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L´atto amministrativo implicito
 Armando Iadevaia
Con sentenza n. 589/2019, la V Sezione del Consiglio di Stato precisa la configurabilità del provvedimento amministrativo implicito, soffermandosi, in particolare, sulle sue condizioni di ammissibilità.
 venerdì 8 novembre 2019
 
Sommario1. Il principio di legalità nel diritto amministrativo 2. I comportamenti della p.a. 3. Compatibilità dell’atto amministrativo implicito con il disposto dell’art. 2 della L. 241 del 1990. 4. Sulla compatibilità dell’atto implicito con l’obbligo generale di motivazione 5. Chiarimenti circa le condizioni di ammissibilità del provvedimento amministrativo implicito ad opera della V Sezione del Consiglio di Stato, sentenza n. 589 del 2019.
1. Il principio di legalità nel diritto amministrativo
La p.a., nell’esercizio della sua attività, è assoggettata al principio di legalità, in virtù del quale l’azione amministrativa deve essere legittimata da una legge scritta, adottata dall’organo rappresentativo della volontà popolare. Si tratta, invero, di un’esigenza non esclusiva del diritto amministrativo, ma propria di tutte quelle branche dell’ordinamento improntate ad una logica garantista.
Ai sensi dell’art. 97co. 1, Cost. “i pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione”. La disposizione in commento pone, anzitutto, una riserva di legge, pacificamente di natura relativa, in materia di organizzazione dei pubblici uffici. Sebbene la norma si riferisce espressamente al solo profilo organizzativo, per consolidata opinione degli interpreti la si ritiene estesa anche all’attività della p.a., anch’essa assoggettata alla legge. Di qui la natura precettiva e non esclusivamente programmatica della previsione in esame.
Il rango costituzionale del principio di legalità, esteso all’azione amministrativa lo si desume dagli art. 24 e 113 Cost. che, assoggettando l’attività della p.a. al controllo dell’autorità giudiziaria, presuppongono a monte che la stessa non possa svolgersi in contrasto con le norme di legge.
Il principio di legalità risulta codificato, a livello di normazione primaria, dalla disposizione di apertura della legge sul procedimento amministrativo, il quale al co.1 specifica che “l’attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge”.
Si è soliti attribuire al principio di legalità una duplice funzione. In primo luogo, esso funge da parametro – guida dell’azione amministrativa e, dunque, assume una valenza di indirizzo. In tal senso, la discrezionalità di cui, talvolta, gode la p.a. costituisce la scelta del modus per raggiungere dei fini predeterminati ex lege e non già una scelta relativa alle finalità da perseguire, tipica dell’attività politica. 
D’altro canto il principio de quo funge da presidio di garanzia per il cittadino. La suddetta accezione emerge, in modo significativo, in relazione ai procedimenti ablativi, in forza dei quali sono sottratti al privato taluni diritti di cui, liberamente, dispone. La legge, pertanto, rappresenta la fonte di legittimazione democratica, che consente alla p.a. di emettere un provvedimento amministrativo in grado di imporsi unilateralmente, modificando l’altrui posizione giuridica, in deroga al principio di intangibilità della sfera patrimoniale del privato. L’esigenza di garanzia sottesa alla costituzionalizzazione del principio di legalità si apprezza in senso alla previsione di cui all’art. 23 Cost. il quale dispone che “nessuna prestazione, personale o patrimoniale può essere imposta, se non in base alla legge”.
La dottrina più autorevole ha declinato il principio di legalità in diverse accezioni[1].
In senso debolissimo, esso si pone come divieto per l’azione amministrativa, la quale non può svolgersi in contrasto con il paradigma legislativo, consentendo di contro tutto ciò che non sia espressamente impedito dalla legge
In senso debole, invece, il principio de quo sancisce la necessità di un fondamento normativo per gli atti e, più in generale, per l’attività della pubblica amministrazione. Si discorre, al riguardo, di legalità in senso formale.
In una differente dimensione, la legalità impone di rispettare la disciplina legislativa nell’esercizio dell’azione amministrativa. La legge, quindi, oltre ad attribuire il potere, deve determinare i confini dello stesso, i relativi destinatari, il risultato da raggiungere, la tipologia di potere esercitato e l’autorità competete ad adottarlo[2].
Logici corollari del principio di legalità sono quelli di tipicità e di nominatività del provvedimento amministrativo. Il primo non ammette atti amministrativi al di fuori di quelli previsti e disciplinati dalla legge. Diversamente, il secondo prescrive che ad ogni interesse pubblico da realizzare corrisponde un certo provvedimento definito dalla legge.
Sulla scorta di tale premessa, sono emersi molteplici dubbi in ordine all’ammissibilità di un atto amministrativo implicito. Con tale locuzione si è soliti alludere ai casi in cui la volontà della p.a. non è esteriorizzata in un provvedimento formale, ma desumibile attraverso un certo comportamento adottato dall’amministrazione.
2. I comportamenti della p.a.
Quando si discorre di comportamento della p.a. si fa riferimento alle ipotesi in cui l’amministrazione procedente si limita a porre in essere un’azione ovvero un’omissione, prescindendo da un atto formale.
Talvolta è lo stesso legislatore ad assegnare valenza significativa ad un certo comportamento della p.a., come accade nelle ipotesi di silenzio – assenso o di silenzio rigetto. In altri termini, nel primo caso, il silenzio si identifica con un comportamento legalmente tipizzato ed equiparato, quoad effectum, ad un provvedimento di accoglimento dell’istanza, ne deriva l’assoggettamento all’ordinario regime di impugnazione previsto per gli atti amministrativi ex art. 29 c.p.a.
Diversamente, nel secondo caso, il silenzio integra un mero comportamento, consistente in un inadempimento dell’obbligo di provvedere gravante sull’amministrazione. Si tratta di un fatto avente mero valore di presupposto processuale per adire il giudice amministrativo. Tanto emerge dalla lettera dell’art. 117 co.2, c.p.a. il quale dispone che nei ricorsi avverso il silenzio inadempimento “in caso di totale o parziale accoglimento del ricorso di primo grado, il giudice amministrativo ordina all’amministrazione di provvedere di norma entro un termine non superiore a trenta giorni”.
È facile intuire, dunque, che il comportamento della p.a. costituisce una modalità di esercizio della funzione pubblica, salvo l’ipotesi del silenzio – inadempimento ove l’interessato può promuovere una pronuncia del giudice amministrativo che, accertata l’esistenza del relativo dovere, ordina alla p.a. di provvedere.
In particolare, il silenzio si atteggia come un’inerzia della p.a., che può assumere significato di accoglimento o di reiezione dell’istanza del privato nei casi espressamente previsti dalla legge mentre il provvedimento implicito è un comportamento della p.a. che non viene esplicitato in una forma esteriore, ma è considerato atto amministrativo a tutti gli effetti e dal quale si può desumere la volontà dell’amministrazione. Sicché parte della dottrina[3] ha evidenziato che mentre nel silenzio manca una volontà positiva della p.a., nell’atto implicito detta volontà si desume da altro provvedimento o da un comportamento. Naturalmente sussistendo un atto, sia pur implicitamente desumibile da altri atti o da un comportamento, il privato non dovrà attivarsi con la procedura speciale di cui all’art 21 bis, l. Tar, ora art.117 c.p.a., non potendo ravvisarsi nell’atto implicito una  forma di inerzia amministrativa giustiziabile come tale con il rito del silenzio.
Trattandosi di atti esteriorizzati in forma indiretta, ma pur sempre previsti dalla legge, i comportamenti dell’amministrazione non pongono problemi di compatibilità con il principio di legalità, quanto piuttosto con le regole che attengono alle modalità di estrinsecazione del provvedimento amministrativo.
Nel provvedimento implicito, pertanto, esiste la fonte attributiva del potere, ma esso difetta di una forma percepibile ab externo.
Sul piano pratico, affinché possa parlarsi di atto implicito, la dottrina e la giurisprudenza hanno progressivamente enucleato taluni indici.
In primo luogo, deve esistere, a monte, una manifestazione espressa di volontà della p.a., più in dettaglio deve trattarsi di un atto amministrativo ovvero di un comportamento concludente.
Il predetto atto o comportamento deve, poi, provenire da un organo amministrativo competente ed adottato nell’esercizio delle sue funzioni.
Dalla manifestazione di volontà a monte, di natura attizia o comportamentale, è necessario desumere, in modo inequivoco, la volontà della p.a. di adottare un certo comportamento. Tra l’atto presupposto e quello presupponente è dato rinvenire un collegamento esclusivo e bilaterale.
L’atto implicito deve, a sua volta, rientrare nella sfera di competenza dell’autorità amministrativa che ha posto in essere l’atto presupposto.
Infine, le legge non deve imporre per l’atto implicito una determinata forma a pena di nullità, dovendosi rispettare, comunque, le regole procedimentali richieste per l’emanazione dell’atto.
Come ribadito dal Cons. St., Sez. VI, 27 novembre 2014, n. 5887 : “… la sussistenza del provvedimento implicito è riconosciuta quando l’Amministrazione, pur non adottando formalmente un provvedimento, ne determina univocamente i contenuti sostanziali, o attraverso un comportamento conseguente, ovvero determinandosi in una direzione, anche con riferimento a fasi istruttorie coerentemente svolte, a cui non può essere ricondotto altro volere che quello equivalente al contenuto del provvedimento formale corrispondente, congiungendosi i due elementi di una manifestazione chiara di volontà dell’organo competente e delle possibilità di desumere in modo non equivoco una specifica volontà provvedimentale nel senso che l’atto implicito deve essere l’unica conseguenza possibile della presunta manifestazione di volontà”.
Un tipico esempio di atto amministrativo implicito, prima dell’intervento delle SS.UU. 26 maggio 2015, n. 10798, era rappresentato dall’accertamento provvedimentale del requisito dell’utiliter versum nell’azione di ingiustificato arricchimento. Infatti, per lungo tempo, la giurisprudenza ha riconosciuto espressamente o implicitamente l’utilità dell’opera. Al riguardo, il Consiglio di Stato con sentenza 7 febbraio 2011, n. 813 ha chiarito che il provvedimento implicito “emerge in particolare, quante volte l’Amministrazione pur non adottando formalmente un provvedimento, ne determina univocamente i contenuti sostanziali, o attraverso un comportamento conseguente (che sfocia nel provvedimento espresso), ovvero determinandosi in una direzione a cui non può essere ricondotto altro volere che quello equivalente al contenuto del provvedimento formale corrispondente”.
Tra le ipotesi di atti impliciti desunti da altri provvedimenti amministrativi si è soliti annoverare: l’autorizzazione ad acquistare accordata ad un ente non riconosciuto, oggi non più necessaria ai sensi dell’art. 13 l. n. 127 dl 1997, che valeva come implicito riconoscimento dell’ente stesso ovvero il certificato di abitabilità o di uso di un immobile, da cui si desume implicitamente l’autorizzazione edilizia dell’opera realizzata.
In tale prospettiva è chiara la differenza sussistente tra il provvedimento implicito e la tematica dei poteri impliciti. Si tratta, invero, di poteri non espressamente previsti dalla legge, ma che, tuttavia, l’amministrazione intende esercitare per raggiungere gli scopi che il legislatore ha imposto attraverso poteri riconosciuti formalmente. In altri termini, il potere implicito non deve essere disciplinato da alcuna disposizione di legge e, al contempo, deve risultare funzionalmente connesso ad altro potere attribuito alla p.a. ex lege. Pertanto, si è al cospetto di poteri “consequenziali o successivi”[4], che accompagnano altri poteri conferiti all’amministrazione da un’esplicita norma: ciò che manca non è il provvedimento quanto piuttosto la fonte attributiva del potere. È lapalissiano il contrasto tra l’ammissibilità di poteri impliciti e il principio di legalità
Una prima opzione esegetica esclude categoricamente l’esercizio di poteri impliciti, attesa la rilevanza e l’irrinunciabilità del principio di legalità. In tal senso si esprime il T.A.R. Lombardia che, con la sentenza 4 febbraio 2002, n. 1331, ha chiarito l’inammissibilità della teoria dei poteri impliciti, stante la estraneità degli stessi al circuito della legittimazione democratica. Più in dettaglio si legge in sentenza : “non sono configurabili poteri amministrativi impliciti in capo all’Autorità per l’energia elettrica e il gas, poiché ciò contrasterebbe con il principio di legalità dell’azione amministrativa di cui all’art. 97 Cost.; in particolare, nessuna delle disposizioni che regolamentano il settore elettrico le conferisce competenza per destinare i proventi derivanti dall’attività svolta nel settore medesimo (nella fattispecie, conseguenti alla cessione di un ramo d’azienda) alla riduzione degli oneri afferenti il sistema.
A tale ricostruzione se ne oppone un’altra che, invece, riconosce l’ammissibilità di poteri impliciti in capo all’amministrazione.
Seguendo detta ricostruzione, la teoria negativa reca con sé un grave errore metodologico, in quanto non prende in considerazione le istanze provenienti dal diritto comunitario e non coglie la reale essenza del principio di legalità, il quale non esige l’espressa attribuzione del potere, essendo sufficiente che essa risulti dal complesso del sistema. D’altro canto, è stato osservato che nell’attuale sistema giuridico l’ordinamento tende verso un’amministrazione di risultato come emerge, in modo esplicativo, dalla disposizione di cui all’art. 21 octies co.2 l. 241/90.
Come osservato da parte della dottrina[5], la teoria dei poteri impliciti risponde all’esigenza di un’interpretazione evolutiva delle norme giuridiche, in quanto consente di adattare la normativa ai più cogenti bisogni del tempo.
Chiarita la differenza tra poteri impliciti e provvedimento implicito, è opportuno indagare sulle condizioni di ammissibilità di quest’ultimo atto.
In primo luogo, occorre verificare quale sia, al cospetto di un’attività autoritativa della p.a., la forma richiesta dal legislatore.
I dubbi sono alimentati dalla previsione di cui all’art. 2 l. n. 241 del 1990, così sostituita dall’art. 7, comma 1, legge n. 69 del 2009, la quale contempla che “Ove il procedimento consegua obbligatoriamente ad un’istanza, ovvero debba essere iniziato d’ufficio, le pubbliche amministrazioni hanno il dovere di concluderlo mediante l’adozione di un provvedimento espresso. Se ravvisano la manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità o infondatezza della domanda, le pubbliche amministrazioni concludono il procedimento con un provvedimento espresso redatto in forma semplificata, la cui motivazione può consistere in un sintetico riferimento al punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo”.
3. Compatibilità dell’atto amministrativo implicito con il disposto dell’art. 2 della L. 241 del 1990.
Il disposto dell’art. 2 l. n. 241 del 1990 obbliga la p.a. a concludere il procedimento mediante l’adozione di un provvedimento espresso.
Procedendo ad un’analisi letterale della norma, parte della dottrina, all’indomani dell’entrata in vigore della legge sul procedimento amministrativo ha pervicacemente escluso l’ammissibilità, nel nostro ordinamento, di provvedimenti impliciti.
La riflessione successiva degli interpreti ha condotto ad un diverso approccio ermeneutico. In virtù del principio della libertà delle forme si è inteso stemperare il necessario formalismo del provvedimento amministrativo, salvo che la legge non preveda, a pena di nullità, il requisito della forma scritta ad substantiam.
Pertanto, si è fatta strada l’idea secondo cui la previsione di cui all’art. 2 l. n. 241 del 1990 non imponga, per tutti gli atti amministrativi, la forma scritta ma piuttosto contempla un divieto a carico della p.a. di rimanere inerte dopo l’avvio del procedimento.
Ne deriva che il difetto di forma può generare la nullità dell’atto ex art. 21 septies l. n. 241 del 1990 solo qualora essa sia prescritta dalla legge quale elemento essenziale: non può concludersi, tout court, nel senso della nullità per difetto di volontà o di forma dell’atto implicito. Quest’ultimo è completo di volontà e di forma, salvo le ipotesi tassative previste dal legislatore.
In una logica sostanzialista si pone, altresì, la giurisprudenza maturata in relazione all’omissione del preavviso di rigetto di cui all’art. 10 bis l. n. 241 del 1990. La mancata comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento della domanda del privato non generano l’illegittimità del provvedimento finale nel caso in cui l’interessato, nel ricorso, non abbia dedotto alcun elemento in fatto idoneo ad inficiare le conclusioni raggiunte con il provvedimento finale impugnato, non essendoci prova che la sua partecipazione al procedimento si sarebbe concretizzata in osservazioni, deduzioni ovvero opposizioni idonee a sortire una favorevole incidenza sul provvedimento impugnato[6].
Alle stesse conclusioni la giurisprudenza è pervenuta in relazione all’atto implicito assunto dalla p.a. con riferimento all’omessa comunicazione di avvio del procedimento, potendo operare il meccanismo di cui al co. 2 dell’art. 21 octies l. n. 241 del 1990.
4. Sulla compatibilità dell’atto implicito con l’obbligo generale di motivazione
Ulteriore previsione normativa che ha sollevato taluni dubbi di compatibilità con l’operatività dell’atto amministrativo implicito è quella di cui all’art. 3 l. n. 241 del 1990, che prescrive un obbligo generale di motivazione.
Accogliendo le istanze di maggiore democraticità e trasparenza dell’azione amministrativa, il legislatore ha introdotto un obbligo generalizzato di motivazione, esteso a tutti gli atti amministrativi, salve le ipotesi espressamente previste dal legislatore.
Si è soliti ascrivere all’obbligo di motivazione diverse finalità. In primo luogo, garantisce il soggetto sacrificato dall’atto amministrativo, nella prospettiva di un controllo giurisdizionale. La possibilità di conoscere l’iter logico seguito dalla p.a. e le ragioni sottese all’adozione di un certo provvedimento consente di realizzare una verifica successiva della correttezza dello stesso, ad opera di un soggetto terzo ed imparziale. Inoltre, la motivazione consente, altresì, al giudice di svolgere un sindacato estrinseco sulla legittimità dell’atto impugnato, preclusa in assenza di quella esplicitazione motivazionale, di cui vagliare logicità e congruità.
Infine, parte della dottrina ha evidenziato che la motivazione costituisce un’applicazione diretta dei principi di pubblicità e trasparenza. Ciò in quanto il silenzio serbato dalla p.a. sull’istanza del privato è antinomico alla trasparenza, di qui la necessità di un obbligo motivazionale.
Muovendo da tali premesse, si è discusso circa la compatibilità dell’atto implicito con l’obbligo generale di motivazione.
Parte della dottrina[7] ha escluso che la previsione di cui all’art. 3 l. n. 241 del 1990 impedisca la configurabilità della figura del provvedimento implicito, la cui motivazione risulta desumibile dall’atto presupposto.
Di contrario avviso, altro indirizzo ha evidenziato che il principio della libertà delle forme è stato progressivamente eroso dalla esigenza contemplata dall’art. 3 l. n. 241 del 1990, in forza del quale ogni provvedimento amministrativo debba essere necessariamente motivato[8].
In senso critico, altri autori[9] hanno sottolineato che la posizione summenzionata non appare in linea con l’idea secondo cui, in mancanza di una norma generale che prescriva la forma scritta, deve reputarsi preminente il principio di libertà delle forme. Seguendo tale approccio, il difetto di forma costituisce causa di nullità solo nei casi in cui una determinata forma sia prescritta dalla legge.
5. Chiarimenti circa le condizioni di ammissibilità del provvedimento amministrativo implicito ad opera della V Sezione del Consiglio di Stato, sentenza n. 589 del 20
 Con sentenza n. 589/2019, la V Sezione del Consiglio di Stato ha precisato la configurabilità del provvedimento amministrativo implicito, soffermandosi, in particolare, sulle sue condizioni di ammissibilità.
In perfetta continuità con l’indirizzo consolidato[10], il Supremo Consesso ribadisce l’ammissibilità dell’atto implicito “qualora l’Amministrazione, pur non adottando formalmente la propria determinazione, ne determini univocamente i contenuti sostanziali, o attraverso un contegno conseguente, ovvero determinandosi in una direzione, anche con riferimento a fasi istruttorie coerentemente svolte, a cui non può essere ricondotto altro volere che quello equivalente al contenuto del corrispondente provvedimento formale non adottato: le quante volte, cioè, emerga senza equivoco un collegamento biunivoco tra l’atto adottato o la condotta tenuta e la determinazione che da questi si pretende di ricavare, onde quest’ultima sia l’unica conseguenza possibile della presupposta manifestazione di volontà”.
A sostegno di tale conclusione non ostano le disposizioni sul procedimento amministrativo sopra esposte.
Come chiarito dalla V Sezione del Consiglio di Stato non può essere ravvisata, come ostacolo all’operatività dell’atto implicito, la previsione di cui all’art. 2 l. n. 241 del 1990. La disposizione in esame “…avuto riguardo alla sua complessiva ratio, preordinata a precludere la facoltà di assumere e serbare comportamenti inerti all’esito della attivazione del procedimento – intende solo imporre una definitiva determinazione, ma non ne sancisce le necessarie modalità formali (onde “espresso”, nella semantica della disposizione, non deve ritenersi sinonimo di “esplicito”)”.
Ne deriva che lo stesso art. 21 septies l. n. 241 del 1990 è destinato ad assumere un diverso significato. Esso non si traduce in una causa generale di nullità, ma “…nella parte in cui evoca la nullità per l’ipotesi di assunzione in assenza dei requisiti formali – si riferisce esclusivamente, sotto un primo profilo, ai formalismi espressamente previsti dal paradigma normativo di riferimento (arg. etiam ex art. 11 l. cit., quanto agli accordi surrogatori di provvedimento) e, comunque, alle ipotesi in cui la carenza manifestativa incida, radicalmente, sull’insieme delle caratteristiche esteriori necessarie alla qualificazione dell’atto (forma essenziale): il che trova conferma non solo nel principio generale, valido anche in diritto amministrativo, della libertà delle forme, ma anche nel (correlativo e) generale canone antiformalistico positivamente scolpito all’art. 21 octies, comma 2, nella sua comprensiva attitudine a dequotare, a fini di invalidazione, i requisiti di forma degli atti”.
Nello stesso senso si pone l’interpretazione dell’art. 10 bis l. n. 241 del 1990, il quale non ha un’efficacia invalidante tout court. In particolare, “l’art. 10 bis, il quale – di là da ogni altro rilievo – è diffusamente interpretato (ancora e di nuovo alla luce dell’art. 21 octies cit.) nel senso che la violazione dell’obbligo formale partecipativo non assume attitudine invalidante, in difetto di prospettica allegazione, ad infringendum, di fatti od elementi idonei ad inficiare le conclusioni assunte con il provvedimento impugnato.
Quanto poi all’obbligo di motivazione, nel caso di manifestazione di volontà tacita o di comportamento concludente non può farsi discendere in via automatica un difetto di motivazione. Tale impostazione è supportata dall’operatività della motivazione per relationem, dalla quale discende la possibilità di ricavare le ragioni del provvedimento, tacito o implicito, da atti amministrativi pregressi. In dettaglio “l’art. 3, che – legittimando espressamente la motivazione per relationem – autorizza a prefigurare l’eventualità che il supporto giustificativo di contegni circostanziatamente concludenti risulti da atti amministrativi sottostanti, idonei a prefigurare una (necessaria) relazione di presupposizione”.
Superati i seguenti dubbi, l’attenzione degli interpreti si è focalizzata sull’individuazione dei presupposti strutturali del provvedimento amministrativo implicito.
Facendo proprie le considerazioni pregresse della giurisprudenza, i giudici di Palazzo Spada hanno ravvisato i seguenti elementi costitutivi dell’atto implicito:
1) l’esistenza, a monte, di una manifestazione espressa di volontà dell’Amministrazione, quale provvedimento formale o comportamento concludente, dalla quale sia possibile desumere il provvedimento implicito;
2) detto atto a monte ed il provvedimento implicito devono essere predisposti da un organo amministrativo competente e nell’esercizio delle proprie funzioni;
3) il provvedimento implicito adottato non deve essere regolato dalla legge, la quale esige una forma determinata a pena di nullità;
4) l’atto implicito e quello presupponente devono essere caratterizzati da un collegamento esclusivo e bilaterale, sicché il primo si configura come unica conseguenza possibile del secondo.
In ogni caso, però, è necessario che gli elementi necessari del provvedimento implicito devono affiorare chiaramente dall’iter procedimentale e dalle acquisizioni istruttorie, così come già stabilito in precedenza dal Consiglio di Stato[11]
Note e riferimenti bibliografici
[1] E. CASETTA, Manuale di diritto amministrativo, Giuffré, Milano, ed. 2018
[2] In tal senso cfr. Corte Cost. 7 aprile 2011, n. 115
[3] R. GAROFOLI, Diritto amministrativo, Nel Diritto editore, Roma, 2015 – 2016, III edizione
[4] A. UBALDI, Poteri impliciti della p.a.: tra legalità e forma, in Lexitalia.it, n.4, 2013
[5] G. MORBIDELLI, Poteri impliciti (a proposito della monografia di Cristiano Celone “La funzione di vigilanza e regolazione dell’Autorità sui contratti pubblici”, Giuffrè, Milano, 2012) in www.anticorruzione.it
[6] In tal senso cfr. Tar Veneto, sez. II, 12 febbraio 2008, n. 350; Tar Toscana, sez. III, 2 luglio 2007, n. 1013; Tar Puglia, Bari, sez., I, 24 marzo 2006, n. 993
[7]  Per approfondimenti, si rinvia a TUCCI, L’atto amministrativo implicito, Milano, 1990.
[8] G. CORSO, Manuale di diritto amministrativo, G. Giappichelli editore, Torino, 8 edizione
[9] F. CARINGELLA, Manuale di diritto amministrativo, Dike Giuridica editrice, Roma, 2018
[10] cfr. Cons. Stato, sez. V, 19 febbraio 2018, n. 1034; Id., sez. IV, 24 aprile 2018, n. 2456; Id., sez. V, 31 marzo
2017, n. 1499; Id., sez. VI, 27 aprile 2015, n. 2112
[11] sentenza 19.02.2018, n. 1034, CdS, sez. V.

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