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Il dirigente pubblico risponde per falsa timbratura delle presenze

di Federico Gavioli – Dottore commercialista, revisore legale e giornalista pubblicista
La Corte di Cassazione, sezione penale, con la , ha accolto il ricorso del Sostituto Procuratore della Repubblica avverso la sentenza del Tribunale; per i giudici di legittimità il dirigente pubblico risponde di false attestazioni o certificazioni laddove violi il sistema di rilevazione delle presenze.
Il contenzioso
Con ordinanza emessa in data 4 maggio 2018, il Tribunale, Sezione del riesame, ha respinto l’appello presentato dal Procuratore della Repubblica avverso l’ordinanza del G.i.p. , che aveva rigettato la richiesta di applicazione della misura cautelare degli arresti domiciliari o, in subordine, della sospensione dall’esercizio della funzione, nei confronti di un dirigente pubblico, comandante della Polizia Locale, per i reati di peculato, di falso ideologico in atto pubblico e di truffa aggravata.
Entrando nello specifico, il Pubblico ministero contesta, per la parte che interessa il presente commento, al dirigente pubblico indagato, il reato di truffa aggravata e false attestazioni, a norma dell’art. 55-quinquies del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, perché, nella sua qualità, attestando falsamente la sua presenza in ufficio o giustificando fraudolentemente la propria assenza per motivi di servizio o di malattia, ed inducendo l’Amministrazione in errore, si procurava l’ingiusto profitto di ottenere la remunerazione, stabilita in modo onnicomprensivo, ma con obbligo della presenza in servizio presso la sede comunale, con danno per l’ente pubblico, dal luglio 2015 al marzo 2017.
Il Tribunale ha escluso la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza in ordine ai reati contestati, osservando per la parte che interessa l’oggetto del presente commento, che deve escludersi la configurabilità del reato di truffa aggravata, perché l’indagato, pur soggetto all’obbligo di presenza in ufficio, non era tenuto a rispettare orari predeterminati, e perché, di conseguenza, è impossibile anche individuare il danno erariale.
Ha poi concluso che i reati in concreto configurabili, per i limiti di pena, non consentono l’applicazione di alcun tipo di misura cautelare personale.
Il Procuratore della Repubblica ha presentato ricorso per Cassazione.
La difesa del dirigente pubblico
Nella difesa in Cassazione, il dirigente pubblico, tramite il suo legale, ha dedotto preliminarmente l’inammissibilità del ricorso perché lo stesso è privo della specificità necessaria, non indicando la tipologia di motivi per i quali è proposto, e, comunque, perché contiene non censure in ordine a vizi logici, ma una richiesta di rivalutazione del fatto, senza nemmeno indicare le prove oggetto di travisamento.
Con riferimento alle contestazioni di truffa e false attestazioni in ordine alla presenza in servizio, si premette che la timbratura dei dirigenti è finalizzata al calcolo di ferie, missioni e buoni pasto, ma non certo alla determinazione delle ore di presenza In uffici, essendo la retribuzione parametrata al raggiungimento degli obiettivi, tra l’altro raggiunti, come da attestazione scritta dell’’amministrazione.
La sentenza della Cassazione
Per i giudici di legittimità il ricorso è fondato.
La Corte di Cassazione ritiene che debba escludersi, innanzitutto, la configurabilità del reato di falso ideologico in atto pubblico.
Le Sezioni Unite hanno precisato che non integra il delitto di falso ideologico in atto pubblico la falsa attestazione del pubblico dipendente circa la sua presenza in ufficio riportata nei cartellini marcatempo e nei fogli di presenza, ma anche nell’ambito di dichiarazioni relative a «missioni fuori sede», in quanto si tratta di documenti che hanno natura di mera attestazione del dipendente inerente al rapporto di lavoro, soggetto a disciplina privatistica, e che “in ciò esauriscono in via immediata i loro effetti, non involgendo affatto manifestazioni dichiarative, attestative o di volontà riferibili alla pubblica amministrazione” .
La successiva giurisprudenza ha mantenuto fermo il rispetto di questo principio.
In effetti, anche quando si è affermata la configurabilità del reato di falso ideologico in atto pubblico con riferimento al contenuto mendace di attestazioni concernenti la propria attività di servizio, si è sempre sottolineata la necessità, per poter ritenere integrata la fattispecie, che la falsa attestazione dispieghi un oggettivo rilievo e un interesse eccedente l’area del mero rapporto di impiego tra ente pubblico e dipendente, per il contenuto relativo anche a manifestazione esterna della volontà e dell’azione della P.A..
L’art. 69, comma 1, D.Lgs. 27 ottobre 2009, n. 150, ha inserito nel D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, l’art. 55-quinquies, rubricato «False attestazioni o certificazioni», nel quale è dettata una specifica disciplina, anche penalistica, per la falsa attestazione della propria presenza in servizio da parte del lavoratore dipendente di una pubblica amministrazione. In particolare, l’art. 55-quinquies, comma 1, D.Lgs. n. 165 del 2001, come introdotto dall’art. 69, comma 1, D.Lgs. n. 150 del 2009, recita: «Fermo quanto previsto dal codice penale, il lavoratore dipendente di una pubblica amministrazione che attesta falsamente la propria presenza in servizio, mediante l’alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza o con altra modalità fraudolente, ovvero giustifica l’assenza dal servizio mediante un certificazione medica falsa o falsamente attestante uno stato di malattia è punito con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa da euro 400 ad euro 1.600. La medesima pena si applica al medico e a chiunque altro concorre nella commissione del delitto.”.
La previsione appena riportata sembra chiaramente confermare la soluzione giurisprudenziale della inapplicabilità della disciplina penalistica della falsità in atto pubblico con riferimento alle attestazioni di presenza in servizio: invero, se si postulasse l’operatività delle fattispecie di cui agli artt. 476 e 479 cod. pen., la figura delittuosa di cui all’art. 55-quinquies, comma 1, D.Lgs. n. 165 del 2001, costituirebbe rispetto a quelle un mero doppione.
I giudici di legittimità rilevano che ciò posto, in considerazione della complessiva evoluzione giurisprudenziale e legislativa precedentemente descritta, appare corretto escludere la riconducibilità alla categoria dell’atto pubblico di tutte le attestazioni del dipendente pubblico inerenti al rapporto di lavoro e non involgenti manifestazioni dichiarative, attestative o di volontà riferibili alla pubblica amministrazione. Ed infatti, se non sono riconducibili alla categoria dell’atto pubblico le attestazioni relative alla presenza in servizio, ossia le più significative attestazioni del pubblico dipendente nell’ambito ed ai fini del rapporto di lavoro, e proprio perché inerenti al rapporto di lavoro, in quanto rapporto regolato da disciplina privatistica, non sembra ragionevole qualificare come atti pubblici altre attestazioni comunque inerenti al medesimo rapporto di lavoro.
Afferma la Cassazione per completezza, che deve escludersi anche la configurabilità della fattispecie di falsità in certificazioni amministrative, pure ipotizzata dai giudici del merito cautelare.
Costituisce infatti principio più volte affermato in giurisprudenza quello secondo cui, in materia di falso, per poter qualificare come certificato amministrativo un atto proveniente da un pubblico ufficiale, devono concorrere due condizioni:
a) che l’atto non attesti i risultati di un accertamento compiuto dal pubblico ufficiale redigente, ma riproduca attestazioni già documentate;
b) che l’atto, pur quando riproduca informazioni desunte da altri atti già documentati, non abbia una propria distinta e autonoma efficacia giuridica, ma si limiti a riprodurre anche gli effetti dell’atto preesistente.
Si può rilevare, inoltre, che, significativamente, la Cassazione (cfr. sentenza n. 46273/2011) , quando hanno escluso la configurabilità del reato di falso ideologico in atto pubblico con riferimento alla falsa attestazione del pubblico dipendente circa la sua presenza in ufficio riportata nei cartellini marcatempo e nei fogli di presenza, ovvero nell’ambito di dichiarazioni relative a «missioni fuori sede», hanno pronunciato sentenza di assoluzione perché il fatto non sussiste, senza procedere ad alcuna riqualificazione giuridica del fatto in contestazione.
La sentenza della Cassazione
Per la Corte di Cassazione, in sostanza, può ritenersi che eventuali mendaci annotazioni sui “registri macchina”, se ed in quanto questi, come risulta allo stato accertato nel caso di specie, siano destinati esclusivamente a controlli interni delta Pubblica amministrazione nonché strettamente inerenti al rapporto di lavoro tra il dipendente e l’ente pubblico, non sono “sussumibili né nella fattispecie della falsità ideologica del pubblico ufficiale in atto pubblico, né nella fattispecie della falsità ideologica del pubblico ufficiale in certificati o autorizzazioni amministrative”.
Per i giudici di legittimità con riferimento a questa contestazione, deve escludersi la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza di un reato che legittimi l’applicazione di misure cautelari personali, coercitive o interdittive.
L’ordinanza impugnata ha escluso la configurabilità del delitto di truffa aggravata, richiamando puntualmente le valutazioni dei G.i.p. ed osservando che, ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 640, secondo comma, n. 1, cod. pen., è necessario l’accertamento del danno erariale, e che, però, nella specie, la presenza in ufficio era ininfluente in relazione a tale profilo, in quanto la retribuzione dell’indagato non era collegata ad orari di lavoro.
Sia l’ordinanza impugnata, sia più ampiamente, quella del G.i.p., tuttavia, danno conto della falsa attestazione della propria presenza in ufficio da parte dell’indagato siccome avvenuta «nella fattispecie mediante l’alterazione dei sistemi di rilevamento, ovvero mediante altre attività fraudolente funzionali a giustificare l’assenza».
La memoria della difesa, nel contestare la configurabilità del reato di truffa, osserva, tra l’altro, che «molte contestazioni appaiono del tutto erronee»; partendo da questa situazione , però, è ragionevole desumere, a contrario, che non vengono, allo stato, poste in discussione le conclusioni dell’ordinanza impugnata in ordine alla sussistenza di “tutte” le condotte di falsa attestazione.
Questa essendo la ricostruzione dei fatti oggetto di accusa, indubbiamente corretta risulta l’esclusione dei gravi indizi di colpevolezza in ordine al reato di truffa aggravata.
In effetti, secondo un principio assolutamente consolidato in giurisprudenza, in tema di truffa aggravata in danno dello Stato, nel caso in cui la condotta consista in ripetute assenze ingiustificate dell’impiegato pubblico dal luogo di lavoro, occorre che queste determinino un danno economicamente apprezzabile, sicché è onere del giudice di merito considerare a tal fine anche l’eventuale ricorrenza di decurtazioni stipendiali conseguenti proprio alla mancata realizzazione della prestazione.
La condotta contestata, tuttavia, non è stata valutata, come sarebbe stato doveroso, con specifico riferimento ai profili della falsa attestazione dell’indagato in ordine alla propria presenza in ufficio, pur puntualmente riferita nell’imputazione provvisoria alla fattispecie di cui all’art. 55-quinquies, comma 1, D.Lgs. n. 165 del 2001.
Si è osservato che sia l’ordinanza impugnata, sia, più ampiamente, quella del G.I.P. danno conto della falsa attestazione, da parte dell’indagato, della propria presenza in ufficio, precisandosi che il mendacio è avvenuto «nella fattispecie mediante l’alterazione dei sistemi di rilevamento, ovvero mediante altre attività fraudolente funzionali a giustificare l’assenza».
Tali condotte, risultano corrispondere esattamente ad alcune di quelle descritte dall’art. 55-quinquies, comma 1, D.Lgs. n. 165 del 2001. Per la Corte di Cassazione , per il perfezionamento della figura di reato appena indicata è irrilevante l’accertamento del danno erariale, posto che la disposizione normativa non fa alcun riferimento a tale profilo, ed in questo senso è stata letta dalla giurisprudenza di legittimità, la quale, in particolare, ha ritenuto ammissibile il concorso tra il reato di cui all’art. 640, secondo comma, n. 1, cod. pen,, e quello di cui all’art. 55-quinquies , proprio osservando come «la predetta fattispecie, a differenza della truffa, si consuma con la mera falsa attestazione della presenza in servizio attraverso un’alterazione dei sistemi di rilevamento delle presenze».
Ne consegue che il giudice del merito cautelare avrebbe dovuto esaminare se le condotte in questione siano sussumibili nel tipo delittuoso di cui all’art.55-quinquies, comma 1, D.Lgs. n. 165 del 2001. In relazione a tale figura di reato, infatti, è prevista una pena da uno a cinque anni, che consente l’applicazione di una misura cautelare personale, coercitiva o interdittiva, ovviamente all’esito di una positiva verifica, in concreto, della sussistenza delle esigenze cautelari.
In conclusione, l’ordinanza impugnata deve essere annullata per nuovo esame; tale nuovo esame dovrà avere ad oggetto l’accertamento della sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza e delle esigenze cautelari nei confronti dell’indagato esclusivamente con riferimento al reato di cui all’art. 55-quinquies, comma 1, D.Lgs. n. 165 del 2001, e, in caso positivo, l’individuazione della misura che risulti idonea, adeguata e proporzionata.

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