03/06/2019 – Impossibilità o limiti per la P.A. di fare donazione

Impossibilità o limiti per la P.A. di fare donazione

La sez. controllo Lombardia della Corte dei Conti, con la delibera n. 164 del 8 maggio 2019, chiarisce che il Comune non può fare donazioni.
La donazione si caratterizza per incrementare il patrimonio altrui con la concorrenza di un elemento soggettivo (lo spirito di liberalità), consistente nella consapevolezza di attribuire ad altri un vantaggio patrimoniale senza esservi in alcun modo costretti, e di un elemento di carattere obbiettivo, dato dal depauperamento di chi ha disposto del diritto o ha assunto l’obbligazione[1].
In generale, occorre tenere presente che tutti gli atti di disposizione del patrimonio pubblico, a prescindere dalla forma giuridica adottata non possono che essere funzionalizzati, in ogni caso, all’interesse pubblico, dovendo rilevare che la perdita di un cespite deve essere adeguatamente compensata da una partita di carattere finanziario o con un’“utilitas” di carattere patrimoniale (in termini di uso, proprietà, servizi)[2].
L’esito negativo al quesito posto «in ordine all’ammissibilità, alle condizioni generali e ai limiti che incontra un ente locale nel poter effettuare donazioni con vincolo di scopo (donazioni modali) a favore di enti, pubblici o privati (comunque soggetti a poteri pubblici) che svolgono funzioni di interesse pubblico».
La sez. rileva in primis che nell’ordinamento giuridico non si rinviene una norma specifica avente ad oggetto la facoltà o meno di una P.A. di adottare una cessione di immobile attraverso l’istituto della donazione modale, peraltro senza indicare le finalità pubbliche sottese[3].
Si premette che:
  • l’art. 3, comma 1 del R.D. n. 2440/1923, stabilisce che gli atti di alienazione di beni pubblici devono essere ricondotti nell’ambito dei “contratti attivi”, dai quali deve conseguire un’entrata nel bilancio dell’ente, con la conseguenza immediata che, in linea generale e in assenza di una previsione normativa, non sono riconducibili alla facoltà di un ente locale atti di liberalità che non rispondano, patrimonialmente, ad un interesse pubblico.
  • l’art. 58 della D.L. n. 112/2008 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione Tributaria), convertito nella Legge n. 133/2008 dispone un obbligo a carico delle regioni, province, comuni e altri enti locali, nonché delle società o enti a totale partecipazione dei predetti enti, di individuare «redigendo apposito elenco, sulla base e nei limiti della documentazione esistente presso i propri archivi e uffici, i singoli beni immobili ricadenti nel territorio di competenza, non strumentali all’esercizio delle proprie funzioni istituzionali, suscettibili di valorizzazione ovvero di dismissione»;
  • l’art. 56 bis, comma 11, del D.L. 21 giugno 2013, n. 69, convertito dalla Legge n. 98/2013, nella formulazione conseguente alla integrazione disposta dall’art. 7, comma 5, del D.L. 19 giugno 2015, n. 78, prevede l’obbligo per gli Enti territoriali di destinare prioritariamente all’estinzione anticipata dei mutui il 10 per cento delle risorse nette derivanti dall’alienazione dell’originario patrimonio immobiliare disponibile;
  • le prestazioni gratuite e a “fondo perduto” devono avere un fondamento espresso nella legge (e negli scopi istituzionali dell’ente) e si realizzano di norma attraverso atti amministrativi, per i quali il Legislatore ha cura di fissare precisi limiti normativi e procedimentali (ex 12 della Legge. n. 241/1990), nel senso della trasparenza.
Si conviene che la cessione gratuita di un bene immobile:
  • non costituisce una modalità di valorizzazione dello stesso, dovendo semmai determinare la produzione di un reddito[4];
  • non consente un’entrata per la P.A. (ed al contrario ne costituisce impoverimento);
  • risulta incompatibile con gli scopi istituzionali, sia che si agisca con moduli di diritto pubblico che con strumenti di diritto comune;
  • pur non esistendo un divieto o una norma che preveda l’incapacità a donare da parte di tutti gli enti, la donazione, in ogni caso, non può integrare una mera “liberalità”, anche quando teoricamente ammessa, lo è soltanto in funzione dell’interesse pubblico con essa perseguito[5];
  • in assenza di una disposizione di legge o un chiara compatibilità con gli scopi istituzionali, la causa liberale, funzione per la quale un soggetto dell’ordinamento arricchisce in modo unilaterale e spontaneo un altro soggetto, si presume incompatibile con la capacità giuridica riconosciuta agli enti pubblici[6];
  • l’opzione per un atto di alienazione in forma di donazione, o comunque a titolo gratuito, mal si concilia con i principi giuscontabilistici di trasparenza, pubblicità e concorrenza, nonché di efficienza nella gestione del patrimonio pubblico (ex 3 R.D. n. 2440/1923 e n. 827/1924; D.Lgs. n. 50/2016), considerato il carattere infungibile del destinatario;
  • un’eventuale scelta di dismissione a titolo gratuito dovrebbe avvenire a seguito di un’attenta ponderazione comparativa tra gli interessi pubblici in gioco, dovendo sempre dare la massima considerazione alla conservazione ed alla corretta gestione del patrimonio pubblico, in ragione della tutela costituzionale di cui questo gode (ex 119 comma 6 novellato)[7].
Si conclude nell’affermare che:
  • «la cessione gratuita (donazione modale), di beni pubblici, di norma, non sia consentita perché incompatibile con i principi contenuti nelle norme che disciplinano la cessione e la valorizzazione del patrimonio disponibile della P.A.».
  • l’eventuale cessione gratuita dovrà essere rigorosamente motivata (ex 3 della Legge n. 241/1990), dimostrando l’idoneità della donazione modale per il raggiungimento di uno specifico fine dall’Ente locale, nel rispetto dei principi di adeguatezza e proporzionalità sotto il profilo economico, dando piena contezza dell’assenza di altre opzioni che potrebbero consentire il raggiungimento dell’interesse pubblico perseguito dal Comune nell’ambito dei propri fini istituzionali (fini istituzionali del Comune e non dell’Ente pubblico o privato cui viene ceduto il bene)[8].
A margine, si rileva che i beni pubblici devono produrre reddito (c.d. principio generale di redditività), sicché un’eventuale rinuncia ai crediti derivanti ad es. da un contratto di locazione realizza di fatto la finalità di un “aiuto/contributo/sovvenzione”, da parte dell’Amministrazione locatrice, risolvendosi – anche in questo caso – in un atto di liberalità; atto fonte di responsabilità erariale nei confronti degli amministratori, funzionari e società concessionarie, per la mancata riscossione dei canoni di locazione, tenendo conto del grave depauperamento per le casse pubbliche dovuto alla definitiva perdita del credito[9].
La mancata riscossione delle entrate patrimoniali appare, pertanto, incompatibile con il principio di valorizzazione del patrimonio immobiliare pubblico, sulla cui base, le varie forme di gestione dei beni patrimoniali devono tendere all’incremento del valore economico delle dotazioni stesse, onde trarne una maggiore redditività finale, e al potenziamento delle entrate di natura non tributaria (ex comma 6, dell’art. 58 del D.L. n. 112/2008, rinviando, per le modalità di valorizzazione, alla «procedura prevista dall’articolo 3-bis del D.L. 25 settembre 2001, n. 351, convertito con modificazioni dalla legge 23 novembre 2001, n. 410»).
[1] Cass. Civ., sez. I, 12 marzo 2008, n. 6739; 24 giugno 2015, n. 13087.
[2] Ed ove anche l’attribuzione costituisca attuazione del principio di sussidiarietà, di cui all’art. 118 Cost, l’attribuzione di beni, anche se apparentemente a “fondo perso”, non può equivalere ad un depauperamento del patrimonio comunale, in considerazione dell’utilità che l’ente o la collettività ricevono dallo svolgimento del servizio pubblico o di interesse pubblico effettuato dal soggetto che riceve il contributo, Corte Conti, sez. controllo Lombardia, parere n. 262/2012/PAR e n. 349/2011/PAR.
[3] Il principio fondamentalmente affermato dalla Cassazione è che pur non esistendo un divieto o una norma che preveda l’incapacità a donare da parte di tutti gli enti, la donazione, in ogni caso, non può integrare una mera “liberalità”, Cass. Civ., 22 gennaio 1953, n. 157; Cass. Civ., 17 novembre 1953, n. 3540; Cass. Civ., 5 luglio 1954, n. 2338; Cass. Civ., sez. un., 18 febbraio 1955, n. 470; Cass. Civ., 16 giugno 1962, n. 1525; Cass. Civ., 15 luglio 1964, n. 1906 e 17 marzo 1965, n. 452; Cass. Civ., 7 dicembre 1970, n. 2589; Cass. Civ., 18 dicembre 1996, n. 11311.
[4] Corte Conti, sez. controllo Sardegna, deliberazione n. 4/2008/PAR; sez. controllo Campania, delibera n. 205/2014.
[5] Gli enti pubblici per i loro fini istituzionali sono incapaci di porre in essere atti di donazione e di liberalità che non costituiscono mezzi per l’attuazione di detti fini, Cass. Civ., 7 dicembre 1970, n. 2589.
[6] Cass. Civ., sez. I, 20 novembre 1992, n. 12401, ove si annota che la determinazione di un prezzo irrisorio equivale a mancanza di prezzo, qualora la sproporzione tra le due prestazioni non sia dovuta a spirito di liberalità.
[7] Corte Conti, sez. controllo Veneto, parere n. 33/2009.
[8] Corte Conti, sez. controllo Piemonte, delibera n. 409/2013.
[9] Se, quindi, la riscossione delle entrate patrimoniali si pone come atto doveroso di recupero delle indispensabili risorse materiali necessarie a far fronte alla spesa pubblica, in ossequio al principio di matrice costituzionale (artt. 81, 97, 119 Cost.) di equilibrio dei bilanci pubblici, e anche alla ratio sottesa al procedimento di entrata (accertamento, riscossione e versamento), al di là del principio di indisponibilità dei crediti tributari (che è un precipitato della riserva di legge che presiede alla potestà impositiva) la rinuncia è fonte di responsabilità erariale, Corte Conti, sez. giur. Centrale d’Appello, 12 marzo 2019, n. 78.

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