15/01/2020 – Trasparenza. Dati patrimoniali dei dirigenti: quel che il populismo non vuol capire.

Trasparenza. Dati patrimoniali dei dirigenti: quel che il populismo non vuol capire.
A seguito dell’articolo sul tema della sospensione dell’obbligo di pubblicare i dati patrimoniali dei dirigenti a firma di Gian Antonio Stella, scritto con ogni evidenza senza aver tenuto conto della sentenza 20/2019 della Corte costituzionale e dell’obbligo del Parlamento di intervenire, il sindacato Unadis, per voce della segretaria Barbara Casagrande, ha chiesto al Corriere della sera la pubblicazione del seguente comunicato, cui segue in coda la ulteriore replica del giornalista:

Come si nota la replica consta di due parti:

1. l’affermazione secondo la quale la sentenza della Corte costituzionale è chiarissima e basta leggerla;

2. la conclusione che evidenzia che la segretaria del sindacato non sarebbe imparziale, laddove evidenzia la distinzione delle esigenze di tutela della riservatezza intercorrente tra cariche politiche e attività lavorativa dei dirigenti pubblici.

Avremmo immaginato che gli argomenti utilizzabili per replicare alle osservazioni della Casagrande sarebbero stati molteplici e ben articolati, sociologicamente e politicamente fondati ed ineccepibili, tali da fondare una critica severa alla pronuncia della Consulta.

Niente di tutto questo. Lo Stella invita, correttamente, a leggere la sentenza 20/2019. E si può stare certi che l’Autore l’abbia letta fino in fondo. Tanto che la replica alla nota del sindacato sia l’ennesimo esercizio di sofismo.

Lo Stella, avendo letto la sentenza, non può non aver colto il seguente passaggio: “A diverse conclusioni deve pervenirsi con riferimento agli obblighi di pubblicazione indicati nella lettera f) del comma 1 dell’art. 14 del d.lgs. n. 33 del 2013, in quanto imposti dal censurato comma 1-bis dello stesso articolo, senza alcuna distinzione, a carico di tutti i titolari di incarichi dirigenziali. Anche per essi, oltre che per i titolari di incarichi politici, è ora prescritta la generalizzata pubblicazione di dichiarazioni e attestazioni contenenti dati reddituali e patrimoniali (propri e dei più stretti congiunti), ulteriori rispetto alle retribuzioni e ai compensi connessi alla prestazione dirigenziale. Si tratta, in primo luogo, di dati che non necessariamente risultano in diretta connessione con l’espletamento dell’incarico affidato. Essi offrono, piuttosto, un’analitica rappresentazione della situazione economica personale dei soggetti interessati e dei loro più stretti familiari, senza che, a giustificazione di questi obblighi di trasparenza, possa essere sempre invocatacome invece per i titolari di incarichi politicila necessità o l’opportunità di rendere conto ai cittadini di ogni aspetto della propria condizione economica e sociale, allo scopo di mantenere saldo, durante l’espletamento del mandato, il rapporto di fiducia che alimenta il consenso popolare“.

Come si nota, è la Corte costituzionale a rilevare la distinzione che esiste tra apparato politico ed apparato gestionale.

Distinzione discendente dall’articolo 98 della Costituzione e per altro cristallizzata dall’articolo 4 del d.lgs 165/2001 (testo unico dei rapporti di lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche) e riconosciuta da una monolitica giurisprudenza costituzionale, amministrativa, contabile e civile.

Ma, poichè la sentenza 20/2019 è nota e conosciuta e basta leggerla, allora “tenere il punto” sulle evidenti forzature dell’articolo che vuol far apparire i dirigenti come furbacchioni che guidano di notte “manine” del legislatore fraudolentemente intese a violare la trasparenza – quando per altro i dirigenti da decine di anni comunque depositano ai datori dichiarazioni dei redditi e patrimoniali, senza alcun segreto a copertura – è comprensibile sul lato caratteriale. Ma, non eccessivamente utile per i lettori, ai quali sarebbe necessario rappresentare i fatti.

I fatti sono che la sentenza 20/2019 è chiarissima e va letta. Allora, per chi non abbia voglia di leggerla, è meglio raccontarla. Senza romanzarla. Senza creare rivolte o feste in “baby doll” immaginarie. Magari criticandola. Possibilmente, però, con argomenti solidi, anche non necessariamente giuridici, ma ben articolati, sociologicamente e politicamente fondati ed ineccepibili.

Chi ha presentato ricorsi ai Tar sollevando la questione di legittimità incostituzionale per le evidenti (talmente evidenti che la Consulta ha accolto il ricorso) illegittimità connesse alla compressione della riservatezza, ha argomentato sul piano tecnico e giuridico molto bene. La Consulta ha avvalorato tali argomentazioni. Si resta, comunque, aperti ad argomentazioni contrarie.

Resta il fatto, comunque, che il Governo ed il Parlamento non  potevano sottrarsi al dovere (evidenziato sempre dalla Consulta: “Non potrebbe essere questa Corte, infatti, a ridisegnare, tramite pronunce manipolative, il complessivo panorama, necessariamente diversificato, dei destinatari degli obblighi di trasparenza e delle modalità con le quali tali obblighi debbano essere attuati. Ciò spetta alla discrezionalità del legislatore, al quale il giudice costituzionale, nel rigoroso rispetto dei propri limiti d’intervento, non può sostituirsi“) di adottare la norma confluita nel d.l. “milleproroghe”. La cosa non va alla stampa generalista? Si affronti il problema. Senza irridere, senza argomentazioni meramente sofistiche, senza slogan. Il dibattito potrebbe essere interessante.

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