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Quei no alla riforma costituzionale Renzi-Boschi che stupisce siano tanti

di Salvatore Sfrecola

 

Non avrebbe dovuto stupire Angelo Panebianco, intervenuto sul Corriere della Sera del 17 gennaio (Quel club anomalo anti riforma), se, in vista del referendum costituzionale di ottobre, il fronte del “NO” issa più bandiere che in politica identificherebbero schieramenti opposti. È proprio della Carta fondamentale dello Stato, infatti, una convergenza più ampia di quella che oppone destra e sinistra sulle politiche pubbliche, in particolare nel settore economico e sociale. Come fu in Assemblea costituente tra il 1946 e il 1947 quando le forze politiche in campo, dai cattolici ai comunisti ai liberali individuarono compromessi diretti ad assicurare una base solida al futuro assetto delle regole della Repubblica. E vollero che si continuasse così stabilendo, all’art. 138, che non si sarebbe fatto ricorso al referendum popolare se la riforma fosse stata “approvata nella seconda votazione di ciascuna delle Camere a maggioranza dei due terzi dei suoi componenti”, quella che si usa definire maggioranza “qualificata”. Perché in questo caso, sostenne l’on. Perassi che l’aveva proposta, si deve fondatamente presumere che la  riforma risponde ad esigenze sentite dalla maggioranza del Paese.

Ed è anche nella realtà delle variegate espressioni del pensiero politico istituzionale che su alcuni aspetti possano ritrovarsi esponenti di orientamenti diversi, per una volta accomunati dalla condivisione di principi fondamentali della forma di stato e di governo. Per cui appare sterile l’osservazione del Professore che taluni siano “per lo meno coerenti con la propria storia”, altri no. E che scendano in campo due comitati per il no, l’uno guidato dal Professor Alessandro Pace, l’altro vicino agli ambienti del Centrodestra cui aderiscono Annibale Marini, già Presidente della Corte costituzionale, Renato Brunetta, Gian Marco Centinaio, Luca Antonini che si presenta giusto oggi alla stampa in Senato nella Sala Nassiria.

Ma veniamo alla sostanza delle critiche alla riforma voluta dal governo Renzi, circostanza che la dice lunga sul ruolo strumentale alle esigenze del governo dacché le riforme costituzionali sono state sempre iniziativa del Parlamento e dei partiti e non dell’Esecutivo. Una riforma che va giudicata anche in rapporto all’Italicum, la legge elettorale voluta dallo stesso premier ed approvata a colpi di mozioni di fiducia.

Viene in primo luogo la questione dell’abolizione del bicameralismo paritetico o perfetto o paritario (due Camere con uguali poteri), tema sul quale da tempo ampia è la convergenza delle forze politiche e degli studiosi. Non solamente di coloro che ricordano i tanti casi in cui la seconda Camera rimediò a qualche grave errore commesso dalla prima. Anche in occasione della recente riforma della scuola ricordo che il relatore, al quale in un dibattito televisivo era stato fatto notare un errore nella formulazione di una norma, se ne uscì dicendo “rimedieremo alla Camera”.

Il fatto è che superare il bicameralismo come oggi è previsto si poteva realizzare in tanti modi come insegna la dottrina costituzionalista che ha immaginato varie soluzioni, essenzialmente basate su una distinzione di materie affidate alla seconda Camera ed una limitazione dei provvedimenti sui quali attuare una doppia lettura. Ad esempio i decreti legge, da convertire necessariamente in 60 giorni. E visto che parliamo di tempi è anche da smentire la vulgata, che fa molto presa nell’opinione pubblica, secondo la quale le lungaggini dell’approvazione delle leggi sarebbero state una costante nell’esperienza parlamentare di questi anni, mentre è noto che, quando si è voluto, le due Camere hanno deciso spesso in poche ore o in pochi giorni. Si è anche detto di un Senato più attento ai controlli sulla finanza, al sistema delle autonomie e alla normativa europea. Sempre con numeri ridotti. Ed è singolare che, mentre riduce giustamente i senatori da 315 a 100, la riforma Renzi lascia 630 deputati.

C’è poi da dire che desta forti perplessità l’abolizione delle Province (“che avevano tradizioni e dignità amministrativa”, scrive Panebianco, ma direi anche un ancoraggio alla storia, all’economia e alle tradizioni del territorio) anziché quei carrozzoni burocratici, inutili e costosi, che sono le Regioni, alle quali, invece, è attribuito un potere decisivo nella formazione del nuovo Senato, che i maligni ritengono previsto per assicurare ai futuri “senatori-consiglieri regionali” l’immunità parlamentare. “Critiche legittime anche se non dirimenti – scrive Panebianco: l’alternativa, lasciare le cose come stanno, tenersi il bicameralismo paritetico, è peggiore. Ma che dire, invece, dell’obiezione (la principale obiezione dei nemici della riforma) secondo cui il superamento del bicameralismo paritetico sarebbe parte di un disegno autoritario?” Ed aggiunge: È vietato ridere. Perché dietro una simile convinzione c’è qualcosa di molto serio: ci sono, nientemeno, una tradizione costituzionale e una cultura politica che per decenni sono stati dominanti nel nostro Paese. Tutto si decise ai tempi della Costituente. Fu allora che il “complesso del tiranno” da una parte e i reciproci sospetti fra comunisti e democristiani dall’altra, spinsero a creare un assetto costituzionale fondato sulla debolezza dell’esecutivo, un assetto che non doveva permettere in alcun caso la formazione di governi forti e efficienti ma solo di governi fragili, circondati, e anche eventualmente paralizzati, da forti poteri di veto. Un assetto istituzionale in cui c’erano (ed erano fortissimi) i “contrappesi” ma in cui mancava il “peso” di un forte esecutivo. Il bicameralismo paritetico che ora si tenta di superare fu uno di questi cosiddetti, e mal detti, contrappesi”. Richiamo pedissequamente le parole del Professore Panebianco, una icona del pensiero liberale, che possono essere contraddette ma il suo argomentare deve essere rigorosamente rappresentato.

A questo punto mi chiedo perché si debba individuare la scorciatoia del depotenziamento del Parlamento e dei gruppi parlamentari per far funzionare meglio il Governo quando in un paese sicuramente democratico come il Regno Unito l’esecutivo ha tradizionalmente la necessaria autorevolezza senza che il Parlamento risulti oscurato nel suo ruolo di espressione della rappresentanza popolare. Dovremmo molto imparare da quella esperienza politico istituzionale che, a suo tempo, fu presa ad esempio da Montesquieu per disegnare il moderno costituzionalismo nel rispetto dell’idea che i parlamentari sono portatori per mandato popolare.

L’esperienza negativa del governo Berlusconi tra il 2001 e il 2006 nel quale, nonostante una rilevante maggioranza parlamentare, non riuscì a gestire le politiche pubbliche nell’interesse generale, tanto da perdere le elezioni, dimostra che il nodo nevralgico nella determinazione della legislazione e nell’impegno governativo va ricercato nella gestione dei gruppi parlamentari, nella loro selezione, sul piano politico e dell’esperienza, e nella loro coesione in sede di votazione. Le scorciatoie sono sempre pericolose e l’esperienza insegna che la limitazione del ruolo del Parlamento è gravemente pregiudizievole della democrazia, come dimostra la legge Acerbo del 1924 che, in mancanza di contrappesi ad una maggioranza parlamentare coesa ed energicamente guidata, aprì la strada alla dittatura fascista. E in quel caso c’era un Re che, in qualche modo, ha tentato di frenare, nell’assenza dei partiti antifascisti, la deriva autoritaria ciò che nella Germania di Hitler non fu possibile avendo quel regime assorbito anche la carica di capo dello Stato.

Un uomo solo al comando, si sente dire spesso come effetto della riforma costituzionale che, in uno alla legge elettorale, consentirebbe alla maggioranza di dominare Camera e Senato, di eleggere il Presidente della Repubblica e parte dei giudici costituzionali. Scommetto non piacerebbe al Professore Panebianco. Ma è questo sullo sfondo ed oggi viene trascurato.

20 gennaio 2016

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