni assai importanti sul rapporto con l’interesse pubblico, dove il vizio più lamentabile sarebbe l’eccesso di potere (per una recentissima conferma, Cass., SS.UU., 11 novembre 2019, n. 29078, per la quale è del giudice orinario la giurisdizione sul provvedimento di revoca, da parte dell’ente pubblico, degli amministratori di una società a partecipazione maggioritaria pubblica: v. già Cass., SS.UU., ord. 1 dicembre 2016. n. 24591; ord. 14 settembre 2017, n. 21299).

[21] per una recente esposizione di sintesi: S. CIVITARESE MATTEUCCI, Ragionevolezza [dir. amm.], in Diritto on line (2017). Il paradigma nasce nella giurisprudenza costituzionale a proposito del principio di eguaglianza: E. CHELI, Stato costituzionale e ragionevolezza, Napoli 2011; F. MODUGNO, La ragionevolezza nella giustizia costituzionale, Napoli 2007.

[22] a muovere dal noto Kreuzbergurteil del 1982, dove il prussiano Oberverwaltungsgerichts aveva invalidato l’ordinanza di chiusura di un negozio alimentare nel quale senza licenza si vendeva alcool, senza che l’autorità avesse valutato la possibilità di una sanzione di minor gravità: per passare poi a un importante sentenza del 1971 del Bundesverfassungsgericht.

[23] vale ricordare che la prima moderna elaborazione del principio di proporzionalità nel nascente diritto amministrativo venne fatta – come regola aurea del minimo mezzo e minimo sacrificio – da Gian Domenico Romagnosi (1761-1835), nel 1814, al crepuscolo del napoleonico Regno Italico, nelle sue Instituzioni di diritto amministrativo, poi Principj fondamentali di diritto amministrativo onde tesserne le istituzioni: “la regola direttrice dell’amministrazione in questo conflitto si è far prevalere la cosa pubblica alla privata col minimo possibile sacrificio di privata proprietà e libertà”.

[24] D. DAVIDSON (1917-2003), I paradossi dell’irrazionalità, Milano 1989 [Paradoxes of Irrationality, Cambridge 1982]: lo dice dell’acrasìa (ἀκρασία: incostanza, incontinenza, intemperanza, debolezza della volontà, incapacità di agire secondo ragione), del wishful thinking, dell’autoinganno.

[25] V. ampiam. sul tema la recente raccolta di scritti di F. FRANCARIO e M.A. SANDULLI (a cura di), Principio di ragionevolezza delle decisioni giurisdizionali e diritto alla sicurezza giuridica, Napoli 2018.

[26] Sul tema v. F. PATRONI GRIFFI, Il metodo di decisione del giudice amministrativo (Relazione al convegno su “La sentenza amministrativa ingiusta e i suoi rimedi” – Castello di Modanella, Siena, 19 e 20 maggio 2017), in www.giustizia-amministrativa.it, spec. § 4: “ […] la tecnica di sindacato per eccesso di potere prescinde dal metodo sillogistico dell’applicazione della norma al caso concreto, perché prescinde, in un certo qual senso, dalla norma stessa, e si avvicina a un sindacato condotto per clausole generali con il quale si verifica il rispetto di canoni quali proporzionalità, non contraddittorietà, logicità, coerenza; il che avvicina il giudizio di diritto del giudice amministrativo – non solo italiano, ritengo – alla tradizione giudiziaria dei Paesi di Common Law e accentua il profilo creativo, quale partecipe del processo di formazione del diritto, della giurisprudenza amministrativa”.

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