09/10/2018 – Proroga e rinnovo dei contratti pubblici: la necessità di un persistente chiarimento anche alla luce della normativa anticorruzione

Proroga e rinnovo dei contratti pubblici: la necessità di un persistente chiarimento anche alla luce della normativa anticorruzione

di Massimiliano Alesio – Avvocato

La società M.A. e Figli Srl ha attualmente in gestione, presso il Comune di Ladispoli, il servizio di raccolta e trasporto dei rifiuti urbani ed assimilati e servizi complementari. Il capitolato d’oneri del servizio contempla una clausola di proroga espressa, in favore dell’attuale gestore. Il Comune, tuttavia, in prossimità della scadenza del contratto, non ritiene di avvalersi dell’indicata clausola ed affida ad un’altra impresa un servizio in parte diverso. Si tratta, precisamente, della “Progettazione del Servizio di Igiene Urbana Integrata con implementazione della tariffa puntuale e supporto per la redazione degli atti di gara”, affidato direttamente, ai sensi dell’art. 36, comma 2, lett. a), del Codice dei contratti pubblici (D.Lgs n. 50 del 2016), in quanto l’importo netto è inferiore ad € 40.000,00. L’attuale gestore del servizio di raccolta e trasporto dei rifiuti urbani ed assimilati propone ricorso al Tar Lazio, non tanto contestando l’affidamento posto in essere per il futuro (il periodo successivo alla scadenza del contratto in essere), quanto la mancata “attivazione” della clausola di proroga, prevista in suo favore.

Già dai primi accenni di interpretazione della pronuncia in esame, è emersa la necessità di tener conto di una fondamentale distinzione, che appare ben chiara nella teoria generale, ma che soffre di applicazioni confuse nel concreto agire delle stazioni appaltanti ed anche, inspiegabilmente, in sede giurisprudenziale: la necessaria differenziazione fra “rinnovo” e “proroga”. Secondo i principi generali del diritto civile, per “rinnovo” del contratto si intende la formalizzazione di un nuovo rapporto tra le parti, in sostituzione di quello precedentemente in essere, e da questo diverso, in parte, anche nel contenuto. In altri termini, con il rinnovo, si dà luogo ad una rinnovazione del contratto, cioè ad un nuovo contratto, il quale presenta diversi elementi di differenziazione e di autonomia rispetto al contratto pregresso (diverse clausole e diverso contenuto). Viceversa, la proroga del contratto comporta soltanto una prosecuzione temporale del medesimo, lasciando inalterato il restante contenuto del contratto. La giurisprudenza, da tempo, è ben chiara sul punto ed anche, recentemente, ha affermato che: “……, mentre la proroga del termine finale di un appalto pubblico di servizi sposta solo in avanti la scadenza conclusiva del rapporto, il quale resta regolato dalla sua fonte originaria, il rinnovo del contratto comporta una nuova negoziazione tra i medesimi soggetti” (Cons. di Stato, Sez. III, n. 1337 del 2018). Dunque, una clausola, che prevede espressamente la prosecuzione di un rapporto contrattuale alla scadenza del medesimo sulla base di una valutazione discrezionale dell’Amministrazione, non può che essere qualificata come “rinnovo convenzionale” e non come “proroga convenzionale”. Ciò, anche in ragione del fatto che il nuovo Codice dei contratti pubblici prevede espressamente, all’art. 106, comma 11, una opzione di proroga, ma strumentalmente e finalisticamente collegata “al tempo strettamente necessario alla conclusione delle procedure necessarie per l’individuazione di un nuovo contraente”. In altri termini, l’unica proroga ammessa è una “proroga tecnica”, nelle more dell’avvio e della conclusione della procedura di gara per la scelta del miglior contraente.

Pertanto, nella concreta fattispecie, si è in presenza di un “rinnovo convenzionale”, previsto in sede di capitolato d’oneri. Giova ricordare che l’istituto in questione trova la sua origine storica e normativa nell’art. 44L. n. 724 del 1994, il quale modificò l’originario art. 6, comma 1, L. n. 537 del 1993, prevedendo quanto segue: “Entro tre mesi dalla scadenza dei contratti, le amministrazioni accertano la sussistenza di ragioni di convenienza e di pubblico interesse per la rinnovazione dei contratti medesimi e, ove verificata detta sussistenza, comunicano al contraente la volontà di procedere alla rinnovazione”. Quindi, il “rinnovo convenzionale” consiste in una clausola, inserita solitamente nei contratti e nei capitolati, in base alla quale l’Amministrazione ha la discrezionalità di rinnovare il contratto, per un dato e predefinito lasso di tempo, sulla base di ragioni di convenienza e di pubblico interesse.

Con l’avvento della prima codificazione in materia di contratti pubblici (il D.Lgs n. 163 del 2006), la questione della concreta praticabilità del rinnovo convenzionale (o espresso) non venne affrontata e, quindi, non venne risolta. Infatti, il Codice del 2006 non conteneva alcuna espressa disposizione legittimante il rinnovo, ma solo taluni indiretti riferimenti. Precisamente, l’art. 29, comma 1, stabiliva che, per il calcolo del valore stimato degli appalti e delle concessioni, si deve tener conto anche di “qualsiasi forma di opzione o rinnovo del contratto”. Durante la vigenza del vecchio Codice, si contrapposero, in buona sostanza, due contrapposti orientamenti. Secondo un primo indirizzo, pur nel silenzio del Codice, i principi comunitari consolidati in materia contrattuale non impediscono il rinnovo espresso, “allorché la facoltà di rinnovo, alle medesime condizioni e per un tempo predeterminato e limitato, sia ab origine prevista negli atti di gara e venga esercitata in modo espresso e con adeguata motivazione” (Cons. di Stat, Sez. III, n. 942 del 2014). Ad avviso di diverso orientamento, si sosteneva, invece, che: “in materia di rinnovo o proroga dei contratti pubblici di appalto di servizi, non vi è alcuno spazio per l’autonomia contrattuale delle parti in quanto vige il principio inderogabile, fissato dal legislatore per ragioni di interesse pubblico, in forza del quale, salve espresse previsioni dettate dalla legge in conformità della normativa comunitaria, l’Amministrazione, una volta scaduto il contratto, deve, qualora abbia ancora la necessità di avvalersi dello stesso tipo di prestazioni, effettuare una nuova gara pubblica” (Cons. di Stato, Sez. V, n. 4192 del 2013).

Con l’avvento del nuovo Codice (D.Lgs n. 50 del 2016), l’illustrata situazione di incertezza sembrò, per un breve intervallo temporale, dissolversi, in quanto la bozza del Codice medesimo, all’art. 106, comma 12, inizialmente conteneva la riproposizione di una forma di rinnovo espresso. Precisamente, la bozza iniziale prescriveva quanto segue: “Il contratto di appalto può essere, nei casi in cui sia stato previsto nei documenti di gara, rinnovato per una sola volta, per una durata e un importo non superiori a quelli del contratto originario. A tal fine le parti stipulano un nuovo contratto, accessorio al contratto originario, di conferma o di modifica delle parti non più attuali, nonché per la disciplina del prezzo e della durata”. Una disposizione normativa chiara, diretta a disciplinare in modo esplicito il nostro istituto, seppur attraverso delle limitazioni. Infatti: – la clausola di rinnovo deve essere preventivamente prevista nei documenti di gara; – può consentire un sol rinnovo e per una durata ed un importo non superiori a quelli previsti in sede di contratto originario. Tuttavia, anche in conseguenza del parere del Consiglio di Stato (1 aprile 2016, n. 855), la disciplina sul rinnovo espresso venne espunta. Attenta dottrina ha meritoriamente osservato che: anche per merito del parere del Consiglio di Stato immediatamente accortosi della cosa, nel testo finale del D.Lgs n. 50 del 2016, non v’è alcuna “nostalgica” disciplina del rinnovo espresso. Ma, ribadiamo, in Italia è difficile che la prassi e la “nostalgia” per le scorciatoie procedurali cedano il passo” (Oliveri L., “Appalti: il rinnovo di diritto interno non è ammesso”; 16 maggio 2016). Dunque, continua la situazione di carenza normativa, che fa insorgere dubbi in merito alla piena legittimità della clausola di rinnovo convenzionale.

Il Tar Lazio, esaminando il ricorso, principia la sua analisi, confermando l’illustrata differenziazione fra proroga e rinnovo. I giudici amministrativi, pur prendendo atto della nuova e limitativa disciplina della proroga, propendono per la legittimità di una clausola, inserita sin dall’origine negli atti di gara e prevedente la prosecuzione del contratto a determinate condizioni. In tal caso, siffatta clausola conferisce all’Amministrazione il “diritto potestativo” di richiedere la prosecuzione del contratto in un’ottica di confronto dialettico fra “regola” ed “eccezione”. Precisamente, la gara costituisce la regola e non abbisogna di alcuna peculiare motivazione; viceversa, la prosecuzione costituisce l’eccezione e deve essere analiticamente motivata. Sulla base di tale percorso ermeneutico, il Tar respinge il ricorso, evidenziando che la scelta, posta in essere dal Comune, di effettuare una gara in luogo del rinnovo, non necessitava di puntuale motivazione. In tal modo, il Tar sostanzialmente legittima la clausola di rinnovo espresso contemplata, ma non attivata. Orbene, il Tar Lazio, anche ricollegandosi ad una pregressa pronuncia del medesimo Tribunale, seppur di diversa sezione (T.A.R. Lazio, Roma, Sez. I-ter, n. 9719 del 2017), ritiene che il rinnovo convenzionale sia legittimo, pur se deve scontare un aggravio motivazionale in caso di attivazione.

Invero, l’analisi dell’istituto in questione non può non tener conto della normativa e degli “istituti anticorruzione”, che dal 2012, cioè dalla L. n. 190 del 2012, si sono sviluppanti, consolidandosi, poi, con la creazione dell’ANAC (Autorità Nazionale Anticorruzione). In tale versante di riflessione e di interpretazione dell’attuale assetto normativo in materia, appare necessario evidenziare che l’istituto del rinnovo convenzionale presenta, innegabilmente, elementi di “pericolosità” proprio alla luce della normativa medesima. Per chiarire la questione, è opportuno prendere le mosse da un’ipotetica situazione, che può ben avverarsi nella concreta realtà. Ecco, un esempio: a) Una stazione appaltante indice una gara per appalto di servizi, adottando ed inserendo nei disciplinari di gara una clausola di rinnovo convenzionale, dal seguente tenore: “Il contratto ha durata per il periodo dal 1° gennaio 2019 al 31 dicembre 2022. Il contratto potrà essere rinnovato per un periodo di eguale durata, previo accertamento da parte dell’Amministrazione delle ragioni di convenienza e pubblico interesse”. b) La gara viene vinta dall’operatore economico Mevio, che stipula il contratto. c) In prossimità della scadenza del contratto (31 dicembre 2022), Mevio presenta un’istanza di rinnovo, sulla base dell’indicata clausola, evidenziando anche di aver correttamente eseguito le prestazioni contrattuali e di non aver subito richiami, sanzioni od applicazione di penali. d) Cosa farà la stazione appaltante? e) La decisione di accogliere o meno l’istanza di rinnovo dovrà essere, ovviamente motivata. Ed, eccoci al punctum dolens! f) La motivazione non potrà che fondarsi sulle ragioni di “convenienza e di pubblico interesse”, indicate già in sede di clausola. Ma, come motivare effettivamente? Per dimostrare una reale convenienza, si dovrebbe, almeno, tentare di acquisire informazioni sui prezzi praticati nel settore. Tuttavia, siffatti prezzi non saranno mai realmente probanti, dal momento che una cosa è indicare genericamente dei valori sulla base di una informale richiesta; altra cosa è partecipare ad una gara, analizzare bene il capitolato e formulare un’idonea e seria offerta economica. g) Tutto ciò, sul versante puramente motivazionale e speranzosamente comprovativo di un reale pubblico interesse al rinnovo. Ma, ecco che potrebbe accadere qualcos’altro! h) Precisamente, a fronte della chiara aleatorietà e genericità nel motivare l’accettazione e della difficoltà di giustificare il diniego, l’operatore aggiudicatario ed in scadenza di contratto, baldanzosamente, al fine di superare dubbi ed incertezze, sussistenti nell’intimo agire del funzionario competente, potrebbe effettuare allusioni a vantaggi od altre utilità, in favore del funzionario medesimo. Ovviamente, tutto dipende dall’entità del contratto e, precisamente, dal valore di ogni annualità di rinnovo. In presenza di somme esigue, lo scenario delineato ha poche possibilità di materializzarsi. Ma, in presenza di somme più che ragguardevoli (ad esempio: valore di un’annualità di rinnovo, pari ad € 700.000,00, per un quadriennio complessivo di rinnovo pari ad € 2.800.000,00) è davvero fantascienza pensare a strane sollecitazioni, pressioni, allusioni, ammiccamenti, etc.? Non avviene mai ciò nella realtà? Non potrà mai avvenire? L’ipotizzare che ciò non potrà mai avvenire non solo costituisce una pura petizione di principio nell’odierno scenario di prassi della contrattualistica pubblica, ma non tiene conto della normativa anticorruzione. Pertanto, l’istituto del rinnovo convenzionale, in dati frangenti e per importi considerevoli, presenta evidenti profili di “pericolosa esposizione corruttiva”.

T.AR. Lazio, Roma, Sez. II-bis, 10 settembre 2018, n. 9212

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