27/07/2017 – Dipendente pubblico e attività di C.T.U.: l’autorizzazione non è necessaria

Dipendente pubblico e attività di C.T.U.: l’autorizzazione non è necessaria

di Federico Gavioli – Dottore commercialista, revisore legale dei conti e giornalista pubblicista

 

Il Consiglio di Stato con la sentenza n. 3513, del 17 luglio 2017, nel respingere il ricorso di una amministrazione pubblica (azienda ospedaliera) ha affermato che l’incarico di consulente tecnico del giudice C.T.U. non rientra tra le incompatibilità, il cumulo degli impieghi e incarichi previsti dall’art. 53D.Lgs. 165 del 2001.

La vicenda riguarda due medici legali, dipendenti universitari presso una Azienda, iscritti all’albo dei consulenti tecnici d’ufficio presso il Tribunale.

Il regolamento per gli incarichi extraistituzionali per il personale dirigente e tecnico amministrativo, di tale Università, dispone al comma 2, dell’art. 3, rubricato “Iscrizione ad albi professionali e ad altri albi ed elenchi”, che “E’ consentita… senza la necessità di una preventiva autorizzazione dell’amministrazione l’iscrizione agli albi dei Tribunali in qualità di CTU e/o di perito…”.

Lo stesso regolamento, peraltro, al comma 1, lettera n), dell’art. 6, rubricato appunto “Attività soggette ad autorizzazione”, richiede l’autorizzazione dell’amministrazione stessa per le “prestazioni richieste dall’autorità giudiziaria o da altra autorità in conformità ai poteri attribuiti dalla medesima dall’ordinamento giuridico”, e quindi, all’evidenza, anche per svolgere i singoli incarichi di perizia o consulenza tecnica che il dipendente iscritto al relativo albo presso un tribunale si può veder conferire.

Di conseguenza, la delibera commissariale, rivolta al personale dell’Azienda ospedaliera, per i medici dipendenti della struttura, in dichiarata applicazione del D.Lgs. 30 marzo 2001 n. 165, richiede la preventiva autorizzazione per ogni singolo incarico di consulenza che il dipendente in questione riceva.

La sentenza del TAR

I medici ricorrenti hanno impugnato in primo grado il regolamento e la delibera, ritenendo in sintesi illegittima tale limitazione.

Il TAR ha accolto il ricorso e, respinta una serie di eccezioni preliminari; in sintesi ha condiviso la tesi dei ricorrenti; ha infatti ritenuto che l’attività di consulente tecnico d’ufficio dell’autorità giudiziaria sia ricollegabile non ad un rapporto contrattuale di qualche genere, ma all’adempimento di una funzione pubblica nell’interesse dell’amministrazione della giustizia, per cui sarebbe illegittimo, e potenzialmente lesivo dell’indipendenza della magistratura, ammettere l’iscrizione nel relativo albo, salvo poi subordinare l’effettivo esercizio dell’attività ad una autorizzazione da rilasciare caso per caso.

Avverso tale sentenza l’Università ha proposto appello ritenendo, tra l’altro:

– difetto di giurisdizione del Giudice amministrativo in favore dell’Autorità giudiziaria ordinaria;

– violazione dell’art. 53D.Lgs. n. 165 del 2001, nel senso che la consulenza tecnica d’ufficio sarebbe comunque soggetta ad autorizzazione.

Le incompatibilità generale e assoluta con il lavoro da dipendente pubblico

Il rapporto di lavoro subordinato intercorrente con ente pubblico è esclusivo. In generale sono incompatibili con il rapporto di lavoro presso un ente pubblico :

– le attività non conciliabili con l’osservanza dei doveri d’ ufficio ovvero che ne pregiudichino l’imparzialità e il buon andamento;

– le attività che concretizzino occasioni di conflitto di interessi con l’ente pubblico di appartenenza;

– gli incarichi che, per l’impegno richiesto o le modalità di svolgimento, non consentano un tempestivo, puntuale e regolare svolgimento dei compiti d’ufficio;

– le attività che arrechino danno o diminuzione all’azione e al prestigio dell’ente pubblico.

Nello specifico sono incompatibili:

a) l’assunzione alle dipendenze di privati o di pubbliche amministrazioni;

b) consulenze o collaborazioni che consistano in prestazioni comunque riconducibili ad attività libero professionali;

d) l’esercizio di attività prive delle caratteristiche della saltuarietà e occasionalità;

e) l’accettazione di cariche nei consigli di amministrazione o nei collegi sindacali di società costituite a fine di lucro;

f) incarichi affidati da soggetti che abbiano in corso, con l’Amministrazione, contenziosi o procedimenti volti a ottenere o che abbiano già ottenuto l’attribuzione di autorizzazioni, concessioni, licenze, abilitazioni, nulla osta, o altri atti di consenso da parte dell’Amministrazione stessa;

g) incarichi attribuiti da soggetti privati fornitori di beni e servizi dell’ente pubblico di appartenenza o da soggetti nei confronti dei quali il dipendente o la struttura di assegnazione del medesimo, svolga attività di controllo, di vigilanza e ogni altro tipo di attività ove esista un interesse da parte dei soggetti conferenti;

h) le attività professionali per il cui esercizio è necessaria l’iscrizione in appositi albi o registri, fatto salvo quanto previsto dalla disciplina in materia di part-time, di esercizio della libera professione per la dirigenza e per il comparto o da specifiche normative di settore;

i) attività industriali, artigianali e commerciali svolte in forma imprenditoriale ai sensi dell’art. 2082 del codice civile, ovvero in qualità di socio unico di una s.r.l., di società in nome collettivo, nonché di socio accomandatario nelle società in accomandita semplice e per azioni, fatto salvo quanto previsto dalla disciplina in materia di part-time. Il divieto non riguarda l’esercizio dell’attività agricola quando la stessa non sia svolta in qualità di coltivatore diretto o di imprenditore agricolo a titolo principale;

l) titolarità o compartecipazione delle quote di imprese, qualora le stesse possano configurare conflitto di interesse con l’ente pubblico di appartenenza.

Tali divieti valgono anche durante i periodi di aspettativa a qualsiasi tipo concessi al dipendente, fatti salvi i casi espressamente previsti dalla normativa.

L’analisi del Consiglio di Stato

Per il Consiglio di Stato l’appello è infondato e va respinto. E’, anzitutto, infondato il primo motivo, in cui si sostiene il difetto di giurisdizione del Consiglio di Stato in favore del Giudice ordinario. Per costante giurisprudenza (Cfr. Cass. civ. S.U. 27 febbraio 2017 n. 4881), sono infatti devolute alla giurisdizione generale di legittimità del Giudice amministrativo le controversie in cui si impugnino “gli atti di macro organizzazione mediante i quali le amministrazioni pubbliche definiscono le linee fondamentali di organizzazione degli uffici”.

I giudici di Palazzo Spada osservano che il regolamento e il provvedimento del Commissario dell’azienda sanitaria appartengono all’evidenza a tale categoria, perché fa sicuramente parte dell’organizzazione dell’ufficio, e in particolare del razionale impiego delle risorse umane ad esso assegnate, stabilire quali attività estranee al servizio un dipendente possa esercitare, e nel caso a quali condizioni.

Il Consiglio di Stato evidenzia che l’interesse al ricorso immediato avverso un regolamento, che pure è per definizione atto generale ed astratto, sussiste in presenza della semplice obiettiva incertezza che le sue prescrizioni possono ingenerare sul regime dell’attività dei destinatari, e non richiede l’ulteriore pregiudizio rappresentato da atti sfavorevoli applicativi.

Per il Consiglio di Stato è infondata la motivazione che l’attività di C.T.U. sarebbe soggetta ad autorizzazione.

La norma di riferimento è l’art. 53D.Lgs. n. 165 del 2001, rubricato “Incompatibilità, cumulo di impieghi e incarichi”, che ai commi 7, 8 e 9, stabilisce per i dipendenti pubblici un divieto generale di assumere senza autorizzazione dell’amministrazione cui appartengono “incarichi retribuiti che non siano stati conferiti o previamente autorizzati dall’amministrazione di appartenenza”, e corrispondentemente proibisce alle altre amministrazioni, agli enti pubblici economici e ai privati di conferirli senza tale autorizzazione.

Secondo l’azienda sanitaria ricorrente, le disposizioni di regolamento impugnate sarebbero legittime, in quanto semplicemente applicative di tali norme di legge.

Il Consiglio di Stato è di diverso avviso, e condivide sul punto quanto affermato dal Giudice di primo grado.

Gli “incarichi “ai quali le norme citate fanno riferimento sono infatti di tipo essenzialmente diverso da quelli di consulenza tecnica oggetto del presente contenzioso.

Ciò si afferma anzitutto con riguardo al soggetto che li conferisce, che è l’Autorità giudiziaria, ovvero il giudice o il P.M. ai sensi degli artt. 221 e 233 c.p.p., 191 c.p.c. e 19, comma 2, c.p.a., e quindi un soggetto non identificabile con le pubbliche amministrazioni, gli enti pubblici economici ovvero i privati cui l’art. 53D.Lgs. n. 165 del 2001 si riferisce.

Ciò va affermato poi anche con riguardo alla natura intrinseca dell’incarico, che non costituisce l’oggetto di un contratto di prestazione d’opera professionale o di altro tipo, ma una funzione pubblica che si adempie a fini di giustizia.

Lo conferma anche il relativo regime giuridico, per cui l’assunzione dell’incarico è doverosa, come si ricava dall’art. 366 c.p., secondo il quale costituisce reato la condotta di chi, nominato all’ufficio, ne ottenga con mezzi fraudolenti l’esenzione, e dall’art. 63 c.p.c., per cui “Il consulente scelto tra gli iscritti in un albo ha l’obbligo di prestare il suo ufficio, tranne che il giudice riconosca che ricorre un giusto motivo di astensione”.

Ciò posto, un’interpretazione delle norme dell’art. 53D.Lgs. n. 165 del 2001 nel senso di comprendere comunque gli incarichi di consulente tecnico per l’autorità giudiziaria sarebbe altresì contraria alla Costituzione, come pure notato nella sentenza impugnata.

La Corte costituzionale, con la sentenza 14 aprile 1998 n. 440, ha infatti ritenuto contrastante con l’art. 101 Cost, e con l’indipendenza della Magistratura da esso garantita una norma di legge, la quale vietava al magistrato di scegliere il perito cui affidare la perizia in materia di opere d’arte e lo obbligava a tal fine a rivolgersi ad un organo amministrativo, nella specie al Ministro per i beni culturali, per averne l’indicazione della persona alla quale conferire il relativo incarico.

E’, infatti, evidente che è solo formale l’indipendenza di un Giudice al quale è precluso, o reso difficile, accedere alle conoscenze tecniche e specifiche necessarie al corretto apprezzamento dei fatti da giudicare.

Il Consiglio di Stato, pertanto, respinge il ricorso e condanna l’azienda sanitaria ricorrente anche al pagamento delle spese di giudizio.

Cons. di Stato, 17 luglio 2017, n. 3513

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