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Il Consiglio di Stato si pronuncia sulle interdittive antimafia

di Paolo Carbone – Avvocato
A distanza di poco meno di un mese dalla sentenza n. 5410 del 2018, la Sezione III torna prepotentemente sul tema dell’interdittiva antimafia di cui all’art. 91D.Lgs. n. 159 del 2011 con la sentenza 9 ottobre 2018, n. 5784.
Il caso trae origine da un contratto d’appalto di servizi affidato dall’Agenzia delle Entrate ad un Raggruppamento Temporaneo di Imprese, nel quale, a seguito di verifiche da parte dell’Amministrazione prefettizia, sono stati riscontrati elementi di infiltrazione mafiosa in capo ad un’impresa mandante. Per effetto di tale accertamento l’amministrazione ha adottato provvedimento inibitorio chiedendo alla mandante capogruppo di estromettere l’impresa mandataria oggetto di interdittiva. Tale provvedimento è stato oggetto di impugnativa di fronte al TAR del Lazio il quale ha accolto il ricorso, annullando l’interdittiva.
La sentenza di primo grado è stata oggetto di appello incidentale da parte del Ministero dell’Interno e da parte della Capogruppo mandataria.
In primo luogo il Supremo Organo Giudicante Amministrativo si sofferma sulla distinzione tra comunicazione e interdittiva antimafia.
Mentre la comunicazione consiste nell’attestazione della sussistenza o meno di una delle cause di decadenza, sospensione o divieto di cui all’art. 67 del medesimo D.Lgs. n. 159 del 2011, l’interdittiva è fondata su una valutazione di tipo prognostico e presuntivo circa la sussistenza di pericoli di infiltrazione e ciò a prescindere dall’accertamento di responsabilità penali. In tal senso, dunque, viene richiamato l’orientamento della Sezione secondo il quale per l’applicazione dell’interdittiva occorrono idonei e specifici elementi di fatto “obiettivamente sintomatici e rivelatori di concrete connessioni o possibili collegamenti con le organizzazioni malavitose” e non “è necessario un grado di dimostrazione probatoria analogo a quello richiesto per dimostrare l’appartenenza di un soggetto ad associazioni di tipo camorristico o mafioso ma un” “quadro indiziario complessivo, dal quale possa ritenersi attendibile l’esistenza di un condizionamento da parte della criminalità organizzata” (cfr, tra le altre, Cons. di Stato, Sez. III, 1 settembre 2014, n. 4450 e prima Cons. di Stato, Sez. III, 28 novembre 2013, n. 5697).
Sempre nell’ambito dei criteri di valutazione per l’applicazione di tali misure, secondo il Consiglio di Stato occorre verificare se gli elementi “sintomatici ed indiziari” individuati siano sufficienti a far ritenere come “probabile” o “ragionevole” il rischio delle infiltrazioni.
Peraltro, al giudice amministrativo chiamato alla valutazione di tali elementi, non è certamente richiesta un’analisi del merito, posto che il giudice deve limitarsi a valutare la coerenza logica e l’aderenza rispetto alle risultanze dell’istruttoria.
D’altro canto, non è richiesto al giudice il raggiungimento di una prova di assoluta certezza probatoria degli elementi di infiltrazione mafiosa, essendo sufficiente una valutazione sulla base della regola causale del “più probabile che non”, integrata da dati di comune esperienza, evincibili dall’osservazione dei fenomeni sociali (qual è quello mafioso), e che risente della estraneità al sistema delle informazioni antimafia di qualsiasi logica penalistica di certezza probatoria raggiunta al di là del ragionevole dubbio (Cons. di Stato, Sez. III, 18 aprile 2018, n. 2343).
In applicazione dei suddetti principi il Consiglio di Stato, in accoglimento del ricorso principale e di quello incidentale, ritiene la sentenza di primo grado censurabile, in quanto non avrebbe tenuto conto di una serie di elementi indiziari imputabili ad una delle imprese con riferimento a:
– grave irregolarità relativa alla presenza di un amministratore di fatto;
– interposizione fittizia di persone nella intestazione delle quote societarie;
– condanne plurime per gravi reati riportate dall’amministratore di fatto.
Tali elementi non sono ritenuti rilevanti dal giudice di primo grado a fronte della mancanza di univocità e attualità degli stessi . Nella sentenza in esame, invece, aderendo ad un consolidato orientamento, il Consiglio di Stato afferma che l’interdittiva antimafia non deve necessariamente collegarsi ad accertamenti compiuti in sede penale di carattere definitivo, ma ben può essere sorretta da elementi sintomatici e indiziari del pericolo che possa verificarsi il tentativo di ingerenza nell’attività imprenditoriale da parte della criminalità organizzata (vd. tra le altre, Cons. di Stato, Sez. III, n. 4450 del 2014Cons. di Stato, Sez. III, n. 3759 del 2014).
Da un esame complessivo della vicenda, il Consiglio di Stato ha ritenuto che gli elementi raccolti e che hanno dato origine all’applicazione dell’interdittiva, fossero congrui, obiettivi, concreti e idonei a dimostrare l’attualità del collegamento con ambienti malavitosi e il conseguente condizionamento della società in questione da parte della criminalità organizzata.
In sostanza, ha ritenuto il Consiglio di Stato come fosse altamente probabile che il quadro indiziario presentasse degli elementi per cui i soggetti già colpiti da indagini penali avessero un rilevante potere di condizionare la vita sociale, determinando le scelte societarie.
Parallelamente all’accoglimento del ricorso principale, sono stati invece respinti i motivi di ricorso incidentale formulati dalla società. In primo luogo sono state rigettate le domande volte ad ottenere un risarcimento dei danni sia in relazione al provvedimento di interdittiva sia in riferimento alla domanda in forma specifica di subentro del contratto.
Per quanto concerne la richiesta risarcitoria, il Consiglio di Stato, uniformandosi alla pronuncia di primo grado, ha confermato l’insussistenza dell’elemento psicologico dell’illecito, sub specie, quantomeno della colpa.
Per quanto attiene alla domanda volta ad ottenere un subentro nel contratto, il Consiglio di Stato ne ha disposto la reiezione sia per la natura vincolata del provvedimento estromissivo consequenziale, sia in relazione al fatto che non vi era certezza sul nuovo affidamento e sul relativo contratto stipulato dall’Agenzia delle Entrate (stazione appaltante), atti che peraltro non erano stati oggetto di impugnazione.
Sono stati infine impugnati, in quanto ritenuti legittimi dal Giudice di Primo Grado, i provvedimenti della Prefettura e dell’ANAC con i quali la società aveva richiesto l’applicazione delle misure di cui all’art. 32D.L. n. 90 del 2014 ovvero di provvedere direttamente alla straordinaria e temporanea gestione dell’impresa limitatamente alla completa esecuzione del contratto di appalto ovvero dell’accordo contrattuale o della concessione.
A giudizio dell’appellante incidentale, la decisione del Prefetto di emettere un’informativa interdittiva in luogo delle misure di cui all’art. 32DL n. 90 del 2014, con conseguente provvedimento di interruzione del rapporto contrattuale, si porrebbe in contrasto sia con il principio di uguaglianza, posto che in identiche o similiari situazioni l’Autorità aveva fatto ricorso a tale strumento, sia con gli artt. 17 e 18 del CEDU (divieto dell’abuso di diritto).
A questo punto, il Consiglio di Stato richiama i principi generali derivanti dalla Costituzione.
Infatti, il legislatore nel disciplinare l’informativa interdittiva antimafia su base indiziaria ha il suo fondamento nella ragionevole esigenza del bilanciamento tra la libertà di iniziativa economica riconosciuta dall’art. 41 Cost. e l’interesse pubblico alla salvaguardia dell’ordine pubblico e alla prevenzione dei fenomeni mafiosi che, del resto, mediante l’infiltrazione nel tessuto economico e nei mercati, compromettono anche – oltre alla sicurezza pubblica – il valore costituzionale di libertà economica, indissolubilmente legato alla trasparenza e alla corretta competizione nelle attività con cui detta libertà si manifesta in concreto nei rapporti tra soggetti dell’ordinamento.

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