20/10/2016 – Dirigenti: la gran confusione della stampa sulla riforma Madia

Dirigenti: la gran confusione della stampa sulla riforma Madia

Da Luigi Oliveri – 19 ottobre 2016

Sul Corriere della sera del 14 agosto 2016 l’articolo di Sergio Rizzo “La «rotazione» che fa impazzire tanti manager pubblici rappresenta perfettamente la confusione immensa di chi “narra” i contenuti della riforma Madia probabilmente sulla sola base dei comunicati stampa governativi e in relazione ad alcune mezze verità dell’organizzazione, la cui rappresentazione però distorce i dati concreti.

Riforma Dirigenza pubblica: la rotazione degli incarichi

Partiamo dal titolo. Fa effetto il riferimento alla “rotazione”, perché evoca le misure anticorruzione e le tante parole spese dal presidente dell’Anac Cantone. Inoltre, la rotazione viene da molti considerata comunque opportuna per l’arricchimento professionale e per evitare l’esposizione troppo prolungata ai condizionamenti di un certo ambiente.

Infatti, il Rizzo, nel corpo dell’articolo, ironizza sulla per lui presunta necessità che esigenze di professionalità escludano l’apertura a continui cambiamenti di incarichi i dirigenti pubblici. Si legge: “La riforma prevede che non si possa occupare lo stesso posto per più di sei anni. E come la mettiamo con l’esperienza? Maneggiare soldi e percentuali mica è da tutti. Magari ti arriva a via XX settembre un segretario comunale, e non sa nemmeno dove mettere le mani… Mentre adesso funziona tutto così bene, alla perfezione. Tanto che nei ministeri, dicono le statistiche, tutti i dirigenti di prima fascia raggiungono almeno il 90% del massimo”.

L’assunto è la perfetta permeabilità, quindi, di qualsiasi incarico in qualsiasi ministero. Perché i dirigenti “sono manager” e quindi debbono esercitare solo competenze trasversali, “saper fare squadra”, “dirigere i team”, “costruirsi lo staff” e “utilizzare al meglio le risorse per innovare processi e prodotti”.

Slogan per la verità fin troppo banali che non valgono nemmeno nell’ambito aziendale, ma che restano totalmente privi di senso nell’amministrazione pubblica che è caratterizzata da necessità di investimento in competenze estremamente verticali e in conoscenze tecniche specifiche, tali da rendere queste qualità generali del manager assolutamente insufficienti.

Non si può dirigere un ufficio delle espropriazioni se non si conosce molto a fondo la normativa specifica: potrai saper fare squadra quanto vuoi, ma se non segui, come dirigente, con attenzione e competenza estrema il “processo e prodotto” che ti viene imposto totalmente dall’esterno (cioè dalle leggi), fai solo danno ai privati e all’erario.

Ora, la rotazione è uno strumento certamente importante per evitare la creazione di sultanati. Ma, da qui a passare a considerare completamente equivalenti investimenti in competenze specifiche ne corre.

Un dirigente di via XX Settembre non sa nulla di funzioni, competenze, esigenze e modalità operative di un ente locale; un segretario comunale non sa niente di produzione, organizzazione, interpretazione delle complicatissime norme in tema fiscale. Un interscambio per “rotazione” tra queste due figure significa solo buttare via anni di formazione soggettiva di ciascuno di loro, ed anni di investimento in aggiornamento e professionalizzazione realizzati dagli enti presso i quali lavorano.

Ma, al di là di questa evidenza che evidentemente la stampa non è in grado di cogliere, affascinata dalla narrazione erronea dello Stato e degli enti pubblici come “azienda”, basta semplicemente leggere la legge 124/2015 e le bozze del decreto attuativo per comprendere che di rotazione non si parla affatto.

La riforma non è per nulla improntata al principio della rotazione degli incarichi. Se così fosse, al netto dei problemi segnalati sopra della conservazione e valorizzazione delle professionalità che si acquisiscono (è bene ricordare al Rizzo che non si diviene dirigenti – non sempre almeno, come si vedrà – per volontà dello Spirito Santo, ma a seguito di concorsi, che susseguono ad almeno 5 anni di attività e formazione in una certa branca), non vi sarebbero troppi problemi.

Alla dirigenza verrebbe chiesto di modificare periodicamente enti e sedi di lavoro (ma non si capirebbe con quali criteri territoriali e di efficienza), come da sempre, per esempio, accade per i prefetti o i magistrati (al netto della circostanza che, comunque, questi alti dirigenti hanno trattamenti economici stellari e ad alcuni, i prefetti, addirittura si assicurano residenze principesche nei palazzi delle vituperate province, per facilitarne la “rotazione”…).

La riforma vuole creare un “mercato della dirigenza”

La realtà è proprio un’altra: la riforma vuole creare un “mercato della dirigenza” nel quale del tutto a caso i dirigenti, dopo 4 (o 6 a seguito di una proroga biennale) anni di incarico non possono proseguire a svolgerlo nello stesso ente, se non a condizione che l’ente emetta un avviso pubblico, pubblicato da apposite commissioni nazionali, per pubblicizzare la necessità dell’incarico, così da permettere di partecipare a tutti i dirigenti inseriti nei ruoli unici ad una “selezione”, governata dalle medesime commissioni; queste elaborano una “rosa” di nominativi, trasmessa, poi, all’organo politico che sceglierà in totale arbitrio chi incaricare.

Non c’è alcun principio di rotazione, ma semplicemente la disconnessione tra la qualifica dirigenziale e la copertura dell’incarico, rimessa, come capisce chiunque legga il testo delle riforme, al semplice “capriccio” del politico di turno. I, quale potrebbe, certamente, considerare esperienze e professionalità acquisite e magari confermare il dirigente che per 6 anni ha ben operato; oppure, azzardare un dirigente che per anni ha diretto l’anagrafe di un comune al posto di un dirigente esperto un finanze statali: assurdità che la legge espressamente consente, al preciso scopo non di consentire la “rotazione”, bensì di consegnare le sorti della dirigenza nelle mani dei politici, per rafforzare ogni oltre misura lo spoil system e creare una dirigenza politicizzata o, comunque, sotto il giogo delle fortissime pressioni politiche, rafforzate dal potere di incarico e mancata conferma ad libitum senza motivazione alcuna.

Siamo entrati, dunque, nel cuore della questione. Che il Rizzo sintetizza, invece, in tutt’altro modo, affermando che la dirigenza (specie quella di Palazzo Chigi) sta boicottando la salvifica riforma Madia perché presa dal terrore “terrore di retrocedere per chi resta senza posto perché non valutato meritevole, questo si profila con la riforma della dirigenza, si è sparso nei ministeri. Paura vera, perché nessuno ha mai provato l’onta della retrocessione per demeriti professionali”.

L’affermazione è estremamente suggestiva e fornisce l’immagine di un apparato dirigenziale tetragono nel rimanere abbarbicato ad incarichi (e privilegi), pauroso di essere valutato, perché potrebbero, questi dirigenti gaglioffi, essere valutati non meritevoli e, quindi, perdere il posto o, come indicato dalla riforma, dover chiedere di retrocedere a funzionari per evitare il licenziamento.

Peccato, però, che questa suggestione evocata dal Rizzo sia totalmente sbagliata.

La legge 124/2015 e le bozze di decreto attuativo

La legge 124/2015 e le bozze di decreto attuativo non si limitano ad enunciare un assunto che è assolutamente normale per qualsiasi “ingaggio” lavorativo di qualsiasi tipo e, cioè, risolvere il rapporto di lavoro nei confronti di chi ottenga valutazione negative per non aver conseguito gli obiettivi richiesti.

D’altra parte, la possibilità di licenziare i dirigenti non meritevoli esiste da sempre ed attualmente è definita dall’articolo 21 del d.lgs 165/2001, norma vigente ed efficace. Se, poi, i valutatori (tutti di nomina politica) non sono in grado di valutare e colpire i non meritevoli, forse il problema non sta proprio nella necessità di riformare la normativa sulla dirigenza, ma di intervenire sugli apparati politici o in staff alla politica, che non sanno né valutare, né definire obiettivi davvero credibili e misurabili.

Il fatto è che, come detto sopra, qualsiasi dirigente superati 6 anni di effettuazione della prestazione, anche se sarà stato valutato come meritevole (e questo avverrà certamente per chi appunto svolgerà un incarico di 6 anni, in quanto la proroga biennale dopo il primo quadriennio sarà consentita solo a condizione dell’acquisizione di valutazioni favorevoli) dovrà comunque cessare dall’incarico e rientrare nel ruolo unico, con lo stipendio più che dimezzato e dovrà partecipare alle procedure sintetizzate prima per sperare di ottenere un nuovo incarico.

Il punto deteriore, inefficiente, probabilmente incostituzionale, foriero di una becera politicizzazione della dirigenza, della riforma Madia è proprio questo: nonostante la stampa, raccogliendo le veline governative, continui a raccontare che sarà valorizzato il merito, il sistema degli incarichi sarà totalmente slegato da qualsiasi riferimento ai risultati ottenuti e, quindi, alla meritevolezza del dirigente.

La regola d’ingaggio non sarà: “ti affido un incarico a tempo, valuto come lo gestisci e se raggiungerai gli obiettivi prefissati te lo riconfermo, altrimenti ti licenzio”. Al contrario, sarà: “ti affido un incarico a tempo e, anche qualora avrai ben operato, comunque dopo 6 anni ti lascio senza incarico e con lo stipendio falcidiato, né ti garantisco in alcun modo di svolgere la tua attività né presso l’ultimo ente dove hai lavorato, né presso qualsiasi altro”.

Il comandamento della riforma è: dopo 4 o 6 anni i dirigenti debbono avere una cesura nell’espletamento degli incarichi e finire “a disposizione dei ruoli”, con il trattamento economico ridottissimo. Lo scopo è chiarissimo: mettere totalmente il loro futuro lavorativo, la sussistenza, la professionalità, nelle mani della politica e “brigare” con essa per ottenere la “spinta” ad essere inseriti dalle commissioni nelle “rose”, dalle quali la politica poi attingerà, aspettandosi gratitudine e contraccambi.

Non è, dunque, affatto vero che i dirigenti resteranno privi di incarico se valutati non meritevoli. Per coloro che saranno valutati in modo insufficiente, l’unica differenza è che potranno vedersi risolto il rapporto di lavoro anche prima dei 4+2 anni di durata dell’incarico. Ma al quarto o sesto anno, resteranno senza incarico tanto quelli valutati male, quanto quelli considerati, invece, sì meritevoli, ma messi alla porta comunque.

Stesse conseguenze per dirigenti incapaci e meritevoli

La cosa davvero assurda è che le conseguenze saranno identiche, sia per i dirigenti considerati incapaci, sia per i meritevoli: rimanere privi di incarico a stipendio dimezzato per 6 anni, con ulteriori riduzioni del 10% ogni anno ed essere destinati al licenziamento, a meno che non chiedano di essere demansionati come funzionari (senza che nessuno possa capire come e dove potranno andare a prestare servizio da funzionari, visto che non apparterranno ai ruoli di nessun’amministrazione).

Quindi la riforma, descritta come “meritocratica” ha il paradossale esito di non tenere in alcun conto la competenza e la capacità dimostrata e di far finire in disponibilità dei ruoli nello stesso modo capaci ed incapaci.

Ma, il Rizzo non demorde. E, come il resto degli altri giornalisti della stampa generalista, smuove confusamente le acque, continuando ad accusare i dirigenti (ed i critici della riforma) di arroccarsi in una posizione di boicottaggio abbarbicandosi ad argomentazioni considerate, dal Rizzo, meri artifici dialettici. La principale argomentazione che il Rizzo ritiene solo un pretesto è quello dell’evidente lesione che la riforma Madia determinerebbe al principio di separazione tra politica e dirigenza, sottomettendo totalmente questa alla prima, creando la totale politicizzazione di cui anche qui si è parlato prima.

Dunque, Rizzo spara a palle incatenate contro chi evidenzia questo palese effetto di politicizzazione: “C’è chi soffia sul fuoco anche fuori dei ministeri. Carlo Deodato, consigliere di Stato già capo di gabinetto di Renato Brunetta, che guidava l’ufficio legislativo di palazzo Chigi prima che Matteo Renzi lo sostituisse con l’ex capo di vigili urbani di Firenze Antonella Manzione, ha palesato per esempio in un lungo articolo l’eventualità che con la riforma «si un assetto della dirigenza pubblica che la renda ossequiosa al governo». Come se non fosse mai esistito il rischio di una commistione fra politica e amministrazione in un Paese dove un prefetto del calibro di Umberto Postiglione ha potuto ricoprire un La parola incarico politico come quello di sindaco di Angri, città di 30 mila abitanti, continuando tranquillamente a lavorare al Viminale: ministero che per inciso vigila sui Comuni. Lui ne va fiero”.

Non si capisce davvero, tuttavia, quale sarebbe l’argomentazione contraria proposta dal Rizzo. E’ evidentemente legittimo non condividere le opinioni altrui: anzi, è largamente opportuno che si sviluppino dibattiti con tesi opposte, allo scopo di ampliare quanto più possibile i punti di vista della disamina, per comprendere tra tesi e antitesi quali sintesi siano alla fine da considerare corrette.

Però, nelle parole del Rizzo e di tanti altri fautori della riforma, si nota l’assenza assoluta dell’antitesi rispetto alla tesi. Come visto sopra, il Rizzo, e con lui tanta stampa, per un verso racconta fatti contraddetti dal contenuto delle norme (rotazione, valutazione, merito, etc.).

Per altro verso, all’obiezione fondamentale che la riforma finisce per indurre la dirigenza a divenire da strumento della politica per attuare sul piano tecnico l’indirizzo politico, ma nel rispetto dei principi di imparzialità, buon andamento ed efficienza, a dirigenza politicizzata e di partito e, quindi “di parte” e non più al servizio esclusivo della Nazione, come imposto dall’articolo 98 della Costituzione, il Rizzo sembra rispondere facendo spallucce: “embè, non succede anche adesso?”.

Ma, la domanda è un’altra. E’ vero, succede anche adesso. I problemi, però, allora, sono due:

  1. è da considerare utile e corretto che la dirigenza sia nelle mani della politica ed agisca per l’interesse della maggioranza al potere e non della collettività?;
  2. qual è la dimensione del fenomeno?

Al primo problema il Rizzo risponde, sempre nell’articolo che ha dato spunto a questo scritto, con una valutazione negativa. Al giornalista sembra proprio non piacere che i dirigenti pubblici flirtino con la politica. Infatti, racconta le vicende di due noti grand commis allo scopo evidentemente didascalico di dimostrare che anche oggi, senza la riforma, avvengono cose poco commendevoli.

Ecco il racconto: “Magari non tutti lo aspettavano a braccia aperte. Comunque Marcello Fiori, il figliol prodigo, è tornato a palazzo Chigi. Dirigente di prima fascia della presidenza del Consiglio: il posto è suo e nessuno glielo può toccare. Da due anni e mezzo, secondo il sito del governo, risultava comandato al Senato, in virtù, si intuisce, del suo incarico politico. Quello di coordinatore degli enti locali di Forza Italia. Partito dov’era approdato forzando il proprio passato. L’ex sindaco di Roma Francesco Rutelli l’aveva prelevato dall’Acea, affidandogli incarichi sempre più importanti come quello del grande Giubileo. Poi Guido Bertolaso l’aveva preso sotto la sua ala: commissario a Pompei e dirigente generale dello stato, forse caso più unico che raro, per decreto. Fino a Berlusconi, che l’aveva voluto a capo dei suoi club quando aveva già perso il proverbiale tocco magico. Lui ce l’aveva messa tutta, fin dal debutto, nel 2013. Quando esclamò: «Devo dare un dispiacere a Berlusconi, che ha parlato di mille club. Presidente, i club sono 3.386!». Acqua passata”.

Il Rizzo sembra proprio disapprovare la circostanza che un dirigente pubblico abbia temporaneamente abbandonato la propria funzione dirigenziale, per abbracciare brevemente una carriera politica attiva e poi tornare al proprio posto.

Siamo perfettamente d’accordo. L’autonomia della dirigenza dovrebbe presupporre che accanto al sacrosanto diritto di ciascun cittadino di esercitare i propri diritti di elettorato attivo e passivo e, quindi, ci impegnarsi in politica, vi debba essere la simmetrica misura di prudenza posta ad imporre ai dirigenti pubblici (lo stesso dovrebbe valere, a maggior ragione, per i magistrati) di dimettersi dalla funzione svolta. Dimissioni o decadenza dal posto di lavoro: la semplice aspettativa non basta, né misure come quelle della normativa anticorruzione, che escludono per tre anni dalla conclusione dell’attività politica dalla possibilità di avere alcuni incarichi dirigenziali appaiono più di meri palliativi.

Però, invece, attualmente è così: la normativa consente ed anzi agevola queste le “porte girevoli” tra politica e dirigenti che il Rizzo condanna.

Ma, allora, se la commistione tra politica e dirigenza viene considerata poco commendevole dal Rizzo, allora il giudizio che Egli dovrebbe coerentemente dare della riforma Madia dovrebbe essere connotato di altrettanta negatività. Infatti, come dimostrato prima, la riforma di fatto rende un “sistema” generalizzato ciò che oggi avviene per circoscritti segmenti: la commistione tra dirigenza e politica.

Andiamo, allora, al secondo elemento problematico enunciato prima: qual è la dimensione del fenomeno, attualmente?

Nell’attuale regime normativo (ovviamente, al netto di comportamenti delinquenziali e penalmente rilevanti, come truccare i concorsi pubblici per far vincere gli “amici”) esiste una divisione molto chiara tra:

  1. dirigenti di ruolo, assunti per concorso, che svolgono la carriera dirigenziale presso l’amministrazione che li ha reclutati;
  2. dirigenti “a contratto”, cooptati nella maggior parte dei casi senza concorsi direttamente dalla politica.

Questa seconda categoria ha una dimensione quantitativa normativamente prevista: il 10% circa della dirigenza complessiva dello Stato; il 30% circa nei comuni e negli enti locali; percentuali variabili che vanno dal 10% al 20% nelle regioni; percentuali fino al 30% nelle restanti amministrazioni.

Il fenomeno, quindi, della dirigenza “ossequiosa della politica”, perché chiamata per via fiduciaria e senza concorsi per ragioni di appartenenza politica nelle cariche, è attualmente confinato entro limiti numerici oggettivamente troppo alti (e spesso violati), ma, comunque, contenuti.

Con la riforma Madia questo fenomeno – che il Rizzo, come visto, condanna – diventerà, invece, generalizzato, perché solo mediante contatti strettissimi tra dirigenza e politica i dirigenti di fatto potranno contare sulle spinte necessarie per non restare 6 anni a non far nulla a rischio licenziamento o umiliazione del demansionamento, anche se non abbiano mai ricevuto valutazioni negative.

Allora, se si dà un giudizio critico della dirigenza che si avventura nella politica contando sulle “porte girevoli”, coerenza vorrebbe che la riforma Madia venisse letta e commentata per quello che è: la sublimazione di questo sistema, nel quale è del tutto evidente che le porte girevoli saranno sempre più manovrabili e manovrate dalla politica, che non dovrà nemmeno più “sporcarsi le mani” truccando i concorsi con pressioni e raccomandazioni per collocare gli amici.

L’articolo del Rizzo, oltre tutto, è un clamoroso autogol. Infatti, allo scopo di evidenziare che la rivendicazione dell’autonomia della dirigenza dalla politica è solo un “paravento” e destare nei lettori la sensazione che i dirigenti, in realtà, sono tutti fiancheggiatori dei partiti, cita casi che sono tutti rappresentativi esattamente degli incarichi a contratto. Tutti i nomi che menziona nell’articolo si riferiscono a persone incaricate negli uffici di staff dei ministeri, che non sono mai entrate nei ruoli della pubblica amministrazione per concorso, ma solo a seguito di incarichi diretti e fiduciari da parte della politica, a partire da Incalza.

I capi di gabinetto sono da sempre oggetto delle critiche del Rizzo e della stampa, come simbolo dei “mandarini” inamovibili e privilegiati. Ma, questa stampa non spiega mai che proprio capi di gabinetto, direttori generali dei ministeri (e dei comuni), segretari generali, capi dipartimento, sono da sempre scelti per via fiduciaria dalla politica, reclutandoli prevalentemente dalla magistratura ordinaria o amministrativa e contabile. Se sono dei “mandarini” potenti e inamovibili, ciò è dovuto ad una politica che pur potendo con pieni poteri legittimi (la Corte costituzionale, mentre considera illegittimo lo spoil system per la dirigenza gestionale, lo ammette, invece, per gli incarichi di massimo vertice dello Stato), non ha la forza e la capacità di incidere nei confronti di questi ruoli e continua a tenersi sempre le stesse facce.

Questi dirigenti cooptati, per altro, non rischiano nulla. Ai capi di gabinetto e vertici massimi sostanzialmente non vengono assegnati obiettivi né sono sottoposti a valutazione; sono loro che danno gli obiettivi e sovrintendo alla valutazione altrui. Inoltre, poiché si tratta di soggetti che un lavoro ce l’hanno già (magistrato, dirigente di altra amministrazione, professionista), l’eventuale scadenza e mancato rinnovo dell’incarico non li scalfisce: poiché le norme regolanti in particolare gli incarichi dirigenziali a contratto nell’ambito del lavoro pubblico consentono agli incaricati di mettersi in aspettativa, una volta che un magistrato in aspettativa cessi dall’incarico di capo di gabinetto, può tornare tranquillamente a lavoro e stipendio da magistrato.

La riforma Madia non scalfisce minimamente questo sistema che lascia intatto ed anzi rafforza. Infatti, mentre oggi per gli incarichi dirigenziali a contratto occorre una motivazione che spieghi che nei ruoli non esistono le professionalità necessarie, le bozze del decreto attuativo prevedono che quel 10% di dirigenti a contratto sarà incaricabile senza nemmeno più dover fare lo sforzo di evidenziare la carenza di professionalità interne.

Dunque, le “spallucce” del Rizzo rispetto al problema sono oggettivamente paradossali. E’, infatti, vero che la deteriore politicizzazione della dirigenza esiste; ma esiste in particolare per la dirigenza di vertice. La riforma Madia non modifica per nulla questo sistema che, dunque, deteriore è e deteriore resta. Ma, invece, la riforma colpisce la dirigenza di ruolo, quella non cooptata dalla politica, ed estende anche a questa i meccanismi che il Rizzo condanna.

Questi sono i dati. Allora, occorrerebbe un minimo di chiarezza e coerenza. Se al Rizzo e alla stampa in generale la riforma va bene perché consente di vellicare il popolo raccontando loro che si eliminano privilegi della casta dei “mandarini”, così si vendono più copie di giornale, va bene: è una scelta cinica e non proprio rispettosa del dovere dell’informazione di dare ai cittadini notizie corrette e fondate, ma fa parte del gioco. Oppure, ancora, se la riforma va bene perché l’editore e gli inserzionisti richiedono che si dia supporto incondizionato al Governo per sostenerlo e mantenerne il consenso, anche questo fa parte delle regole del gioco, sebbene anche questo non vada proprio d’accordo con i doveri di un’informazione completa e libera.

Se, invece, la riforma va bene perché si parte da preconcetti e non la si legge nei suoi contenuti e non si comprende che essa, lungi dal risolvere, estende ed aggrava le storture già oggi esistenti, forse, allora, è opportuno approfondire di più e non aspettare anni, per poi partire con inchieste sulla nuova “casta” dei dirigenti politicizzati. Ciò potrà aiutare a vendere i pamphlet, ma il Paese avrà compiuto un altro gravissimo passo indietro, senza che nessuno glielo abbia fatto capire prima.

Print Friendly, PDF & Email
Torna in alto