11/01/2019 – Incarichi a contratto, la Cassazione conferma l’obbligo di pubblicazione del bando nella Gazzetta Ufficiale.

Azienditalia, 2019, 1, 80 (dottrina)

Incarichi a contratto, la Cassazione conferma l’obbligo di pubblicazione del bando nella Gazzetta Ufficiale.

di Amedeo Di Filippo – Dirigente comunale

Con la sentenza n. 53180, depositata il 27 novembre 2018, la sezione penale della Corte di cassazione ha definitivamente risolto la questione dell’obbligo di pubblicazione in Gazzetta delle selezioni destinate ad assumere dirigenti a contratto in base all’art. 110 del TUEL, qualora seguano le regole proprie del concorso pubblico. Lo stesso ha sostenuto la quinta sezione del Consiglio di Stato con la sentenza n. 5298 dello scorso 10 settembre.

Sommario: Premessa – Le norme – Uno sguardo ai precedenti – L’ultima del Consiglio di Stato – L’intervento della Cassazione

Premessa

Esiste l’obbligo di pubblicazione in Gazzetta Ufficiale degli avvisi finalizzati all’assunzione di personale in base all’art. 110 del TUEL qualora la selezione, seguendo le regole del concorso pubblico, preveda la nomina di una commissione, l’attribuzione di punteggi, la formazione di una graduatoria. Sono le conclusioni cui approda la Cassazione penale con la sentenza n. 53180/2018, resa all’esito di un processo in cui un dirigente è stato accusato di abuso di ufficio ex art. 323 c.p. per l’assunzione di un funzionario apicale in violazione dell’art. 4, comma 1-bis, del D.P.R. n. 487/1994, a causa della mancata pubblicazione sulla Gazzetta degli estremi del bando, e dell’art. 124, comma 1, del TUEL, per mancata affissione dell’avviso nell’albo pretorio per un periodo non inferiore ai prescritti 15 giorni.

Per fortuna del povero dirigente, la Suprema Corte ha ritenuto che la semplice violazione di legge non conduce all’abuso di ufficio, non avendo la Corte di appello adeguatamente motivato l’intenzionalità della sua condotta di voler procurare il vantaggio patrimoniale o il danno ingiusto richiesto dalla norma penale. La mancanza della motivazione ha indotto la Cassazione ad annullare la sentenza e a rinviare la causa ad altra sezione della Corte di appello per il nuovo esame.

Le norme

L’art. 110 del TUEL consente alle Amministrazioni locali di prevedere nello statuto che la copertura dei posti di responsabili dei servizi o degli uffici, di qualifiche dirigenziali o di alta specializzazione, possa avvenire mediante contratto a tempo determinato.

Con le modificazioni introdotte dall’art. 11, comma 1, lett. a), del D.L. n. 90/2014 convertito dalla Legge n. 114/2014, ai fini del conferimento degli incarichi è stata imposta la “previa selezione pubblica volta ad accertare, in capo ai soggetti interessati, il possesso di comprovata esperienza pluriennale e specifica professionalità nelle materie oggetto dell’incarico“.

Null’altro stabilisce la norma in relazione alle forme di pubblicità della selezione, ma vigono pur sempre le regole generali:

– l’art. 4, comma 1-bis, del D.P.R. n. 487/1994, che dà facoltà agli Enti locali territoriali di sostituire la pubblicazione del bando nella Gazzetta Ufficiale con la pubblicazione di un avviso di concorso contenente gli estremi del bando e l’indicazione della scadenza del termine per la presentazione delle domande;

– l’art. 124, comma 1, del TUEL, secondo il quale tutte le deliberazioni del Comune e della Provincia sono pubblicate mediante pubblicazione all’albo pretorio, nella sede dell’Ente, per quindici giorni consecutivi, salvo specifiche disposizioni di legge;

– l’art. 35, comma 3, lett. a), del D.Lgs. n. 165/2001, che pretende un’adeguata pubblicità per le selezioni;

– il comma 16 della Legge n. 190/2012, che impone la pubblicazione sul sito di alcuni procedimenti, tra i quali i concorsi e le prove selettive per l’assunzione del personale (lett. d);

– l’art. 23 del D.Lgs. n. 33/2013, che parimenti impone la pubblicazione e l’aggiornamento, in distinte partizioni della sezione “Amministrazione trasparente”, degli elenchi dei provvedimenti adottati dagli organi di indirizzo politico e dai dirigenti.

Un corposo elenco di prescrizioni che obbligano a dare massima trasparenza delle procedure selettive avviate dalle Pubbliche Amministrazioni ad ogni livello, senza distinzione tra concorsi pubblici veri e propri e selezioni di ogni sorta. L’unica fonte che però obbliga alla pubblicazione in Gazzetta è il “commino” dell’art. 4 del D.P.R. n. 487/1994, che peraltro non rientra tra le norme di indirizzo per gli Enti locali elencate all’art. 18-bis né può essere ritenuto cogente alla luce dell’art. 89 del TUEL, che riconosce loro un’ampia potestà regolamentare in materia di ordinamento degli uffici e dei servizi – con competenza affidata alla Giunta e non al Consiglio – e che al comma 4 impone la procedura di reclutamento prevista dal D.P.R. n. 487/1994 solo in mancanza di disciplina regolamentare interna.

Uno sguardo ai precedenti

Sull’obbligo di pubblicazione dei bandi esiste un profluvio di giurisprudenza, ma non è molta quella relativa alla specifica vicenda delle selezioni per le assunzioni di dirigenti e funzionari apicali come previsto dall’art. 110 del TUEL. Per restare alle ultime pronunce interessanti, un primo riferimento è alla sentenza 8 giugno 2015, n. 2801 con cui la quinta sezione del Consiglio di Stato ha vagliato un bando di concorso mai pubblicato, neppure per estratto, sulla Gazzetta Ufficiale né sul Bollettino Ufficiale della Regione, bensì esclusivamente sul sito web e all’albo pretorio del Comune.

Il TAR aveva accolto il ricorso e annullato gli atti, giudizio che è stato mantenuto anche in appello, dichiarato infondato dai giudici di Palazzo Spada, dopo aver affermato l’appartenenza della causa alla giurisdizione amministrativa ai sensi dell’art. 63, comma 4, del D.Lgs. n. 165/2001.

Secondo l’appellante, il bando di concorso non avrebbe necessitato di pubblicazione nella Gazzetta in quanto il Comune avrebbe diversamente disposto nell’esercizio della propria potestà normativa mediante lo Statuto e il Regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi. La quinta sezione, citando un precedente del 2010, ha invece rilevato un contrasto insanabile con l’art. 4, comma 1-bis, del D.P.R. n. 487/1994, che per gli Enti locali prevede la possibilità di sostituire la pubblicazione del bando con l’avviso contenente gli estremi.

Tale disposizione non può considerarsi in contrasto con l’art. 35, comma 3, lett. a), del D.Lgs. n. 165/2001, che si limita a prescrivere “adeguata pubblicità della selezione” senza nulla specificare in ordine alla pubblicazione in Gazzetta. Questo comporta, secondo i giudici di Palazzo Spada, che le disposizioni di dettaglio contenute nella fonte regolamentare “servono a completare la norma di rango legislativo, costituendone coerente e conforme specificazione. Esse non possono, pertanto, essere disapplicate, in quanto conformi alla norma di rango superiore e allo stesso dettato degli artt. 51 e 97 della Costituzione, che garantiscono il diritto di accesso agli impieghi pubblici di tutti i cittadini su di un piano di parità, esercitabile solo “attraverso un sistema di pubblicità che favorisca la massima partecipazione”.

Diversamente da quanto immaginato, non regge la norma del regolamento comunale che ammette forme di pubblicità ridotte rispetto a quella imposta dalla normativa generale, non solo perché la specifica disposizione prevede la pubblicazione del bando o dell’avviso “nel rispetto delle procedure vigenti alla data di approvazione del bando”, non escludendo dunque, ma anzi confermando secondo il Consiglio di Stato, l’applicazione dell’art. 4; ma, in via sostanziale, perché non assume rilievo la questione circa la possibilità riconosciuta ai Comuni di disciplinare, con proprio regolamento, ai sensi dell’art. 89 del TUEL, l’ordinamento degli uffici e dei servizi, “poiché il Regolamento comunale, per quanto detto, non autorizza affatto a ritenere superato il precetto regolamentare costituito dall’art. 4 del D.P.R. n. 487“.

La stessa quinta sezione è tornata sull’argomento con la sentenza 25 gennaio 2016, n. 227, che ha giudicato la mancata pubblicazione del bando in Gazzetta alla luce della entrata in vigore dell’art. 32 della Legge n. 69/2009, che ha previsto l’obbligo delle Amministrazioni di pubblicare i provvedimenti sui propri siti.

Tesi anch’essa respinta sulla base delle medesime considerazioni contenute nella sentenza n. 2801/2015, non scalfite dall’art. 32 il cui comma 7 ha ribadito il perdurante vigore delle disposizioni – anche di rango secondario – che in precedenza hanno disposto la pubblicazione degli atti amministrativi sulla Gazzetta Ufficiale.

Si è quindi espresso il TAR Campania con la sentenza 23 giugno 2017, n. 3433, all’esito di un ricorso presentato da un soggetto che aveva avuto conoscenza solo attraverso un quotidiano di una selezione pubblica per un posto di vicesegretario, alla quale non aveva potuto partecipare, pur essendo in possesso dei requisiti richiesti, in quanto a quella data era ormai scaduto il termine di presentazione delle domande. Lamentando la mancata pubblicazione del bando in Gazzetta Ufficiale, ha impugnato tutti gli atti della procedura, conclusa con l’approvazione della graduatoria.

I giudici hanno dichiarato fondato il ricorso, evidenziando la natura concorsuale della procedura, non solo per l’espressa qualificazione in termini di concorso conferita alla selezione dal bando e dal rinvio alle previsioni del D.P.R. n. 487/1994, ma soprattutto per la sussistenza di tutti gli “indici rivelatori della natura concorsuale della procedura assunzionale”: emanazione del bando con l’indicazione del posto messo a concorso, nomina della commissione esaminatrice, attribuzione del punteggio per i titoli posseduti e per la prova scritta e orale sulla base della previa fissazione dei criteri di valutazione, compilazione di una graduatoria finale di merito, nomina del primo classificato come vincitore.

La presenza di questi indici fonda la ragione del ricorrente nel lamentare la mancata pubblicazione del bando di concorso in Gazzetta Ufficiale, essendosi limitato il Comune a pubblicarlo sull’albo on-line e darne comunicazione ai Comuni viciniori e alla Provincia, in ottemperanza a quanto disposto dal regolamento. Secondo i giudici, l’obbligo di pubblicazione in Gazzetta “costituisce una regola generale attuativa dell’art. 51, primo comma, e dell’art. 97, comma terzo, della Costituzione“, che ha la finalità di consentire la concreta massima conoscibilità dell’indizione di un concorso pubblico a tutti i cittadini, indipendentemente dalla loro residenza sul territorio dello Stato. Le disposizioni di dettaglio contenute nella fonte regolamentare servono a completare la norma di rango legislativo, costituendone coerente e conforme specificazione.

L’ultima del Consiglio di Stato

L’orientamento del giudice amministrativo si è dunque assestato sulla prevalenza della norma del 1994 rispetto alla potestà regolamentare locale, non senza qualche dubbio di quanti sono convinti dell’autonomia riconosciuta agli Enti locali dal TUEL nella declinazione delle norme nazionali, come coloro i quali hanno appellato la sentenza n. 3433/2017 del TAR Campania lamentando l’erronea valorizzazione degli obblighi pubblicitari imposti dall’art. 4 del D.P.R. n. 487/1994 alle procedure propriamente concorsuali, con conseguente svalutazione dell’operato dell’Amministrazione comunale che, in conformità a quanto previsto dall’art. 35 del D.Lgs. n. 165/2001 e del proprio regolamento sulle modalità di assunzione, aveva diffuso il bando di concorso mediante pubblicazione sul proprio albo pretorio e su quello dei Comuni limitrofi e sull’albo della Provincia, così assicurando forme di pubblicità ritenute utili e adeguate a garantire un’effettiva partecipazione alla selezione.

Sull’appello è tornata ad esprimersi la quinta sezione del Consiglio di Stato con la sentenza 10 settembre 2018, n. 5298, che lo dichiara infondato nel merito utilizzando un ragionamento che completa quello proposto nelle precedenti pronunce.

Osservano innanzitutto i giudici che la nozione di “concorso” non ha una propria definizione normativa, evocando genericamente la sua attitudine a strutturare una procedura selettiva di matrice propriamente concorrenziale, come tale aperta al confronto comparativo tra una pluralità di candidati in possesso dei requisiti di partecipazione.

Tratti caratteristici di tale istituto sono l’apertura alla generalità dei soggetti in possesso dei necessari requisiti, l’adozione di apposito bando, la costituzione di una commissione giudicatrice, la formazione dell’elenco dei candidati esaminati con indicazione dei voti riportati, la formazione di una graduatoria di merito dei candidati formata secondo l’ordine dei punti della votazione complessiva riportata da ciascuno, l’elaborazione della graduatoria dei vincitori destinata alla successiva approvazione e pubblicizzazione.

In presenza di questi tratti si è in presenza di un “concorso”, afferma la quinta sezione, di là dal nomen utilizzato in concreto dall’Amministrazione, della tipologia del posto messo a concorso e della durata del contratto. Questa la definizione che ne danno i giudici amministrativi: “una procedura preordinata alla selezione concorrenziale nell’ambito di una platea indeterminata di potenziali canditati, mediante il programmatico svolgimento di prove rimesse all’apprezzamento comparativo di apposita commissione giudicatrice, destinato alla trasfusione in apposita graduatoria, inclusiva dei soggetti ritenuti idonei e di quelli dichiarati vincitori“.

Per essere più chiari, nell’alveo delle procedure “selettive” rientrano tanto il “concorso pubblico” vecchio stampo quanto le procedure “idoneative” che, indipendentemente dalla prefigurazione e dall’esperimento di apposite prove, si caratterizzano per la valutazione meramente fiduciaria dei candidati, con esclusione della formazione di una definitiva graduatoria di merito, che secondo il Consiglio di Stato rappresenta “il vero e proprio elemento scriminante tra l’una e l’altra vicenda“.

Una distinzione, questa, non certo di lana caprina, ma indispensabile per decidere sul riparto della giurisdizione, conferita al giudice amministrativo solo per le procedure propriamente concorsuali.

Anche la procedura dell’art. 110 del TUEL è meramente idoneativa, essendo caratterizzata da: incarico a contratto di natura temporanea, ancoraggio temporale al mandato elettivo del Sindaco o del Presidente della Provincia, automatica risoluzione in caso di dissesto o di sopravvenienza di situazioni strutturalmente deficitarie, possibilità di formalizzare in via eccezionale contratti “di diritto privato“, mancata previsione della nomina di una commissione giudicatrice, non necessario svolgimento di prove e formazione di graduatorie. Tratti che “concorrono ad evidenziare il triplice carattere di temporaneità, specialità e fiduciarietà che caratterizza la procedura in questione, che – per tal via – deve ritenersi, in conformità al comune intendimento, bensì selettiva ma non concorsuale“.

Nel caso sottoposto a giudizio, però, il Comune si era autolimitato qualificando in termini di concorso la selezione bandita; richiamando puntualmente le previsioni del D.P.R. n. 487/1994; immettendo nella procedura tutti gli indici rivelatori della natura concorsuale della procedura, con riguardo all’emanazione del bando, alla nomina della commissione esaminatrice, all’attribuzione del punteggio per i titoli posseduti e per la prova scritta e orale, alla previa fissazione dei criteri di valutazione, alla compilazione di una graduatoria finale di merito, alla nomina del primo classificato come vincitore.

È del tutto evidente che in questo caso si è in presenza di una procedura concorsuale a tutti gli effetti e non meramente selettiva, con due conseguenze specifiche:

1) deve essere ritenuta la giurisdizione del giudice amministrativo;

2) devono osservarsi tutte le modalità pubblicitarie, con particolare riferimento alla pubblicazione del bando in Gazzetta Ufficiale.

L’intervento della Cassazione

Al netto delle scelte operare dalla singola Amministrazione, non tutte le procedure ex art. 110 del TUEL devono dunque essere pubblicate in Gazzetta, essendo limitato l’obbligo a quelle propriamente concorsuali, a prescindere – in questo caso – da quanto disposto dal regolamento interno. Principio che ha trovato l’avallo anche della sezione penale della Corte di cassazione con la sentenza n. 53180 depositata il 27 novembre 2018.

Qui di discetta di un’assunzione a tempo determinato ex art. 110, comma 1, del TUEL ritenuta illegittima perché affetta da tre distinti profili di violazione di legge:

1) inosservanza della procedura prevista dall’art. 4, comma 1-bisD.P.R. n. 487/1994;

2) inosservanza dell’art. 124, comma 1, del TUEL quanto alla pubblicazione dell’avviso di selezione;

3) inosservanza dell’art. 35, comma 3, lett. e), e dell’art. 107 del D.Lgs. n. 165/2001, che impongono il divieto di partecipare alle commissioni esaminatrici per gli organi politici, con la conseguente violazione del principio di separazione tra potere politico e potere amministrativo e del principio di imparzialità.

Il conflitto si dipana tutto intorno alla possibilità di considerare la selezione quale concorso pubblico a tutti gli effetti, nella misura in cui la materia dei contratti stipulati da Enti locali di conferimento di incarichi a tempo determinato a soggetti non propri dipendenti non è equiparabile ad un’assunzione e non sarebbe soggetta alle norme che disciplinano il rapporto di pubblico impiego nella sua instaurazione e nel suo svolgimento.

La Suprema Corte non avalla tale ragionamento e approda alle stesse conclusioni cui è giunto il Consiglio di Stato. Partono i giudici dal considerare che le disposizioni del D.Lgs. n. 165/2001 devono essere osservate anche dalle Amministrazioni locali, a ragione della loro natura di principi fondamentali ai sensi dell’art. 117 Cost. La disciplina di cui all’art. 110 del TUEL non detta indicazioni particolari per gli incarichi a termine, se non per la costituzione e per la cessazione del rapporto, che sono diversamente regolate rispetto a quanto previsto per il rapporto di pubblico impiego a tempo indeterminato con assegnazione di incarichi dirigenziali.

Sebbene l’attività selettiva non sia assimilabile ad un concorso funzionale all’assunzione di pubblici dipendenti, in quanto diretta soltanto a reperire il candidato più rispondente alle caratteristiche e alle esigenze dell’Ente e alle mansioni da assegnare senza la formazione di una graduatoria, nel caso di specie ne era stata prevista la procedimentalizzazione mediante l’adozione di adempimenti sequenziali diretti a garantire la pubblicità dell’avviso, la partecipazione di tutti i possibili aspiranti e lo scrutinio dei candidati fino ad un giudizio finale di individuazione di quello ritenuto più idoneo. Così facendo, anche in questo caso il Comune si è auto-vincolato al rispetto delle prescrizioni normative in materia di procedure concorsuali, compresa quella che obbliga alla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale dell’avviso della selezione pubblica.

Diverso è l’aspetto penale della vicenda, ravvisato dalla Corte distrettuale nell’intento di procurare un indebito vantaggio patrimoniale al soggetto destinatario dell’incarico, dimostrato dalla situazione di dissesto economico del Comune e dal conseguente divieto normativo di procedere a nuove assunzioni.

I giudici di Cassazione non condividono e non ravvisano l’elemento psicologico del reato, in quanto proprio la situazione di disavanzo aveva indotto il Sindaco ad optare per l’affidamento di incarico a contratto, al fine di ottenere l’apporto lavorativo di un professionista esterno che potesse sopperire alla vacanza del corrispondente posto in organico nei tempi necessari per acquisire le risorse con le quali bandire ed espletare regolare concorso, come poi avvenuto successivamente.

Scelta che, anzi, aveva consentito all’Ente di beneficiare delle prestazioni e al contempo di risparmiare rispetto ai costi che avrebbe dovuto sopportare per un dipendente assunto a tempo indeterminato assegnato a pari mansioni.

Manca dunque l’elemento soggettivo nella configurazione del reato di cui all’art. 323 c.p., che riveste un rilievo centrale e fortemente selettivo dei comportamenti illegittimi, meritevoli di punizione penale, in base al quale è necessario raggiungere un alto livello di certezza che la volontà dell’imputato sia stata orientata a procurare il vantaggio patrimoniale o il danno ingiusto.

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