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Brano tratto dal romanzo “No hurricane” di Enrico Antonio Cameriere. Meridiano Zero Edizioni

 

Ancora non mi adattavo al nuovo orario. Non ce n’era! Se poi una incipiente e immotivata gelosia mi stava prendendo dentro, allora con il jet lag la partita era totalmente persa in partenza. Cosa avrà fatto quel grassone maniaco sessuale, quando si è trovato chiuso nel privé con Hellen. E lei si sarà fatta toccare solo da me, o era una prassi? Me ne arrivai in albergo che ancora avevo l’olezzo marcio di Nola e il profumo di Hellen nelle narici. Non era possibile dividere i due odori: uno prendeva forza dall’altro e, devo am- mettere, non riuscivo a rinunciare a nessuno dei due. Avevo sempre di più la sensazione che tutto si stesse mischiando in maniera indissolubile, il bello, il brutto, il profondo, il leggero, l’indispensabile, il vano. Era come se la fragranza di Hellen si fosse saldata in maniera irrevocabile a quella di New Orleans. A questo pensavo, quando, affondato nel morbido materasso dell’albergo, presi sonno.

Avevo voglia di abbandonarmi a un sonno consolatorio, che mi levasse quell’immotivato malumore che mi era cresciuto dentro. O forse era motivato? Il desiderio verso Hellen era diventato possessività, e questo mi piaceva poco. Era come se una linea di demarcazione fosse nata per isolare me e lei dal resto del mondo. Mi sentivo insicuro, come se mettere dei recinti, se legarla avrebbe mai potuto servire a qualcosa. Più capivo che l’amore era lontano da qualsiasi forma di possessività, più sentivo nascermi dentro un sentimento che mi avrebbe devastato, reso peggiore e avrebbe rovinato qualsiasi sentimento verso Hellen. Più lo sapevo, più pensavo a lei e a quel grassone nel privé.

Sprofondai nel materasso.

Fui avvolto in un non-tempo e in un non-spazio che aveva una consistenza piacevolissima, che sapeva di tutto e di niente, perché era sradicata da qualsiasi legge o regola. Cominciai a camminare per una strada buia. Una luce era in fondo. Non riuscivo a distinguere bene dove fossi. Era come se galleggiassi a mezz’aria nella piena inconsapevolezza. Il mio corpo poteva spostarsi rapidamente verso ogni direzione, senza difficoltà. Salivo in alto, poi, dopo un attimo di stallo, mi lasciavo andare verso il basso, planando a braccia aperte. La velocità aumentava e io mi proiettavo come un missile in un vortice viola che mi avvolgeva. Il fiato mi restava incollato addosso; il cuore batteva sempre più forte e il rimbombo mi assordava. Vento fresco sul mio viso. Il profumo di Hellen mi prese ancora di più. Quelle note muschiate, aspro sentore degli agrumi. Acuti vedevo i suoi occhi scrutarmi. I suoi fianchi dolci, le sue mani delicate e affusolate, le sue orecchie piccole, il suo sguardo assente e sognante. Veloce mi in lavo in quel tunnel cremisi. Cominciai a roteare su me stesso. Un vortice che mi avviluppava e mi faceva perdere ogni cognizione. Non sapevo più dove fossi. Dentro di me solo la vertigine e il desiderio di Hellen. Una nebbia densa mi avvolse e fece scemare per qualche istante gli odori. Il bianco pastoso e umido fece perdere di consistenza il colore vermiglio che avevo attorno.

Non più suoni. Non più luci. Non più odori.

Un bagliore attorno a me e la sensazione di una maggiore concretezza. Una striscia di tenda bianca irradiata dalla luce dell’alba. La sveglia che visualizzava di rosso le 6.40. L’armadio di ciliegio scuro davanti a me.

Cercai di riprendere sonno per continuare a sognare e vedere come andasse a nire la storia del vortice viola e del profumo di Hellen.

Misi la testa sotto al cuscino, ma cominciai a pensare a Claudio e Federico. Non che fossero una gran cosa, rispetto a Hellen, ma bastarono per farmi svegliare definitivamente.

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