20/10/2016 – Riforma della dirigenza sbagliata fin dalla legge delega: in quale modo il Governo accoglierà il parere del Consiglio di Stato?

Riforma della dirigenza sbagliata fin dalla legge delega: in quale modo il Governo accoglierà il parere del Consiglio di Stato?

L. Oliveri (La Gazzetta degli Enti Locali 19/10/2016)

Il Consiglio di Stato ha bocciato sonoramente lo schema di decreto attuativo di riforma della dirigenza pubblica: il parere 14 ottobre 2016, n. 2113 della Commissione speciale del Consiglio di Stato incaricata di esaminare lo schema di decreto era del tutto scontato e largamente aspettato. Ha infatti evidenziato i molti, troppi, vizi di costituzionalità, di razionalità, di legalità, di logica e di soggezione della dirigenza alla politica che affliggono lo schema in ogni suo articolo, comma, alinea, virgola. Vizi perfettamente evidenti, visibili, chiari a chiunque.

Non si può immaginare che gli estensori del testo non ne fossero consapevoli. Indubbiamente il potenziamento senza limiti dello spoil system e la politicizzazione della dirigenza sono intenzionali e volute, perché intenzionali e voluti in questa direzione sono i criteri di delega contenuti nell’articolo 11 della legge 124/2015. Non a caso, il Consiglio di Stato si spinge a suggerire addirittura proprio la modifica ed il ripensamento esattamente di alcune disposizioni della legge-delega.

Probabilmente, comunque, gli estensori dello schema di decreto sono andati anche oltre le comunque evidenti (e di dubbia costituzionalità) intenzioni, producendo uno schema troppo viziato per essere “vero”, destinato inevitabilmente alla sonora censura da parte di qualsiasi organo indipendente, competente alla valutazione tecnico-giuridica dei contenuti della norma.

La poco commendevole vicenda si comprende: costruire la riforma della dirigenza sulla base di criteri di delega ed un’impostazione ideologica improntati allo spoil system più spinto possibile, dunque di difficile se non impossibile conciliazione con la Costituzione e l’ordinamento giuridico vigente era opera ardua. In più, la stesura del testo ha vissuto di molti “stop and go”, dovuti all’eterna necessità della politica di confrontarsi con scadenze elettorali di ogni genere. Proprio l’avvicinarsi della scadenza referendaria ha consigliato al Governo di rinviare a febbraio 2017 la stesura del testo della riforma complessiva del pubblico impiego, per non inimicarsi 3 milioni di dipendenti-elettori e tutto l’indotto connesso ed aveva quasi convinto a far scadere i termini per l’approvazione in Consiglio dei ministri dello schema di decreto riguardante la dirigenza.

Invece, all’ultimo, si è deciso di approvare un testo che, al di là dei problemi di compatibilità con Costituzione ed ordinamento (oltre che di tecnica logico-giuridica), è stato redatto in fretta e furia, così da accentuare ulteriormente i già gravi vizi, derivanti dall’impostazione della legge 124/2015.

Le argomentazioni critiche del Consiglio di Stato non possono stupire, perché sono in tutto conformi ai rilievi critici evidenziati da chiunque si sia approcciato al contenuto dello schema di decreto in chiave non da “tifoso”, ma di analista tecnico.

Non stupisce, quindi, che Palazzo Spada abbia sottolineato l’impossibilità che la riforma sia senza nuovi oneri, né che precarizzi troppo la dirigenza esponendola alla politicizzazione, né che il sistema di reclutamento risulti irrazionale, né che sia inconciliabile con i ruoli unici un reclutamento di dirigenti a contratto che prescinda dalla dimostrazione dell’inesistenza di professionalità nei ruoli, né che il dirigente apicale degli enti locali mal si concili con la presenza dei direttori generali, né che non sia possibile esporre i segretari comunali ad un licenziamento senza causa, dovuto alla pretesa di farli assumere negli organici degli enti locali, quando tali organici ovviamente non contemplano tale figura, visto che i segretari dipendono ancora oggi dal Ministero dell’interno.

Il tema vero, dunque, è un altro: che effetto avrà il parere? Stroncature vere e proprie e senza mezzi termini a “riforme” di vario genere in questi oltre due anni e mezzo di Governo se ne sono viste moltissime, da parte di Consiglio di Stato, Corte dei conti, Ufficio parlamentare di bilancio, Eurostat, ISTAT, ed hanno interessato quasi ogni legge di stabilità e bilancio, il Jobs Act, le varie sanatorie fiscali, la “buona scuola” eccetera.

Non c’è stata una riforma che abbia davvero inciso ed ottenuto gli obiettivi fissati. Si pensi al nuovo codice dei contratti: era stato affermato che avrebbe rilanciato l’edilizia e gli investimenti, ma i fatti dimostrano che si tratta, invece, di un Leviatano burocratico capace solo di asfissiare le stazioni appaltanti e di bloccare gli appalti.

La riforma delle province, come è noto, subì ripetute stroncature da parte della Sezione Autonomie della Corte dei conti. Le Sezioni Riunite in sede di controllo della magistratura contabile, nell’audizione in Senato presso la Commissione affari costituzionali dell’ottobre 2014 aveva a sua volta disapprovato senza appello la riforma della dirigenza prevista dal disegno di legge poi sfociato nella legge 124/2015: “La riforma proposta non sembra garantire questo punto di equilibrio, in quanto aumenta i margini di discrezionalità per il conferimento degli incarichi; una discrezionalità solo in parte temperata dalla previsione di requisiti legati alla particolare complessità degli uffici e al grado di responsabilità che i dirigenti sono chiamati ad assumere. L’abolizione della distinzione in fasce, l’ampliamento della platea degli interessati, la breve durata degli incarichi attribuiti, il rischio che il mancato conferimento di una funzione possa provocare la decadenza dal rapporto di lavoro, costituiscono un insieme di elementi che potrebbero sacrificare l’autonomia dei dirigenti”. Argomentazioni, queste, riprese e sviluppate dal Consiglio di Stato nel parere del 14 ottobre 2016.

Eppure, fin qui, di stroncatura in stroncatura, la maggioranza in Parlamento ed il Governo hanno dimostrato una sensibilità bassissima a rilievi critici che non provengono, per altro, da forze di opposizione, bensì da soggetti terzi, organi giurisdizionali o di controllo deputati proprio ad indicare in posizione di autonomia, anzi indipendenza, possibili difetti delle norme, allo scopo di fornire agli organi politici gli strumenti per adottare provvedimenti normativi efficaci.

Lo dimostra, soprattutto, la tragica scelta di andare avanti comunque con la legge Delrio, che ha prodotto il disastro finanziario delle province, la nascita di enti asfittici e privi di qualsiasi capacità amministrativa come le città metropolitane, il cui sistema elettorale le espone all’ingovernabilità, senza essere minimamente riuscita ad incentivare l’associazionismo comunale, messo in discussione persino dalla stessa ANCI, che ha chiesto (e pare otterrà) l’abolizione dell’obbligo dei comuni di gestire le funzioni in forma associata, così seppellendo proprio la logica che aveva ispirato la disastrosa legge 56/2014.

Anche la riforma della dirigenza è, lo si deve dire senza infingimenti, un disastro giuridico ed organizzativo.

Auspicare che questa volta il Governo ed il Parlamento comprendano che non sia possibile proseguire su una strada sbagliata, con un testo colmo di vizi ed errori tecnici non è possibile e che il parere del Consiglio di Stato, così come le richieste dei sindacati e delle associazioni dei dirigenti, così come anche le valutazioni critiche della dottrina non sono lesa maestà, ma spunti per migliorare la riforma.

Non si tratta di essere favorevoli o contrari alle riforme in sé e per sé. Il lemma “riforma” non vale niente, se non accompagnato da due possibili aggettivi: “cattiva riforma” o “buona riforma”.

Che la pubblica amministrazione e, dunque, chi è posto in ruoli di guida e direzione, richieda una spinta verso la maggiore efficacia è indubitabile. Ma, le riforme verso questo obiettivo debbono essere “buone”, efficaci, utili. Non basta riformare per riformare, né è possibile enunciare fini nobilissimi, come appunto il rilancio dell’efficienza della funzione dirigenziale, per poi perseguire, invece, l’unico obiettivo di politicizzare i dirigenti in modo da averne assoluto controllo, a discapito dell’imparzialità dell’azione amministrativa e dell’interesse generale.

Vedremo se, questa volta, l’auspicio si tradurrà in realtà e il parere del Consiglio di Stato si traduca in uno spunto per rivedere in profondità il testo. Anzi, per metterlo totalmente da parte, vista la quantità enorme di emendamenti che sarebbero necessari, solo per attenersi alle indicazioni di Palazzo Spada. Più utile e proficuo sarebbe prendere atto che i tempi ed i modi e le intenzioni della riforma sono stati sbagliati e che occorre ripartire da zero.

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