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Dirigenti pubblici, separare politica e amministrazione

Luigi Tivelli

Uno Stato si regge su due basi di fondo, la politica e l’amministrazione, e in Italia forse la seconda oggi è ancora più debole della prima.

La memoria corta della classe politica sembra già aver dimenticato che non più di un mese e mezzo fa la Corte Costituzionale ha bocciato il decreto legislativo di riforma della dirigenza pubblica, un testo che però non incideva sui veri mali cronici che affliggono la nostra pubblica amministrazione, ai quali nell’ ultimo ventennio si sono aggiunti altri guai: fallimento della privatizzazione del rapporto di pubblico impiego per la dirigenza pubblica, specie con la successiva politicizzazione delle burocrazie; diffusione generalizzata del sospetto di corruzione; diffusa incapacità di assumere per tempo decisioni.

La contrattualizzazione del rapporto di lavoro è stata avviata nel 1992 e, pochi anni dopo, con l’introduzione dello spoil system, si è tradotta in un indebolimento delle burocrazie, che ha reso sostanzialmente i dirigenti pubblici dipendenti dai vertici politici di turno, con buona pace dell’articolo 97 della Costituzione che sancisce la separazione tra politica e amministrazione e l’imparzialità dell’amministrazione.

È questa condizione, ad esempio, che distingue il dirigente pubblico italiano da quello francese, che ha una sua ben diversa riconosciuta autonomia, autorevolezza, responsabilità, rispetto ai vertici politici. Fra l’altro, va evidenziato che mentre in Francia vi è un dirigente ogni 33 dipendenti, in Italia siamo ormai a un dirigente ogni 11 dipendenti. Il combinato disposto tra la privatizzazione del rapporto di lavoro e lo spoil system ha portato a far sì infatti che ogni ministro che arrivava man mano nominasse nuovi dirigenti (spesso con scarsi requisiti), col risultato di una debilitazione dello status e della funzione, di un aumento dei costi per la pubblica amministrazione, di una confusione dei compiti tra responsabilità politica e responsabilità amministrativa e di uno stallo dei processi decisionali.

È così che in vari Ministeri e amministrazioni pubbliche, in assenza di chiarezza sulla ripartizione delle competenze fra dirigenza politica e dirigenza amministrativa, si è verificata quella che è stata definita l’opzione zero, cioè, una volta giunti davanti all’ esigenza di assumere una decisione, la scelta di non decidere.

Per converso, le amministrazioni che hanno dato prova di maggiore efficienza, buon andamento e funzionalità sono proprio quelle i cui dirigenti non sono stati oggetto della privatizzazione del rapporto di impiego e dello spoils system, come avvenuto per gli appartenenti alla carriera prefettizia del Ministero degli interni e per i diplomatici del Ministero degli esteri. Come possiamo leggere dalle cronache, ad esempio, i prefetti operano in modo imparziale al servizio dello Stato nei territori di riferimento e tendono ad assumersi le responsabilità che ad essi competono rispettando la regola della separazione tra politica e amministrazione sulla base dei principi fissati dall’ articolo 97 della Costituzione.

Alla luce di queste esperienze allora, visti i pessimi risultati della privatizzazione del rapporto di impiego e ancor più dello spoil system, occorre chiedersi se non sia il caso di tornare ad estendere il regime di diritto pubblico (in cui la nomina del dirigente non spetta al Ministro), così come avviene per la carriera prefettizia e la carriera diplomatica (e per i militari e i magistrati), a tutta la dirigenza pubblica, restituendogli in questo modo dignità del ruolo, senso di appartenenza, autonomia rispetto al potere politico e responsabilizzazione, in presenza di un sistema organizzato di controlli. Sarebbe un passaggio fondamentale per ridare ossigeno alle nostre amministrazioni, un po’ stanche ed asfittiche.

20 gennaio 2017

Pagina 17 Il Messaggero  LEGGI QUI

 

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