23/07/2019 – Straordinario nel caso di trasferta del dipendente. Non condivisibili tesi dell’Aran.

Straordinario nel caso di trasferta del dipendente. Non condivisibili tesi dell’Aran.

Sullo straordinario spettante nel caso di trasferta, l’Aran ha espresso pareri che appaiono in chiaro conflitto col d.lgs 66/2003.
L’Agenzia pare condotta in un (grave) errore nel considerare il concetto di “attività lavorativa”, che la porta poi a conclusioni oggettivamente non condivisibili.
Andiamo con ordine. L’articolo 41, comma 1, lettera d), del Ccnl 14.9.2000 dispone: “il compenso per lavoro straordinario, nel caso che l’attività lavorativa nella sede della trasferta si protragga per un tempo superiore al normale orario di lavoro previsto per la giornata. Si considera, a tal fine, solo il tempo effettivamente lavorato, tranne che nel caso degli autisti per i quali si considera attività lavorativa anche il tempo occorrente per il viaggio e quello impiegato per la sorveglianza e custodia del mezzo”.
Il punto di partenza contrattuale è chiaro:
  1. per gli autisti tutta l’attività lavorativa che vada oltre il normale orario di lavoro della giornata, comprensivo di viaggio e sorveglianza e custodia è lavoro straordinario;
  2. per gli altri lavoratori, può essere lavoro straordinario solo l’attività lavorativa svolta nella sede di trasferta eccedente l’orario ordinario di lavoro, non computando il viaggio.
La domanda che ci si pone, allora, è: quale tempo di viaggio non deve essere computato? Sia l’andata, sia il ritorno o solo il ritorno, nel caso di trasferta a cavallo tra la fine dell’orario normale di lavoro e un’attività lavorativa ulteriore.
L’Aran fornisce una risposta nell’orientamento RAL010: “se il lavoratore parte alle ore 12; raggiunge la sede di trasferta alle ore 14; partecipa ad una riunione dalle 14 alle 17; rientra in sede alle ore 19; in una giornata che prevede un normale orario di lavoro (dalle ore 8 alle ore 14), ha diritto ad una sola ora di lavoro straordinario. Nell’esempio citato, il conteggio è il seguente:
A) prestazione lavorativa effettuata prima di partire = 4 ore (dalle 8 alle 12);
B) orario d’obbligo giornaliero = 6 ore
C) ore di viaggio effettuate durante il normale orario di lavoro, ricompreso nel periodo di trasferta, che non possono essere considerate, ai fini dello straordinario, come effettivamente lavorate = 2 ore (dalle 12 alle 14);
D) prestazione lavorativa effettuata nella sede di trasferta = 3 ore (dalle 14 alle 17);
E) ore di viaggio effettuate al di fuori del normale orario di lavoro, utili ai fini dell’indennità di trasferta ma che non possono essere considerate, ai fini dello straordinario, come effettivamente lavorate = 2 ore (dalle 17 alle 19);
F) effettiva attività lavorativa della giornata = 7 ore pari ad A + D
G) la differenza F – B = 1 ora è l’eccedenza dell’effettiva attività lavorativa rispetto all’orario d’obbligo giornaliero per la quale può essere corrisposto lo straordinario”.
Nella lettera C) della risposta fornita dall’Aran abbiamo evidenziato in grassetto l’errore interpretativo nel quale è incorsa l’Agenzia. Essa ritiene che le ore di viaggio effettuate durante il normale orario di lavoro non possono considerarsi come “effettivamente lavorate” ma solo “ai fini dello straordinario”.
Cioè, l’Aran ritiene che lo straordinario maturi solo se in ogni caso il dipendente svolga un’effettiva attività di lavoro di almeno 6 in quel giorno; e per “effettiva attività” di lavoro l’Agenzia evidentemente intende l’espletamento delle mansioni svolte.
Sulla base di questa opinione, l’esempio finisce per considerare come straordinario solo un’ora, nonostante l’effettiva attività lavorativa svolta nella riunione pomeridiana sia di 2 ore ulteriori e successive alla conclusione dell’ordinario orario 8-14.
Questa conclusione non può essere condivisa, perché non è rispettosa delle disposizioni del d.lgs 66/2003.
Leggiamone le illuminanti definizioni contenute nell’articolo 1, comma 2:
Agli effetti delle disposizioni di cui al presente decreto si intende per:
a) “orario di lavoro”: qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni;
[…]
c) “lavoro straordinario”: e’ il lavoro prestato oltre l’orario normale di lavoro cosi’ come definito all’articolo 3”.
Andiamo, allora, all’articolo 3 del d.lgs 66/2003: “L’orario normale di lavoro e’ fissato in 40 ore settimanali”, che per il comparto Funzioni locali è di 36 ore.
Conseguentemente è lavoro straordinario tutto quello prestato oltre le 36 ore di lavoro ordinarie.
Quindi, contrariamente a quanto afferma l’Aran, se l’attività lavorativa svolta nell’esempio da essa considerato è di 2 ore e queste ore si aggiungono alle 36 settimanali svolte, esse non possono che essere tutte straordinario e non solo una.
Esaminiamo le motivazioni opposte, come possibile prova contraria. Soffermiamoci, a questo scopo, sul concetto di “lavoro effettivo”.
Ora, nel testo dell’articolo 1, comma 2, lettera a), del d.lgs 66/2003 di “lavoro effettivo” non se ne parla assolutamente. Il riferimento al “tempo effettivamente lavorato”, concetto analogo a quello di “lavoro effettivo” lo si reperisce nell’articolo 41, comma 1, lettera d), del Ccnl 14.9.2000. Attenzione alle date: il Ccnl noto anche come “code contrattuali” è del 2000; il d.lgs 66 è del 2003, di tre anni successivo.
Non è questione di poco. Si ha un disallineamento tra le indicazioni del Ccnl e quelle della normativa vigente.
Quale prevarrebbe, allora, tra le due? Attenzione: il d.lgs 66/2003 recepisce normativa comunitaria, le direttive 93/104/CE e 2000/34/C. Si tratta di disciplina di natura legislativa, che prevale sulla contrattazione collettiva, abilitata ad intervenire sulle materie trattate solo nei limiti in cui la norma primaria lo consenta. Ed essa non contiene nessuna disposizione che permetta ai Ccnl di definire l’orario ordinario di lavoro in modo diverso da quanto disposto dalle direttive europee e dal decreto legislativo di recepimento: i Ccnl possono solo intervenire sulla durata massima della prestazione lavorativa e sulle modalità di esecuzione del lavoro straordinario.
Torniamo, allora, all’articolo 1, comma 2, lettera a), del d.lgs 66/2003: può forse essere letto nel senso che laddove qualifica l’orario normale di lavoro come “ qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni” per “esercizio delle attività” intenda proporre proprio il “lavoro effettivo”?
La risposta appare necessariamente negativa. Esemplifichiamo proprio con riferimento ad una trasferta/missione. Se il dipendente è mandato dal datore in trasferta, non compie, ovviamente, il viaggio per propria valutazione autonoma, né la trasferta può considerarsi scollegata dalle obbligazioni che il lavoratore ha contratto col datore. Il lavoratore dà esecuzione ad un ordine che gli impartisce il datore, cioè di recarsi in una sede diversa da quella ordinaria di lavoro, per svolgere lì una certa attività.
E’ lecito affermare che laddove il lavoratore compia il viaggio necessario a raggiungere il luogo sede della trasferta non sia “a disposizione del datore di lavoro”? Ovviamente no. Ma, nel tempo di viaggio, il lavoratore non sta compiendo effettivo lavoro. E tuttavia: se il viaggio è funzionale alla trasferta, come può non essere computato nel normale orario di lavoro?
Infatti, secondo l’Aran, il viaggio effettuato nel corso dell’orario ordinario di lavoro (nell’esempio citato prima, quindi, tra le 8 e le 14) non implica riduzione oraria. Il Parere RAL 010 infatti recita: “le ore di viaggio […] sono computate nel normale orario di lavoro, nel senso che non devono essere recuperate (un dipendente inviato in trasferta in una giornata in cui è tenuto a lavorare dalle 8 alle 14, che parta alle 8 e rientri alle 14, impiegando due ore di viaggio tra andata e ritorno, non deve recuperare due ore di lavoro)”.
Ma, se sono computate nel normale orario di lavoro, concorrono alle 36 dovute settimanalmente; di conseguenza, se l’attività lavorativa svolta nella sede destinazione della trasferta è di 2 ore, queste 2 ore si aggiungono alle 36 dovute e, pertanto, ai sensi del d.lgs66/2003 sono integralmente straordinario. Non può sottrarsi un’ora, perché in questo modo il datore illecitamente non riconoscerebbe parte del normale orario di lavoro, che sarebbe di fatto ridotto a 35, unico modo per considerare lo straordinario svolto di 1 ora e non di 2.
Il problema è che l’articolo 1, comma 2, lettera a), del d.lgs 66/2003 non può in alcun modo essere letto nel senso che l’esercizio delle attività ivi richiamate corrisponda al concetto di “lavoro effettivo”. Il viaggio, essendo comandato e funzionale alla trasferta, non può non considerarsi vero e proprio “esercizio delle attività” del lavoratore, anche se si tratta di un’attività di fatto estranea allo svolgimento delle sue normali mansioni; ma, il datore di lavoro dispone di un potere di jus variandi, funzionale a flessibilizzare la prestazione e ben è possibile considerare tempo e modo di svolgimento di un viaggio finalizzato alla trasferta come ordine di svolgere la funzione attraverso anche il viaggio connesso.
In ogni caso, sul punto ha tolto qualsiasi dubbio la Cassazione, Sezione Lavoro, consentenza20.5.2017, n. 13466: “La normativa del 2003 riprende dal diritto europeo la definizione di orario di lavoro ed introduce una disciplina che va al di là dei limiti tematici del diritto dell’Unione. La definizione è così formulata: “Agli effetti delle disposizioni del presente decreto si intende per a) orario di lavoro qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni”. La formula, come è stato evidenziato da Cass. n. 1839/2012 e n. 1703/2012, è volutamente ampia e tale da includere nella nozione non solo l’attività lavorativa in senso stretto, ma anche le operazioni strettamente funzionali alla prestazione. A questo fine è necessario che il lavoratore sia “a disposizione” del datore di lavoro, cioè soggetto al suo potere direttivo e disciplinare”.
Non c’è nessun dubbio che nel caso della trasferta ordinata al dipendente, questo compia un’operazione funzionale alla prestazione da rendere in altro luogo, restando “a disposizione” del datore che ne ha comandato l’espletamento dell’attività in luogo diverso dalla sede normale. Se, infatti, il lavoratore non si recasse nel luogo comandato con l’ordine di trasferta, incorrererebbe nel potere disciplinare del datore.
Quindi, come si osserva nel primo motivo di doglianza oggetto dell’ordinanza della Cassazione Sezione lavoro 9.10.2018, n. 24828 ed ivi integralmente accolto, occorre definitivamente prendere atto che l’articolo 1, comma 2, lettera d), del d.lgs 66/2003 ha soppiantato l’articolo 1 del R.D. 692/1923 il quale stabiliva: “La durata massima normale della giornata di lavoro degli operai ed impiegati nelle aziende industriali o commerciali di qualunque natura, anche se abbiano carattere di Istituti di insegnamento professionale o di beneficenza, come pure negli uffici, nei lavori pubblici, negli ospedali ovunque è prestato un lavoro salariato o stipendiato alle dipendenze o sotto il controllo diretto altrui, non potrà eccedere le otto ore al giorno o le 48 ore settimanali di lavoro effettivo”.
La nozione restrittiva di “lavoro effettivo” enunciata dal R.D. 692/1923 è stata superata e non può considerarsi più applicabile, né in sede operativa, né tanto meno in sede interpretativa. L’Aran farebbe bene ad aggiornare e correggere al più presto il proprio orientamento, contrario alla disciplina europea, come correttamente interpretata dalla Cassazione.

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