03/09/2019 – Recesso della P.A. dal rapporto di lavoro per mancato superamento del periodo di prova del dipendente: la competenza è del dirigente

Recesso della P.A. dal rapporto di lavoro per mancato superamento del periodo di prova del dipendente: la competenza è del dirigente

di Massimo Asaro – Specialista in Scienza delle autonomie costituzionali, funzionario universitario Responsabile affari legali e istituzionali
La sentenza in commento affronta ancora una volta la tematica della competenza a decidere se recedere unilateralmente dal rapporto di lavoro con un dipendente pubblico contrattualizzato per mancato superamento del “periodo di prova”. Tale periodo iniziale è funzionale alla tutela dell’interesse comune alle due parti del rapporto di lavoro, in quanto diretto ad attuare un esperimento mediante il quale sia il datore di lavoro sia il lavoratore possono verificare la reciproca convenienza del contratto, accertando il primo le capacità del lavoratore e quest’ultimo, a sua volta, valutando l’entità della prestazione richiestagli e le condizioni di svolgimento del rapporto (Cass. civ., Sez. lav., sentt. n. 8934/2015n. 17767/2009 e n. 15960/2005). Il periodo di prova mira ad accertare non solo la capacità tecnica ma anche la personalità del lavoratore e, in genere, l’idoneità dello stesso ad adempiere gli obblighi di fedeltà, diligenza e correttezza (Cass. civ., Sez. lav., sentt. n. 5522/2004n. 9948/2001n. 5714/1999 e n. 5696/1986). La discrezionalità del datore di lavoro in ordine all’esito della prova è piuttosto ampia e la prova da parte del lavoratore dell’esito positivo dell’esperimento non è di per sè sufficiente a invalidare il recesso, assumendo rilievo tale circostanza se e in quanto manifesti che esso è stato determinato da motivi diversi (Cass. civ., Sez. lav., sent. n. 1180/2017). Pertanto non è configurabile un esito negativo della prova e un valido recesso qualora le modalità dell’esperimento non risultino adeguate ad accertare la capacità lavorativa del prestatore in prova. Accade ciò, per esempio, nel caso di esiguità del periodo in cui il lavoratore è sottoposto alla prova (Cass. civ, Sez. lav., sent. n. 2228/1999Cass. civ, Sez. lav., sent. n. 2631/1996) o allorquando il prestatore espleti mansioni diverse da quelle per le quali era pattuita la prova (Cass. civ, Sez. lav., sent. n. 10618/2015Cass. civ, Sez. lav., sent. n. 200/1986). Sinteticamente può dirsi che dalla giurisprudenza costituzionale emerge che nel periodo di prova non c’è un mero regime di libera recedibilità dal rapporto essendo comunque consentito, entro ben definiti limiti, un sindacato sulle ragioni del recesso che diventa più incisivo ove insorgano speciali ragioni di tutela del lavoratore.
La sentenza oggetto di disamina è interessante per le valutazioni che compie relativamente alla competenza interna dell’Ente pubblico a decidere di recedere dal rapporto di lavoro e, di conseguenza, a sottoscrivere l’atto in nome e per conto dell’Ente. A tale proposito è utile sintetizzare il contesto costituzionale e legislativo. Partendo dal primo, la Corte Costituzionale ha affermato più volte che una «netta e chiara separazione tra attività di indirizzo politico-amministrativo e funzioni gestorie (Corte Cost. n. 161/2008) costituisce una condizione necessaria per garantire il rispetto dei principi di buon andamento e di imparzialità dell’azione amministrativa» (Corte Cost. n. 81/2013n. 304/2010n. 390/2008n. 103 e n. 104/2007). Riguardo infine all’individuazione dell’esatta linea di demarcazione tra gli atti da ricondurre alle funzioni dell’organo politico e quelli di competenza della dirigenza amministrativa, la Consulta, nel riconoscere la competenza legislativa, ha affermato che essa «incontra un limite nello stesso art. 97 Cost.: nell’identificare gli atti di indirizzo politico amministrativo e quelli a carattere gestionale, il legislatore non può compiere scelte che, contrastando in modo irragionevole con il principio di separazione tra politica e amministrazione, ledano l’imparzialità della pubblica amministrazione» (Corte Cost. n. 81/2013). Passando alle fonti legislative, sono rilevanti l’art. 4, comma 2, D.Lgs. n. 165/2001 secondo cui “Ai dirigenti spetta l’adozione degli atti e provvedimenti amministrativi, compresi tutti gli atti che impegnano l’amministrazione verso l’esterno, nonché la gestione finanziaria, tecnica e amministrativa mediante autonomi poteri di spesa, di organizzazione delle risorse umane, strumentali e di controllo. Essi sono responsabili in via esclusiva dell’attività amministrativa, della gestione e dei relativi risultati.” e poi l’art. 5, comma 2, del medesimo decreto che stabilisce che: “Nell’ambito delle leggi e degli atti organizzativi di cui all’art. 2, comma 1, le determinazioni per l’organizzazione degli uffici e le misure inerenti alla gestione dei rapporti di lavoro, nel rispetto del principio di pari opportunità, e in particolare la direzione e l’organizzazione del lavoro nell’ambito degli uffici sono assunte in via esclusiva dagli organi preposti alla gestione con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro, fatte salve la sola informazione ai sindacati ovvero le ulteriori forme di partecipazione, ove previsti nei contratti di cui all’art. 9“. Disposizioni analoghe sono presenti nel D.Lgs. n. 267/2000 (v. art. 107 e art. 27, comma 1, D.Lgs. n. 165/2001), relativamente al sottoinsieme degli Enti pubblici locali. Dall’analisi delle disposizioni contenute negli artt. 2451617 e 27 del D.Lgs. n. 165/2001 emerge una quadripartizione che secondo la classificazione accolta dalla dottrina e dalla giurisprudenza risulta così articolata: a) macro-organizzazione; b) micro-organizzazione; c) organizzazione del lavoro; d) rapporto di lavoro. Mentre la macro-organizzazione resta assoggettata al diritto pubblico, gli altri tre ambiti sono ricondotti sotto l’egida del diritto privato anche se la sfera contrattabile è circoscritta ai soli profili attinenti al rapporto di lavoro e solo per gli istituti non disciplinati dalle speciali disposizioni del D.Lgs. n. 165/2001 [in dottrina v. attenta ricostruzione di Boscati, La specialità del lavoro pubblico, su Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, 2018]. L’impostazione data dal legislatore è quella di un modello organizzativo che ha superato il principio di gerarchia, poi ha superato pure il principio di direzione (politica) e adottato un principio di autonomia, con la separazione tra indirizzo e gestione [Niglio, Il principio di separazione tra indirizzo politico-amministrativo e gestione nella P.A., tra organi di governo e dirigenza pubblica; l’obiettivo di un equilibrio impossibile, su Lexitalia.it, 2016]. I poteri/doveri dei dirigenti pubblici sono stati di recente modificati dai D.Lgs. n. 74/2017 e D.Lgs. n. 75/2017 ma senza ridurre le distanze tra la dirigenza e il governo dell’Ente pubblico, espresso nei suoi Organi rappresentativi [Nicodemi, Breve storia della dirigenza statale sino alla c.d. riforma Madia, su Lexitalia.it, 2017].
Delineato il quadro costituzionale e legislativo di riferimento, è possibile passare alla conclusione cui giunge la Suprema Corte che, confermando un precedente recente (Cass. civ., Sez. Lav., sent. n. 30931/2018), ha (ri)affermato che la decisione sul recesso della P.A. per mancato superamento del periodo di prova del lavoratore è un atto inerente la gestione, ancorché con finalità estintive, del rapporto di lavoro e perciò essa è di competenza del dirigente e non dell’Organo di governo dell’Ente. Tale competenza è di fonte legislativa statale e non necessita di copertura statutaria o regolamentare intermedia né, tantomeno, di delega.

Print Friendly, PDF & Email
Torna in alto