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Le disfunzioni dell’ufficio possono giustificare lo spostamento del dipendente pubblico per incompatibilità ambientale
di Vincenzo Giannotti – Dirigente Settore Gestione Risorse (umane e finanziarie) Comune di Frosinone
A seguito di una molteplicità di gravi carenze delle pratiche svolte da un dipendente pubblico del Ministero degli Affari Esteri, con decreto il medesimo dipendente veniva trasferito perdendo le indennità previste per la posizione precedentemente occupata. Sempre per i medesimi motivi il Ministero attivava una procedura disciplinare. Contro il provvedimento di trasferimento in altra sede, per perdita delle indennità previste, il dipendente ha presentato ricorso al Tribunale civile che ne accoglieva le motivazioni, precisando che si trattasse di procedura disciplinare non ravvisando ragioni organizzative diverse da quelle che avevano determinato l’avvio del procedimento disciplinare, come reso evidente dalla vicinanza cronologica di quest’ultimo. A seguito del ricorso del Ministero avverso la sentenza del Tribunale di primo grado, la Corte di Appello, in riforma della sentenza del tribunale, ha accolto l’appello del Ministero. A giustificazione della sentenza riformata, il Collegio di appello ha evidenziato, richiamando la giurisprudenza di legittimità, come il trasferimento del dipendente per incompatibilità ambientale fosse svincolato da colpe o responsabilità del dipendente, non fosse soggetto alle garanzie procedimentali e sostanziali e, infine, che vi fosse adeguata motivazione, da parte della pubblica amministrazione, nella scelta del trasferimento operato, a nulla rilevando il successivo procedimento disciplinare che si fosse basato sulle medesime motivazioni. In altri termini, vi sarebbe stata confusione, da parte del giudice di prime cure, sulla indipendenza tra la decisione di ristabilire una adeguata funzionalità nell’ambiente dell’ufficio e le motivazioni contenute nel procedimento disciplinare, anche se identiche. Pertanto, secondo la Corte territoriale vi erano precisi elementi, giudicati idonei, che la permanenza nell’ufficio del dipendente avrebbe potuto avere ripercussioni pregiudizievoli al buon andamento ed al prestigio della struttura.
Il dipendente ha giudicato erronea la valutazione della Corte di appello e, quindi, ha impugnato la sentenza davanti alla Corte di Cassazione. Infatti, a dire del dipendente, avrebbe sbagliato la Corte di appello nell’affermare che nel provvedimento di trasferimento non vi era alcuna ragione di natura organizzativa esplicitata, se non quelle relative al procedimento disciplinare cui ancora l’istruttoria non era stata svolta. In altri termini, secondo il ricorrente il Tribunale aveva annullato il trasferimento non perché era sanzionatorio, ma perché non sussistevano le ragioni organizzative che lo potevano giustificare. Inoltre, sempre a dire del ricorrente, l’amministrazione non aveva fornito prova in concreto della lamentata incompatibilità, e cioè che la condotta del dipendente avesse prodotto effettive conseguenze di disorganizzazione, disfunzione o conflitto organizzativo interno all’unità produttiva, anche in ragione dei principi di cui all’art. 97 Cost.
Le indicazioni del giudice di legittimità
Secondo la Cassazione, sia al lavoro privato che al pubblico impiego privatizzato il giudice di legittimità ha avuto modo di affermare che, il trasferimento per incompatibilità aziendale/ambientale, trovando la sua ragione nello stato di disorganizzazione e disfunzione dell’unità produttiva/dell’Amministrazione, vada ricondotto alle esigenze tecniche, organizzative e produttive, di cui all’art. 2103 c.c., piuttosto che, sia pure atipicamente, a ragioni punitive e disciplinari, con la conseguenza che la legittimità del provvedimento datoriale di trasferimento prescinde dalla colpa (in senso lato) dei lavoratori trasferiti, come dall’osservanza di qualsiasi altra garanzia sostanziale o procedimentale che sia stabilita per le sanzioni disciplinari. In altri termini, il trasferimento è subordinato ad una valutazione discrezionale dei fatti che fanno ritenere nociva, per il prestigio ed il buon andamento dell’ufficio, l’ulteriore permanenza dell’impiegato in una determinata sede (vedi Cass. civ., n. 2143 del 2017). Pertanto, la sussistenza di una situazione di incompatibilità tra il lavoratore ed i suoi colleghi o collaboratori diretti, che importi tensioni personali o anche contrasti nell’ambiente di lavoro comportanti disorganizzazione e disfunzione, concretizza un’oggettiva esigenza di modifica del luogo di lavoro e va valutata in base al disposto dell’art. 2103 c.c., con conseguenza possibilità di trasferimento del lavoratore, sulla base di comprovate ragioni tecniche organizzative e produttive. Secondo, quindi, i giudici di Piazza Cavour la situazione di incompatibilità riguarda situazioni oggettive o situazioni soggettive valutate secondo un criterio oggettivo, indipendentemente dalla colpevolezza o dalla violazione di doveri d’ufficio del lavoratore, causa di disfunzione e disorganizzazione, non compatibile con il normale svolgimento dell’attività lavorativa. Nel caso di specie, infatti, il trasferimento del dipendente è avvenuto a fronte delle gravi carenze nella gestione delle pratiche trattate a seguito delle quali il Ministero ha ritenuto sussistenti le ragioni organizzative, produttive e di servizio, tali da rendere necessario il suo trasferimento. Di conseguenza, il Ministero, nel caso di specie, ha ritenuto che il trasferimento del dipendente per incompatibilità ambientale fosse la conseguenza per ovviare ad una situazione in cui, l’ulteriore permanenza dell’impiegato in una determinata sede, avrebbe pregiudicato il buon andamento dell’ufficio, nozione a cui vanno riferite nel pubblico impiego privatizzato, in ragione dell’art. 97 Cost., le ragioni tecniche organizzative e produttive. Sul punto la Corte territoriale ha ampiamente motivato circa le ragioni previste dall’art. 2103 c.c., ossia come fondamento legittimo del trasferimento per incompatibilità ambientale, atteso che erano emerse circostanze idonee a generare quel clima di sfiducia fra il ricorrente e l’ufficio pregiudizievole per il buon andamento e il prestigio della struttura.
Il provvedimento disposto dal Ministero, perciò, ne ha escluso l’arbitrarietà essendo stato adottato in base a circostanze specifiche e comprovate idonee ad incidere negativamente sulla funzionalità e sull’efficienza dell’ufficio, nonché sull’immagine della pubblica amministrazione.
Sulla base delle su esposte motivazioni il ricorso del dipendente deve essere rigettato.
Sulle spese legali addebitate
Tra le motivazioni del ricorso del dipendente alla sentenza della Corte di appello, infine, vi era anche l’erroneo addebito delle spese di lite, nonostante il Ministero si fosse difeso con propri funzionari non avvocati. La Cassazione ha considerato fondata l’eccezione, in quanto il deposito del ricorso era avvenuto prima della L. 12 novembre 2011, n. 183 che aveva aggiunto l’art. 152-bis disp. att. c.p.c. che disciplina la liquidazione delle spese di cui all’articolo 91 del codice di procedura civile a favore delle pubbliche amministrazioni assistite da propri dipendenti. Questo articolo inserito solo nel 2012 ha stabilito che si applica alle controversie insorte successivamente alla data di entrata in vigore della presente legge, e dunque, introdotte successivamente all’ 1° gennaio 2012. In questo caso, ossia in mancanza di una disposizione specifica di legge, in ordine all’impossibilità di riconoscere competenze professionali di avvocato a dipendenti privi di tale qualità, potendo attribuirsi il solo rimborso delle spese vive, da indicarsi in apposita nota, il ricorso va accolto dichiarando, in riforma in parte qua della sentenza non dovute le spese del primo grado di giudizio.

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