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La chiusura obbligatoria del bar in odore di mafia

di Marilisa Bombi – Giornalista, consulente autonomie locali

La sentenza del Consiglio di Stato, e la relativa vicenda processuale, evidenzia la complessità del quadro di riferimento normativo che vede sovrapporsi la disciplina in materia commerciale, in senso stretto, (L. n. 287 del 1991 e D.Lgs. n. 59 del 2010), la normativa in materia di semplificazione amministrativa (art. 19L. n. 241 del 1990) il Testo unico di pubblica sicurezza (R.D. n. 773 del 1931), la normativa in materia di decentramento amministrativo (D.P.R. n. 616 del 1977) e la normativa antimafia (D.Lgs. n. 159 del 2011). Sta di fatto che in un comune calabrese la titolare di un bar si è vista revocare la licenza da parte del comune, a seguito della informazione di interdittiva antimafia e della conseguente richiesta, da parte della Prefettura, di revocare la licenza ai sensi dell’articolo 19, comma 4, D.P.R. n. 616 del 1977. E ciò, in forza del fatto che le frequentazioni del di lei marito (presente costantemente nel locale) non erano al di sopra di ogni sospetto.

La normativa antimafia, che è stata più volte modificata dal legislatore, così come interpretata dalla giurisprudenza (da ultimo Consiglio di Stato 2343 del 19 aprile 2018) prevede che l’interdittiva antimafia, per la sua natura cautelare e per la sua funzione di massima anticipazione della soglia di prevenzione, non richiede la necessaria prova di un fatto, ma solo la presenza di una serie di indizi in base ai quali sia plausibile ritenere la sussistenza di un collegamento con organizzazioni mafiose o di un possibile condizionamento da parte di queste. Pertanto, ai fini della sua adozione, da un lato, occorre non già provare l’intervenuta infiltrazione mafiosa, bensì soltanto la sussistenza di elementi sintomatico-presuntivi dai quali – secondo un giudizio prognostico latamente discrezionale – sia deducibile il pericolo di ingerenza da parte della criminalità organizzata; d’altro lato, detti elementi vanno considerati in modo unitario, e non atomistico, cosicché ciascuno di essi acquisti valenza nella sua connessione con gli altri.

Si coglie l’occasione del presente commento, peraltro, per chiarire che è stata superata la differenziazione tra informativa e comunicazione antimafia così come delineata dal codice antimafia (D.Lgs. n. 159 del 2011) grazie al parere del Consiglio di Stato sez. I, 17 novembre 2015 n. 3088, nel senso che è ammessa l’adozione dell’informazione antimafia anche nei casi in cui è prevista la sola comunicazione antimafia e, quindi, la sola assenza di cause di decadenza, di sospensione e di divieto. Con la conseguenza che deve ritenersi legittima l’emissione di informazione antimafia, laddove emerga la possibilità di eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o imprese, anche in relazione a una fattispecie nella quale non vengano in considerazione rapporti contrattuali o concessori, ma piuttosto autorizzazioni ovvero attività che, pur non essendo soggette a vero e proprio regime autorizzatorio, siano pur sempre sottoposte ad attività di vigilanza da parte della pubblica amministrazione, secondo i meccanismi propri della segnalazione certificata di inizio di attività. Com’è il caso delle attività soggette a Scia.

Nel caso specifico, sottoposto all’attenzione della Sezione, la richiesta da parte della Prefettura al Comune di revocare, ai sensi dell’art. 19, comma 4, D.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, la segnalazione certificata di inizio attività. La determinazione prefettizia è stata assunta sul presupposto che la gestione del bar fosse di fatto riferibile non solo alla formale intestataria dell’atto di “autoamministrazione”, ma anche al marito convivente, il quale risulta essere stato destinatario, nel passato, di una precedente analoga revoca adottata ai sensi degli artt. 100T.U.L.P.S. e 19D.P.R. n. 616 del 1977 in relazione al medesimo esercizio aperto al pubblico. In sostanza, a giudizio della Prefettura, l’intestazione formale della S.C.I.A. in capo alla coniuge del precedente titolare avrebbe finalità elusiva dei precedenti provvedimenti restrittivi.

L’intervento del Comune è conseguente alla sentenza n. 77 del 27 marzo 1987 della Corte costituzionale, la quale ha chiarito la ripartizione tra la decisione sostanziale, riferibile all’autorità statale, esclusivamente deputata alla tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica, che esprime sul punto una “richiesta vincolante” e la decisione formale – ovvero l’avvio, lo svolgimento del procedimento e l’adozione del provvedimento conclusivo di revoca dell’autorizzazione commerciale – imputabile invece al Comune titolare del potere autorizzatorio, secondo il principio del contrarius actus. L’art. 19, comma 4, del d.P.R. n. 616 del 1977 attribuisce infatti al Comune, su “motivata richiesta” del Prefetto, il potere di revocare le autorizzazioni commerciali la cui competenza è stata delegata all’ente locale dai commi precedenti. In ogni caso dal complesso quadro normativo della materia, come ridisegnato dalla Corte costituzionale, emerge e resta fermo, anche oggi, – ha osservato la Sezione – il potere/dovere del Comune, su richiesta vincolante del Prefetto, di revocare la licenza per l’esercizio dell’attività commerciale ogniqualvolta il Prefetto ravvisi gravi motivi di ordine e sicurezza pubblica che ostino a tale esercizio.

Inquadrata la questione, si evidenzia che l’articolo 71, comma 1, lettera f, decreto legislativo 59/2010, prevede che non possono esercitare l’attività di somministrazione coloro nei cui confronti sia stata applicata una delle misure previste dalla L. 31 maggio 1965, n. 575, ovvero a misure di sicurezza. La citata L. n. 575 del 1965 è stata abrogata in quanto trasfusa nel codice antimafia, D.Lgs. n. 159 del 2011 ma la disciplina commerciale non è stata ancora modificata recependo le novità. Mentre è stato, di volta in volta, enfatizzato l’adeguamento alle disposizioni in materia di semplificazione, anche laddove una certa cautela sarebbe stata necessaria nelle ipotesi in cui l’esercizio di attività di impresa è condizionato dal rispetto dei requisiti previsti dal T.U.L.P.S.; com’è il caso degli esercizi pubblici i cui titolari devono rispettare i requisiti morali prescritti dall’art. 11 e 92. Requisiti che presuppongono un margine di discrezionalità in capo alla PA competente, come risulta evidente dall lettura del secondo comma dell’art. 11. L’apertura di un PE presuppone grossi investimenti, sia nell’ipotesi di una nuova apertura, sia nelle ipotesi di subingresso essendo in tal caso corrisposto al dante causa il prezzo dell’avviamento. Costi ed oneri che, nel caso della inesistenza dei requisiti morali, sono vanificati dall’ordinanza di chiusura. Ed un investimento infruttuoso è sempre un costo nella economia complessiva. Assoggettare, pertanto, a SCIA invece di mantenere il previgente sistema autorizzatorio è stata – a giudizio di chi scrive – una scelta che non tiene conto della sovrapposizione dei due sistemi autorizzatori (art. 64D.Lgs. n. 59 del 2010 e art. 86TULPS). Situazione che non può certo essere liquidata con l’affermazione che la SCIA ha efficacia di autorizzazione!

Con riferimento all’ordine di chiusura della attività, sono stati di volta in volta, chiamati in causa l’art. 100TULPS, l’art. 19, comma 4, D.P.R. n. 616 del 1977; sospensione che attribuisce la competenza rispettivamente al Questore e al Comune. E ciò, nonostante il codice antimafia preveda la base giuridica che presuppone il diniego e la decadenza dei titoli autorizzatori. Sotto questo punto di vista, si rileva – ancora una volta – la mancata sistematizzazione delle disposizioni che regolamentano la perdita dei requisiti. Se, infatti, l’art. 71 del già indicato D.Lgs. n. 59 del 2010 fa venir meno – nelle ipotesi espressamente individuate ed ora tutti riconducibili al codice antimafia – i requisiti legittimanti, il codice in questione prevede, all’art. 67 che per le licenze ed autorizzazioni di polizia, ad eccezione di quelle relative alle armi, munizioni ed esplosivi, le decadenze e i divieti previsti possono essere esclusi dal giudice nel caso in cui per effetto degli stessi verrebbero a mancare i mezzi di sostentamento all’interessato e alla famiglia.

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