11/01/2016 – Prove tecniche di regime – Le mani del Governo sul Consiglio di Stato

Prove tecniche di regime

Le mani del Governo sul Consiglio di Stato*

di Salvatore Sfrecola

Ricordo, sul finire degli anni ’90, una conversazione con Franco Frattini[1], all’epoca deputato al Parlamento, a proposito di una proposta di legge che aveva presentato, su sollecitazione dell’Associazione Magistrati della Corte dei conti, della quale ero Presidente. Riguardava il procedimento di nomina del Presidente della Corte dei conti.L’intendimento era quello di limitare la discrezionalità del Governo che, sulla base del T.U. delle leggi sulla Corte, approvato con R.D, 12 luglio 1934, n. 1214, poteva nominare al vertice della magistratura contabile anche un estraneo, com’era accaduto con Giuseppe Carbone, appena andato in pensione, Presidente non proveniente dai ruoli della magistratura contabile[2]. Ciò non era consentito per il Consiglio di Stato il cui Presidente è nominato “tra i magistrati che abbiano effettivamente esercitato per almeno cinque anni funzioni direttive”[3] e così si chiedeva fosse previsto per la Corte dei conti, considerato che le due magistrature sono equiparate quanto alle garanzie della loro indipendenza (degli organi e dei relativi componenti) dagli artt. 100, comma 3, per le funzioni rispettivamente consultive e di controllo e 103, commi 1 e 2, della Costituzione per quelle giurisdizionali, in ragione dell’art. 108, comma 2, secondo il quale “la legge assicura l’indipendenza dei giudici delle giurisdizioni speciali”. E così fu la legge 21 luglio 2000, n. 202, recante “Disposizioni in materia di nomina del Presidente della Corte dei conti” la quale prevede, appunto, che la nomina debba riguardare un magistrato appartenente ai ruoli della Corte[4].

Al Consiglio di Stato la scelta è sempre caduta sul più anziano dei Presidenti di sezione. Ed è sulla base di tale prassi che Frattini, nell’occasione evocata, mi disse: “so esattamente giorno, mese ed anno nel quale sarò Presidente del Consiglio di Stato”.

Oggi, dopo le dimissioni di Giorgio Giovannini, che ha lasciato anticipatamente per protesta nei confronti della decisione governativa di “sfoltire” il ruolo di quei giudici mandando in pensione anticipata un bel numero di essi, nell’ambito di uno sbandierato quanto ipocrita “ricambio generazionale” che ha determinato l’esodo dei più anziani senza contestualmente reclutare giovani, non è più certo che a Palazzo Spada s’insedierà il più anziano.

Si sente dire, infatti, mi tengo sul generico per carità di Patria nella speranza non sia vero nonostante le numerose coincidenti anticipazioni giornalistiche, che il Governo avrebbe chiesto alConsiglio di Presidenza della Giustizia amministrativa[5] una rosa di cinque nomi tra i quali scegliere il prossimo Presidente del Consiglio di Stato.

Se vera, e temo lo sia, si tratterebbe di una decisione senza precedenti, perché i governi di destra e di sinistra hanno fin qui chiesto un nome secco, sulla base di una prassi interpretativa secondo la quale l’espressione “sentito il parere del consiglio di presidenza”)[6] nell’ambito del procedimento di nomina del Presidente del Consiglio di Stato, che si conclude con un decreto del Presidente della Repubblica previa deliberazione del Consiglio dei ministri su proposta del Presidente del Consiglio (art. 22 della legge 27 aprile 1982, n. 186), ha assunto i connotati di una “designazione”, probabilmente avendo presente l’ordinamento giudiziario ed il conferimento degli incarichi direttivi, ai sensi dell’art. 11, comma 3, della legge 24 marzo 1958, n. 195, cui provvede il Consiglio Superiore della Magistratura che “delibera, su proposta, formulata di concerto col Ministro …, di una Commissione”[7]. Considerato che la maggioranza degli studiosi, sulla scia di indicazioni della giurisprudenza costituzionale, ritiene che le delibere consiliari sono l’elemento sostanzialmente preponderante di un atto composto ineguale, dove l’ineguaglianza formalmente indica la prevalenza del Ministro, ma sostanzialmente esprime la preminenza del Consiglio, alla cui esclusiva volontà risale il contenuto vincolante del decreto” [8], con esclusione di ogni “potere sindacatorio” del Ministro[9].

“Sentito il parere” è espressione che attiene all’attività consultiva[10]. Cioè, ad una funzione che si esercita su una proposta in ordine alla quale si richiede una valutazione di legittimità o di opportunità. Quindi, stricto iure, il Consiglio di presidenza della Giustizia amministrativa dovrebbe esprimersi su una proposta governativa di nomina tra un magistrato avente i requisiti previsti dall’art. 22 della legge n. 186/1982 e non già formulare esso stesso una indicazione al Governo.

Invece, comprendendo che siffatta procedura potrebbe essere censurata sotto il profilo delle garanzie di indipendenza che la Costituzione prevede per le magistrature di cui si è appena detto, la Presidenza del Consiglio ha adottato costantemente una prassi secondo la quale da Palazzo Chigi parte una lettera che richiede l’indicazione di un nome. Palazzo Spada risponde indicandone uno, che è stato sempre il primo del ruolo, come si è detto. Quindi deliberazione del Consiglio dei ministri su proposta del Presidente del Consiglio.

Così è accaduto finora. E adesso, se non sarà richiesto un nome secco ma una “rosa”, come si usa dire, di ben cinque nomi si pongono non pochi problemi di costituzionalità. Ciò nel rispetto dell’indipendenza della magistratura amministrativa, costituzionalmente garantita (artt. 100, comma 3, e 108, comma 2, con riferimento alle funzioni consultive[11] e giurisdizionali), indipendenza che si riferisce sia alla composizione dell’organo che alle modalità di provvista dei suoi componenti[12], con particolare riguardo all’accertamento della idoneità[13], “sia all’esercizio delle funzioni nei profili di inamovibilità, di garenzia nella progressione delle funzioni e nella assegnazione dei magistrati, sia alla sottrazione da ogni ingerenza di fattori estranei che possano influire sulla imparzialità (garenzia del consenso per gli incarichi che sottraggono il magistrato alle funzioni di istituto; garenzie nel conferimento di incarichi e relative autorizzazioni). L’indipendenza riguarda sia lo status del singolo componente, sia l’istituto nel suo complesso, come qualcosa di più della somma delle garenzie accordate ai singoli (ordinamento dello stato economico e giuridico, funzioni direttive, distribuzione della materia degli affari, disponibilità di mezzi per l’esercizio delle funzioni, autonomia di spesa)”[14].

È sufficiente, al riguardo, considerare che il Consiglio di Stato è il giudice degli atti della Presidenza del consiglio e dei ministeri e che quando svolge funzioni consultive opera a “tutela della giustizia nell’amministrazione” (art. 100, comma 1, Cost.) per giungere alla conclusione che Palazzo Chigi non può scegliere ad libitum il vertice della Magistratura Amministrativa. Montesquieu si rivolterebbe nella tomba all’ipotesi di una siffatta lesione di uno dei principi cardine dello Stato costituzionale di diritto, che attuerebbe la prevaricazione dell’Esecutivo sul Giudiziario.

È evidente, infatti, che nel sistema delle garanzie di indipendenza alle quali si è fatto cenno, la richiesta da parte del Governo della indicazione di una “rosa” di candidati tra i quali scegliere il nuovo Presidente introduce una discrezionalità non consentita. Poi, perché cinque e non tre o sette? Scrivo senza aver consultato il ruolo del Consiglio di Stato per cui non manifesto il dubbio che proprio tra i cinque, comunque tutti di elevata professionalità assicurata dalla rigida selezione di accesso e dallo svolgimento delle relative funzioni, ci sia il “prediletto” che evidentemente il premier assume potrebbe assicurargli “buone relazioni” con l’organo, nella logica di quella spregiudicata occupazione del potere efficacemente sperimentata in enti e agenzie governative. Una iniziativa che, a quanto si legge su alcuni giornali che hanno commentato l’iniziativa, già avrebbe scatenato una guerra ai vertici e si ricorda di ognuno esperienze extraistituzionali quale capo di gabinetto o consulente di questo o di quel personaggio politico, di questa o di quella corrente di partito (naturalmente di quello che è poi diventato il Partito Democratico, nelle sue componenti di sinistra, comunista, socialista, cattolica). Incarichi dei quali si torna spesso a segnalare la inopportunità perché potrebbe offrire del magistrato un’immagine capace di pregiudicare l’imparzialità nell’esercizio del sindacato giurisdizionale[15].

Un tentativo comunque destinato ad infrangersi contro una realtà incontrovertibile. L’obiettivo del premier muove da un calcolo in ogni caso miope (e questo la dice lunga sui suoi consulenti giuridici!). Le magistrature si esprimono in forma collegiale, laddove il Presidente è soltanto unprimus inter pares. Sempre che gli altri componenti del collegio abbiano la spina dorsale dritta. E a Palazzo Spada hanno dimostrato di averla. Come attesta una serie di pronunce con le quali, ancora di recente, quei giudici, dando dimostrazione di essere gelosi custodi della legge e della propria indipendenza, hanno assai dispiaciuto il Governo, arrivato a vette di improntitudine straordinarie, addirittura ritenendo irrilevanti, prima che fossero resi, alcuni pareri che si temeva sarebbero stati negativi, di cui i giornali hanno dato notizia. Tanto per dire in tema di procedure di appalto per l’assegnazione dei giochi. Ma anche alcune pronunce in sede giurisdizionale hanno preoccupato non poco Palazzo Chigi, ad esempio in materia di paesaggio che ex art. 9 della Costituzione è stato confermato essere un bene da tutelare (è la parola della Carta fondamentale) in assoluto, senza che possa essere messo a confronto con altri interessi anche pubblici[16].

È evidente da tempo che il Presidente del Consiglio nutre fastidio per le regole della democrazia, come dimostra il fatto che ha inteso mortificare ripetutamente il Parlamento costretto a votare, sulla base di mozioni di fiducia su maxiemendamenti, le leggi che lo interessano, comprese quelle di conversione di alcuni decreti legge che hanno manomesso importanti principi giuridici, come quelli che riconoscono i diritti acquisiti dei pensionati, nonostante la pronuncia della Corte costituzionale la quale ha ricordato, per bocca del suo Presidente, Alessandro Criscuolo, una regola elementare: la Consulta giudica della costituzionalità delle leggi rimanendo la questione dell’eventuale insufficienza della copertura finanziaria delle spese un problema che va risolto in altra sede, in Parlamento. Consulta invisa al premier che, infatti, non riesce a far eleggere i giudici costituzionali mancanti da tempo perché, a differenza di quanto è avvenuto fin qui sulla base della indicazione delle varie forze politiche, perché vorrebbe dalla sua parte tutti i giudici da eleggere, nel timore che siano giudicate incostituzionali alcune delle riforme alle quali il Ministro Boschi ha imprudentemente affidato la sua notorietà nella storia del diritto italiano. E non a caso si sente fare i nomi di personaggi che, a leggere i giornali, potrebbero, se eletti alla Consulta, garantire un passaggio indenne da rischi all’italicum e ad altre leggi sospette di aver violato principi costituzionali. Che poi è sempre il classico calcolo fatto “senza l’oste”, perché in un collegio di professionisti ricchi di dottrina ed esperienza non è possibile seguire più di tanto le aspettative dei vari sponsor. Crozza imitando il Governatore della Campania, De Luca, li chiamerebbe “personaggetti”, quanti avrebbero conquistato il cuore del Presidente del Consiglio con una serie di favori dei quali anche si vanno gloriando nelle anticamere del potere, pensando di portare all’incasso i servigi resi.

La richiesta di una rosa tra cui scegliere il prossimo Presidente del Consiglio di Stato, è, dunque, un segnale che deve preoccupare tutti coloro che credono nell’indipendenza della magistratura (nei prossimi mesi sarà la Corte dei conti a rinnovare il suo Presidente) e nel rispetto delle regole costituzionali sulla separazione dei poteri e sul principio di imparzialità, cioè di legalità, che permea l’assetto della Repubblica.

* Articolo destinato alla Rivista Logos, www.logos-rivista.it.

[1] Presidente di sezione del Consiglio di Stato.

[2] Già funzionario parlamentare, poi Consigliere e quindi Presidente di sezione del Consiglio di Stato, Giuseppe Carbone all’atto della nomina al vertice della Corte dei conti era Consigliere giuridico del Presidente della Repubblica.

[3] L’art. 22 della legge 27 aprile 1982, n. 186, prevede, infatti, che “Il presidente del Consiglio di Stato è nominato tra i magistrati che abbiano effettivamente esercitato per almeno cinque anni funzioni direttive, con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri previa deliberazione del Consiglio dei ministri, sentito il parere del consiglio di presidenza”

[4] Legge 21 luglio 2000, n. 202: “Disposizioni in materia di nomina del Presidente della Corte dei conti” che all’art. 1 dispone: “Il Presidente della Corte dei conto è nominato tra oi magistrati della stessa Corte che hanno effettivamente esercitato per almeno tre anni funzioni direttive ovvero funzioni equivalenti presso organi costituzionali nazionali ovvero di istituzioni dell’Unione europea, con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, sentito il parere del Consiglio di presidenza”.

[5] Legge 27 aprile 1982, n. 186, art. 22.

[6] Art. 1, comma 2, del R. D. 26 giugno 1925, n. 1054 e successive modificazioni e integrazioni

[7] R. Romboli – S. Panizza, Ordinamento giudiziario, in Digesto delle discipline pubblicistiche, vol. X, UTET, Torino, 1995, 384.

[8] G. Volpe, Ordinamento giudiziario gen., in Enciclopedia del diritto, Giuffrè, Milano, 1980, vol. XXX, 867.

[9] Ivi.

[10] E. Casetta, Manuale di Diritto amministrativo, Giuffré, Milano, 2012, 495.

[11] Infatti anche l’attività consultiva “è esercitata da un organo collocato istituzionalmente in posizione indipendente rispetto all’apparato amministrativo”, con caratteri peculiari, in quanto esterna all’apparato in una posizione neutrale ed imparziale rispetto ai concreti interessi affidati alla cura dell’amministrazione (V. Caianiello, Consiglio di Stato, in nss. D.I., Appendice, II, Torino 1981, 449).

[12] D. Monego, Nota all’art. 100 Cost., in Commentario breve alla Costituzione, a cura di Bartole e Bin, CEDAM, Padova, 2008, 913.

[13] Corte cost. 19 dicembre 1973, n. 177. In tema: R. Chieppa, A proposito di indipendenza della Corte dei conti e del Consiglio di Stato, in Giur. Cost., 1967, 1.

[14] R. Chieppa, Consiglio di Stato, in Enciclopedia Giuridica Treccani, vol. VIII, 2.

[15] Proto Pisani, Romboli, Scarselli, in Foro Italiano, 1001, III, 556, con replica di Calabrò.

[16] La sentenza n. 3652 della Sesta Sezione del Consiglio di Stato depositata il 23 luglio 2015, con una interpretazione “costituzionalmente orientata” della normativa vigente in materia di tutela paesaggistica, ribadisce il principio che “alla funzione di tutela del paesaggio … è estranea ogni forma di attenuazione della tutela paesaggistica determinata dal bilanciamento o dalla comparazione con altri interessi, ancorché pubblici, che di volta in volta possono venire in 

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